Gli scenari tattici del calcio del futuro sembrano ridimensionare notevolmente il ricorso al gioco aereo, rispetto al più sicuro e razionale controllo della sfera a terra. Mentre si dibatte del colpo di testa tra tattica ed estetica, c’è stato tuttavia un tempo in cui le battaglie volanti non si sono risparmiate
La visione del gioco
La zona del campo, il pallone, la posizione dei compagni e quella degli avversari. Governare simultaneamente queste quattro variabili, nel corso dinamico di una partita, necessita oggi di un approccio quanto più lucido possibile. Un approccio che richiede di ridurre al minimo le situazioni d’incertezza sulla contesa della palla. Quella che in un passato, neanche tanto remoto, era una dimensione legata ai duelli aerei fra i saltatori, in un futuro chissà quanto distante potrebbe addirittura dissolversi fino a scomparire. La statura elevata di difensori e attaccanti, da valore assoluto, si è via via trasformato in relativo. L’elevazione, con il trascorrere dei decenni, non è più rimasta appannaggio dei giocatori più alti, una volta che la scelta di tempo nell’anticipare il rivale si è dimostrata una dote preziosa, soprattutto in chiave difensiva.
Un nome su tutti, quello di Fabio Cannavaro, capitano dell’Italia campione del mondo nel 2006 e Pallone d’oro nello stesso anno, con il suo metro e settantasei centimetri di altezza.
C’era una volta il calcio di rinvio
Ai tempi delle marcature a uomo, quando l’elemento atletico finiva per essere determinante in area di rigore, svettare più in cima del diretto contendente garantiva una sorta di superiorità. Il possesso della palla, dunque, si andava a rosicchiare quando questa spioveva da lanci lunghi, sorvolando più teste possibili fra i calciatori distribuiti sul campo di gioco. Un’occasione da gol che si perdeva sul fondo rappresentava, per la squadra chiamata a rinviare il pallone, un’opportunità concreta di rovesciamento del fronte. Era sufficiente un rinvio lontano in grado di oltrepassare tre quarti del terreno di gioco, e la porta avversaria era tutt’altro che un miraggio. L’aspetto aleatorio di tale propensione offensiva dipendeva ovviamente dall’esito del duello fra coloro che avrebbero tentato di recuperare la palla.
Muscoli da rinvio
A questo proposito, la potenza muscolare del portiere, giocava un ruolo importante. Più avanti avrebbe scagliato la sfera, più chance di puntare l’area avversaria la sua squadra avrebbe ottenuto.
Talvolta, a compiere la ritualità del lungo e arcuato calcio di rinvio non era l’estremo difensore, ma un giocatore di movimento dotato di particolare esplosività nelle gambe. Luca Pellegrini, capitano della Sampdoria di Vujadin Boškov degli anni Ottanta, per esempio, era specializzato nei calci di rinvio. Il compagno di reparto Gianluca Pagliuca custodiva la porta. E lui, una volta scampato il pericolo, si occupava di rilanciare la manovra verso la trequarti.
Generazioni di colpitori di testa
La sottolineatura contemporanea sui possibili rischi per la salute connessi ai traumi al capo deriva da alcuni studi specifici sul caso. Un campo di ricerca tuttora in fase di evoluzione che però pare stia contribuendo a tracciare una linea.
Da qui, all’eventuale e progressivo abbandono delle incursioni aeree come soluzioni di gioco, il percorso potrebbe essere anche breve. E passare da approcci nettamente più ragionati. Uno su tutti, la costruzione dal basso, che non ha ancora conquistato il gradimento dei tifosi, probabilmente per il tasso di errori, spesso decisivi ai fini del risultato, con cui viene accompagnata.
In ogni caso, al di là delle preferenze soggettive, la memoria storica sportiva degli appassionati non può prescindere dal periodo in cui i colpitori di testa rappresentavano una chiara arma in più, in dotazione alle squadre in cui militavano. Autentiche generazioni di atleti disposti al colpo di testa per contendere il pallone in aria, ora per allontanarlo dalla propria area ora per minacciare quella avversaria.
Nomi e cognomi
Dall’ariete John Charles che imperversava negli anni Sessanta con il soprannome di Gigante buono, ogni decennio ha annoverato i suoi saltatori. Pelé che supera in elevazione il suo marcatore Tarcisio Burgnich, detto la Roccia, non è solo un alpinista del calcio di tutti i tempi che sale sulla vetta del mondo nella finalissima del 1970. Incarna l’essenza atletica di quel gesto fin quasi a renderlo icona.
In Europa, la Germania ha spesso sfornato cannonieri volanti, da Uwe Seeler a Horst Hrubesch, fino a Oliver Bierhoff. E se la Gran Bretagna sfodera centravanti come lo Squalo scozzese Joe Jordan o l’inglese Mark Hateley, mentre l’Olanda esibisce le doti volanti dei tulipani Ruud Gullit e Marco van Basten, anche l’Italia non si tira fuori, coltivando negli anni una tradizione di attaccanti che sfidano la gravità eviolano reti con il colpo di testa. Come Roberto Bettega, Roberto Pruzzo o Alessandro Altobelli, senza trascurare numerosi altri nomi, fino ad arrivare ai campioni contemporanei.
Come immaginare, dunque, un ipotetico scenario tattico e tecnico di domani, condizionato da questa eventuale novità?
Gli ultimi testimoni dell’epoca del gioco aereo, in un primo momento magari saranno disorientati dal cambio di passo, reinventandosi successivamente in nuovi ruoli funzionali alle esigenze della squadra.
Il nuovo rinascimento del tiro al volo?
Il futuro appena prospettato probabilmente suscita scetticismo in chi è ancorato alle radici del calcio. Eppure, una riflessione che potrebbe rivelarsi consolatoria per i nostalgici è legata proprio al recupero del bagaglio tecnico dei calciatori più avvezzi alla giocata raffinata.
Una delle più amare constatazioni relative al pallone della modernità riguarda, per esempio, la scomparsa dei fantasisti.
I discorsi sugli schemi che imprigionano l’estro dei giocatori più brillanti, le scelte degli allenatori che sacrificano pedine più imprevedibili e difficilmente gestibili, potrebbero subire un ribaltamento.
Se il colpo di testa, infatti, è destinato al tramonto, la nuova alba magari sorgerà sulla ripresa del tiro al volo coi piedi. Gli scambi in velocità, palla a terra, germogliati per strada e in campetti dai confini immaginati e privi di porte coi pali che si estendono in altezza – luoghi che rappresentano autentici cantieri per il talento, ricordati nelle interviste da numerosi calciatori a fine carriera ma difficilmente rintracciabili nella modernità – potrebbero subire un’insolita rivalutazione.
Prodezze acrobatiche figlie dell’intuito e della creatività, così semplicemente, muteranno lo strumento principale di azione – dalla testa ai piedi – in nome di un controllo della sfera parimenti elegante.
A restare invariata sarà la confidenza fra piede e pallone.
Come le discussioni sulla migliore epoca d’oro del calcio.