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Ralph De Palma. L’Invincibile

2.889 gare, 2.557 vittorie. Nessuno mai come lui. Unico italiano per due volte campione statunitense di automobilismo, unico a fissare un record mondiale di velocità a Daytona Beach, unico a vincere una Indy 500. Ralph De Palma, Raffaele all'anagrafe di Biccari, ha avuto una vita straordinaria. Questa è la sua storia.
Ralph De Palma

Raffaele, Raffaele, mi sembra di vederti occhi sgranati davanti al mare e la mano stretta a quella di papà. Qualcuno dei grandi te ne aveva parlato del mare, ma erano solo storie, magari anche fantasie. Adesso invece era lì, davanti a te.  E chissà quante volte ti sarai chiesto quando sarebbe finito quel mare che sembrava non finire mai e che ti portava non sapevi bene dove. Raffaele, chissà quante volte ti sarai voltato indietro cercando gli occhi e le mani di tua madre.
Avevi dieci anni, sapevi poco della vita e nulla del futuro. Sapevi che eri lì, su una nave grande che più grande non si poteva, attufato nei corridoi stretti e affollati di una terza classe che puzzava di umanità. Con te papà Pietro e i tuoi fratelli. Mamma no, mamma era rimasta a Biccari perché così si usava al tempo. Prima partivano gli uomini di casa e poi le donne li raggiungevano. Forse.
Era il 1892 e su quel piroscafo tu eri ancora Raffaele. Dieci anni di vita, piccolo, occhi scuri, figlio di una Puglia che lo Stupor Mundi aveva immensamente amato, figlio di una Puglia amara da cui si doveva andare via per tirare a campare.
Ci vorrà ancora un po’, ma lì dove stai andando tu diventerai Ralph, Ralph De Palma.
Ti ho incontrato in una vecchia foto. Viso aperto, sorriso pronto, vestito da pilota dai la mano a un bambino vestito quasi come te. Mi sono incuriosito e così ho iniziato a cercare notizie di te. Volevo scrivere la tua storia, così pensavo. Poi la storia mi ha preso la mano e invece di scrivere ho iniziato a parlarti.

Ralph De Palma

New York, New York

La statua là in fondo, quella che sembrava salutare tutti,  era immobile come il tempo che non passava mai. Il mese di viaggio era stato lungo, mai ti erano sembrate così lente le giornate a Biccari, ma ora, a Ellis Island, il tempo sembrava fermo proprio come quella statua che guardavi in lontananza. Liberty la chiamavano, libertà ti hanno poi spiegato. Ma come te la potevi immaginare la libertà a Ellis Island? Vi avevano messo in fila, interrogato, chiesto perché e per come eravate venuti, cosa cercavate, cosa volevate. Ma chi li capiva come parlavano. E quella signora poi, lei che traduceva, neanche lei capiva bene come parlavate voi, italiani sì, ma pugliesi dauni. Poi le visite, i denti, le palpebre rovesciate, le unghie e anche lì, in mezzo alle gambe dove ti vergognavi. Non era ancora tutto. Serviva tempo. Ancora tempo. “Quarantena” dicevano, “dovete stare in quarantena perché puzzate come pecore e portate malattie“.
Ci siamo stati tutti a Ellis Island, ma da turisti. I bauli, le valige, gli abiti, le lettere, ognuno una storia, ognuno un dolore, ognuno una speranza. Museo dell’Immigrazione lo hanno chiamato. Sono stati bravi, puoi anche consultare un archivio per vedere se qualcuno dei tuoi di cuii hai sentito dire sia passato di lì.
Ci siamo stati tutti,
ma a veder bene, Ellis Island più che un museo è ancora una fitta al cuore.
A dieci anni però hai tutta la vita davanti. A dieci anni alla vita puoi dare l’assalto in velocità.

Ecco, quasi ci siamo Ralph

La velocità. Musa, dea, nume. Cosa è stata per te la velocità se non tutto e più di tutto questo messo insieme?
Tuo padre Pietro non rimane con le mani in mano. Brooklyn è un postaccio, Joe Petrosino contro la Mano Nera non è ancora un fumetto, ma voi solo lì potete stare. Tuo padre dimentica i campi, dimentica i boschi dove raccoglieva legna da vendere, dimentica tutto e s’inventa barbiere. Apre un negozietto e inizia a lavorare, tu e i tuoi fratelli aiutate, fate quello che potete. Ho letto che sei anche andato scuola, però. “Studia” mi sembra di sentirla la voce di tuo padre, “Studia, che non devi rimanere cafone tutta la vita”. E tu hai studiato, certo, quello che bastava e senza smettere di lavorare. Anzi ti piaceva lavorare. Quando hai iniziato a fare consegne per il negozio di frutta e verdura i clienti ti davano le mance, qualcosa per te e qualcosa per casa, per andare avanti. Per fare veloce al negozio ti avevano dato una bicicletta. Noi boomer forse siamo stati gli ultimi a desiderare una bicicletta da ragazzini, ma a fine ottocento la bicicletta somigliava molto al futuro. Tu ci davi dentro di gambe, spingevi sui pedali con tutta la schiena e andavi veloce. Veloce sì, veloce. È cosi che hai iniziato a vivere. È così che hai iniziato a diventare Ralph De Palma e a prendere in mano il destino che avevi addosso.

Sempre più veloce

Pedali forte, più consegne fai e più mance ricevi. Poi inizi a pensare che puoi correre anche senza dover fare le consegne. Lo pensi e lo fai. Hai messo un po’ di soldi da parte, ti compri una bicicletta tutta tua. Nel 1897 inizi a correre sulla pista di Manhattan Beach, poi ti iscrivi a una gara, poi a un’altra e poi a un’altra ancora. Nel 1899 non consegni più frutta e verdura, ma lavori proprio in un negozio di biciclette. Fred Baker, concessionario delle biciclette Pierce, ti prende a ben volere. La prima gara la vinci al velodromo di Vailsburg, New Jersey. Inizi a incassare i primi premi. Poca roba, gare amatoriali, ma tu hai diciassette anni e tanta voglia di correre.
Veloce sì, forse anche per andare lontano dai ricordi che mordono, lontano da una terra che ti è sfuggita di mano. Forse anche lontano dal ricordo di tua madre. Un ricordo che morde e fa male.
Nel 1902 passi professionista. È ciclismo eroico quello del tempo, strade improbabili, ma anche velodromi con piste in legno e traiettorie paraboliche. Le Sei Giorni spopolano, in pista ci sono giganti come Charles Miller, ma tu fai la tua parte come, ad esempio, vincere la 12 ore di Rochester.

Ralph De Palma

Dai pedali al motore

Nel 1904 l’innovazione si chiama biciclette a motore. Baker ti mette sopra una Indian e tu inizi a gareggiare anche con quella. La stagione delle motociclette, però, dura poco, ma il motore non uscirà più dalla tua vita.
In quel periodo fai diversi lavori; meccanico per un rivenditore di automobili, ma anche autista per il Curtis Brothers Garage di Brooklyn. È così che inizi a lavorare per i Vanderbilt, famiglia dell’alta società con grandi interessi che spaziano dalle costruzioni alle ferrovie.

Vanderbilt fate

La vita è fatta di incontri; quello con la famiglia Vanderbilt è per te uno di quelli che lasciano il segno.
William Kissam Vanderbilt II ha solo qualche anno più di te, la differenza per nascita è abissale, ma anche lui è uno sportivo appassionato, pratica con successo la vela, è affascinato dai motori e si porta a casa i suoi risultati.
Nel 1904, a Daytona Beach, William entra nell’albo d’oro della velocità spingendo la sua Mercedes a toccare le 92,30 miglia orarie e stabilendo il record mondiale di velocità. Chissà se te lo ricorderai quindici anni dopo.
Il 1904 per William significa anche altro. E in quest’anno che decide di organizzare una competizione motoristica riservata ai produttori americani così da stimolarne la competitività con quelli europei.  
La gara prende il nome di famiglia. La Vanderbilt Cup nasce così.
È in questi anni che incontri Clara Wenger e te ne innamori. Alcune fonti labili dicono che lavorava come governante per i Vanderbilt altre invece dicono che lavorava per un altro ricco industriale. Comunque sia la sposi e Clara diventerà tua moglie. La prima, ma non l’ultima.
Nel 1906 accade anche altro. I Vanderbilt ti coinvolgono nella loro gara; un ingaggio, una sorta di commissario tecnico, nulla di particolare, ma la velocità preme e batte un altro colpo.

L’esordio

Le fonti sono un po’ labili, ma sembra proprio che il tuo esordio in una corsa automobilistica ufficiale sia stato il 24 aprile 1908 alla Briarcliff Throphy Race, the First American International Road Race come la presentavano i promotori.
Un esordio con il botto, nel senso letterale del termine.  Al quinto giro la tua Allen Kingston finisce contro un muro. La gara per te finisce.  A vincerla sarà  Lewis Strang su Isotta Fraschini, secondo è Emanuel Cedrino su Fiat Cyclone.
Chissà se nei momenti pre-gara hai incrociato Joan Newton Cuneo, pioniera del motorismo femminile non ammessa a quella corsa proprio perché donna.
In ogni caso l’incidente ti procura molta pubblicità. L’auto è schiantata contro un muro, tu ne esci bene e mentre pensi alla pelle salvata Fred Moskovics, il rivenditore delle Allen, scatta una foto di quel che resta. Tra i dettagli colti dalla fotografia, il tachimetro ormai fisso segna la velocità dello schianto: 100 miglia orarie.  Non male.
La fotografia fa il giro dei giornali e qualcuno inizia ad accorgersi di te. La Fiat, ad esempio, che ti ingaggia per guidare una Cyclone al Gran Premio che si corre a Savannah il 26 novembre. Non vinci, anzi ti ritiri per un guasto meccanico, ma fissi il giro più veloce alla media di 69,80 miglia orarie.

Ralph De Palma

2.557 su 2.889

C’è da dire che nei circa 26 anni di gare automobilistiche ti sei impegnato non poco per mettere in difficoltà noi che ci saremmo presi la briga di raccontarti dopo una vita.
Il fatto è che su 2.889 gare ufficiali a cui partecipi, ne vinci 2.557.
Come te, mai più nessuno. Se esiste un campione, un paladino del motorismo, questo sei tu.
Impossibile raccontare tutte le gare, tutte le storie e tutti gli aneddoti che ti riguardano, ma ce ne sono alcune che non voglio lasciare appese. Sorvolando, ricordo solo che nel 1912 e nel 1914 vinci la Vanderbilt Cup, che in quelle edizioni coincide con il Gran Premio degli Stati Uniti, nel 1915 vinci Indianapolis 500 e nel 1929 sei campione canadese.
Nel mezzo fondi anche la De Palma Manufacturing Company per costruire motori di aereo e auto da competizione. L’impresa sarà una breve parentesi, una meteora della tua vita, ma la dice lunga su quello che mordeva l’anima a quel bambino con gli occhi scuri costretto alla quarantena ad Ellis Island.
Ora, però, lasciami dire quello a cui tengo.

Indianapolis 1912

La scena è epica, Virgilio la racconta, Bernini la fissa nel marmo. Enea fugge da Troia in fiamme, sulle spalle il padre Anchise che porta in salvo l’urna con le ceneri degli antenati, i Lari Tutelari, il figlio Ascanio lo segue attaccato alla gamba e porta con sé il fuoco sacro, quello che Roma nel Tempio di Vesta non spegnerà mai.
Un passo avanti.
Siamo a Indianapolis, il 30 maggio del 1912. Anche qui siete in tre: ci sei tu, Ralph De Palma, c’è il tuo meccanico Rupert Jeffkins e la tua Mercedes Gray Ghost. Con un motore 9,600 di cilindrata e quattro cilindri, il soprannome dice tutto della macchina numero 4.
Già dalla partenza non ce n’è per nessuno, passi in testa da subito e ci rimani per 196 dei 200 giri del circuito lastricato di mattoncini. Al 196esimo, il secondo dietro è staccato di cinque giri. Poi accade qualcosa, il motore batte diversamente, perde potenza. Quattro cilindri meno uno. Dietro di te corrono, tu non più. Due giri a velocità ridotta, 20, forse 30 miglia, il massimo che puoi. Joe Dawson con la sua National ti raggiunge e passa. Tu non molli, lui neanche. Ti passa ancora e inizia a non credere ai suoi occhi. A due giri dalla fine sei ancora in vantaggio, ma la cinghia di trasmissione si rompe, la macchina ti pianta e non c’è verso di farla ripartire.
Non ci pensi un attimo in più. Scendi, scendete.
La Mercedes pesa quanto un monumento, tutto ferro mica i materiali compositi di oggi. Potrebbe finire così, invece no. Non finisce così.
Sugli spalti 40.000 persone rumoreggiano. Poi capiscono. Si alzano in piedi. Gridano, si sbracciano, applaudono.
Ecco Virgilio, ecco Bernini, ecco Enea, Anchise e Ascanio. Sono lì davanti ai quarantamila. Siete tu e Rupert che spingete la Mercedes. Vi passano tutti, ma voi spingete ugualmente perché tu lo sai che non si molla mai.
Se a Biccari ti vedessero, piangerebbero.

De Palma Indianapolis 1912

Tu e Rupert passate alla storia, la fotografia vince la battaglia con il tempo e ancora oggi è una delle più belle del motorismo eroico.
Tagli il traguardo, ma per la gara non conta più. Sei ultimo, ma anche questo non conta più. Il pubblico è in visibilio.
Joe Dawson vince, ma tu sei un eroe.
Nessuna gara è vinta finché non si taglia il nastro, l’ho sempre saputo. Oggi è stata una gara sfortunata, ma fa parte del gioco. Ho fatto del mio meglio e, visto che ho perso, rendo omaggio al vincitore”. Così hai detto in un’intervista dopo la gara.
Non lo sai, ma ti applaudono anche Virgilio, Bernini, Enea, Anchise e Ascanio.
Non lo sai, ma la Indy 500 te la prenderai nel 1915.

De Palma vs Oldfield

La vita dei campioni è fatta di grandi rivalità. Campioni contro campioni, uomini contro uomini, destini contro destini. Barney Oldfield è stato uno dei piloti più forti di inizio secolo. Simile alla tua la sua storia. Anche lui inizia correndo in bicicletta e anche lui passa alle biciclette a motore prima di esordire, nel 1902, nelle gare di automobili. Si ritirerà dalle competizioni nel 1918 per poi dedicarsi a esibizioni e tournée. Nel mezzo di tutto questo, la vostra rivalità sarà accesa.

Oldfield, De Palma

Tra i tanti episodi, uno su tutti

Vanderbilt Cup, Santa Monica, 27 febbraio 1914. Nel tempo dirai che questa è stata la tua gara più bella. L’anno prima la Mercer ti aveva messo alla porta senza troppi complimenti. Al tuo posto ingaggiano Barney Oldfield. Tu hai animo sportivo, ma non memoria corta.
Alla Vanderbilt corri con la Mercedes. Alle qualifiche stenti un po’, entri, ma i secondi di distacco da Oldfield sono ben 40. La partenza è bruciante, Oldfield è subito in testa. Tu fai finta di nulla, pensi alla tua gara, soprattutto pensi a risalire posizioni giro dopo giro. Al tredicesimo sei quinto, al diciottesimo, complice la sosta ai box di Oldfield, passi in testa. Dura poco, Oldfield rientra, recupera e al venticinquesimo è nuovamente primo lui.
Mancano dieci giri alla fine. Oldfield spinge come un dannato, alla macchina chiede tutto e non solo al motore, alla meccanica. Chiede tutto anche agli pneumatici. Chiede più del possibile.
Tu capisci e fai la mossa. In prossimità dei box rallenti e segnali che stai per entrare. Oldfield sente la vittoria in tasca, accumula vantaggio, guarda solo avanti, ti pensa ai box e al giro successivo si ferma anche lui per cambiare gli pneumatici che non reggono più. Quello che accade dopo gli rimarrà stampato a vita nella memoria. Tu non ti sei fermato. Hai fatto finta. Oldfield lo capisce quando, da fermo, ti vede sfrecciare in pista. Urla ai meccanici di fare presto, morde il freno poi finalmente rientra. Corre, corre allo spasimo, ma non ti riprende più.
Il tuo secondo campionato nazionale degli Stati Uniti lo vinci così.
Di testa e di cuore.

De Palma Daytona Beach, 1919

Daytona Beach 1919

Dimenticate NASCAR, l’International Speedway e la 24 Ore. Questa storia inizia molto prima. Questa storia inizia quando a Daytona si correva su una fettuccia di sabbia stesa tra dune e oceano. Sabbia dura, liscia, Ormond Beach era perfetta per lanciare macchine e uomini al massimo. Dal 1904 al 1935 quindici record ufficiali di velocità sono stabiliti e battuti qui.
Il 12 febbraio 1919, a Daytona Beach, ci sei tu e chissà se ti ricordi che il primo record qui lo aveva fissato proprio William Vanderbilt nel 1904.
Forse lo sai, ma non ci pensi. Forse pensi solo che sei seduto su una bestia.
La Packard 905 Special, 9.900 di cilindrata, motore V-12 a tre velocità, avviamento elettrico, telaio modificato dalla vettura di serie, pistoni in alluminio, non possiamo chiamarla diversamente.
Il pubblico assiepato è quello delle grandi occasioni. Sono accorsi in migliaia e tutti si aspettano il massimo da te. Non li deludi. Domi la bestia e fermi il tempo. La Packard fa segnare 149,875 miglia orarie (circa 241 km/h) su un miglio.
Il record è riconosciuto ufficialmente a livello internazionale. I tentativi di Tommy Milton nel 1920 e di Sir Malcom Campbell nel 1922 invece non lo saranno e, fino al 1927, il record sarà tuo.

Daytona Beach record

 

Storia e memoria

Sei stato unico per tanti motivi. A distanza di anni, la tua vita ancora parla per te. Dall’Italia sei andato via come tanti. Come tanti ti sei rimboccato le maniche e hai cercato di fare quello che sapevi e di imparare quello che non sapevi. Come pochi sei riuscito a diventare un esempio per tutti. Per tutti gli altri broccolini, a lungo figli di un Dio minore, ma anche per tutti gli altri che non sono partiti. Più fortunati o meno coraggiosi, vai a saperlo.
Cittadino statunitense lo diventi solo nel 1920.
Questo significa che sei l’unico italiano a diventare due volte campione americano di automobilismo e a stabilire un record mondiale di velocità a Daytona Beach.
La tua storia dovrebbe essere raccontata a scuola. Non è successo. Non succede. L’unico a non averne colpa sei tu.
Il resto è dipeso e dipende solo da noi. Non da tutti, però. Solo da chi ha paura della storia e della memoria.
A Biccari ti ricordano. Qualche anno fa hanno costituito un comitato che tra mille difficoltà ha provato a passare la palla avanti. Un libro e un docufilm hanno parlato di te. Dopo il nulla. Non basta, non dovrebbe bastare.

De Palma TAcoma 1920

L’invincibile

In un’intervista televisiva Enzo Ferrari ti riconosce il merito di aver ispirato il suo sogno di diventare corridore automobilistico. Dice anche che tutta la sua vita, da pilota prima e da costruttore poi, è stata ispirata da quel sogno.
Molti hanno sognato con te, Ralph. Quelli che hanno visto in te un divo, quelli che hanno visto in te il volto e le braccia di un padre, di un marito o un figlio che magari non ce l’avevano fatta, ma che ce l’avevano comunque messa tutta. Far sognare è un merito, privilegio di pochi, ma è un regalo per tutti.
Te ne sei andato nel 1956 divorato dall’unica bestia che non hai saputo domare, il cancro che ti ha divorato da dentro perché non aveva il coraggio di guardarti in faccia. Sembra che dopo una vita di successi, tu sia morto povero. Non so quanto sia importante. È importante però sapere che a pochi metri da te, nello stesso cimitero di Culver City, in California, riposa anche il tuo antagonista per eccellenza, Barney Oldfield. Il cerchio si chiude con la scritta che hai voluto sulla tua lapide “1915 Indianapolis Speedway winner“. Sono sicuro che a Oldfield, nel frattempo, l’arrabbiatura sarà passata.
Sei spesso ricordato come l’uomo più veloce della Terra.
È vero, lo sei stato. Lo sei stato per alcuni anni. Sic gloria transit mundi. La velocità è per natura inafferrabile, sfuggente, effimera. Qualcuno lo era stato prima di te, altri lo sono stati dopo di te.
Per questo io preferisco ricordarti e salutarti diversamente.
La velocità non ferma il tempo, i numeri sì.
2.557 vittorie su 2.889 gare: per questo per me sei Ralph de Palma, l’Invincibile.
Buona corsa amico mio.

Marco Panella, (Roma 1963) giornalista, direttore editoriale di Sportmemory, curatore di mostre e festival culturali, esperto di heritage communication. Ha pubblicato "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015), "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016) il thriller nero "Tutto in una notte" (Robin 2019) e la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021)

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