Amarsi un po’ è come giocare a Subbuteo.

Subbuteo

Mi sono innamorato del Subbuteo a sette anni. Nel 1974.
È stato amore cieco, totale, definitivo. Il classico colpo di fulmine. L’Amore a prima vista.
In realtà, lo stesso Amore lo avevo già provato per i colori bianco celesti della Lazio.
Insomma, il 1974 per me è stato l’anno dell’Amore, non certo l’anno del divorzio.
L’apoteosi per un bambino di sette anni. Innamorarsi del Subbuteo lo stesso anno in cui la squadra del cuore diventa Campione d’Italia.
Significava amare il calcio. E non tradirlo mai più.

Un calcio diverso da quello di oggi, cavalleresco, fatto di grandi personaggi e di grandi squadre. Come si diceva all’epoca parlando di una squadra formidabile, uno ‘squadrone’.

Peccato che per avere la mia prima squadra abbia dovuto attendere quasi un anno e soprattutto peccato che la mia prima squadra di Subbuteo non sia stata la Lazio. Per un’antipatica scelta del Destino ‘quel giorno’ era esaurita. Buon segno, mi dissi, accettando un Disegno superiore. Significava che altri bimbi cercavano quello che cercavo io. Dopo lungo pensare tra le centinaia di squadre in vendita nel negozio (che aveva un nome davvero accattivante, “Casa Mia”), chissà perché, scelsi una squadra provinciale, di quelle che si amano soltanto se si nasce dalle sue parti.

Il Lanerossi Vicenza. Ma per un altro scherzo del suddetto Destino, la commessa, che non aveva certo la perizia calcistica di Paolo Valenti, mi consegnò fiammante tra le mani una versione un po’ meno classica del Lanerossi. Una versione con degli splendidi pantaloncini neri.

L’Amore era sbocciato e quando a sette anni il concetto di proprietà si affaccia nel mondo dei grandi, quelli che la proprietà la difendono o la contestano, non si va tanto per il sottile. Uno strato di colla si produce nelle manine di bambino e con difficoltà si riesce a spostare gli oggetti che le manine stesse custodiscono con tremante perizia.

E fu così che mi portai via la mia prima squadra di Subbuteo.

Fu soltanto a casa che mio fratello – più piccolo di me di tre anni, ma molto più attento di me ai dettagli – mi fece notare che sull’album delle Sacre Figurine Panini la divisa sociale dei veneti prevedeva maglie a strisce bianco-rosse, pantaloncini bianchi. Ma perché non aveva parlato prima! Con la stessa tenacia con la quale avevo scelto una piccola squadra della provincia italiana, ancora abbastanza lontana dai brevi fasti che l’avrebbero fatta salire alla ribalta del gran calcio nazionale pochi anni dopo, mi innamorai perdutamente di quella sua strana versione. Il catalogo del Subbuteo me la indicava come Southampton, squadra inglese che allora proprio ignoravo. E questo bastò a farmi giurare al Southampton eterno Amore. Fu così che con la squadra inglese mi innamorai di quello che era il Calcio con la maiuscola. Il Calcio inglese. Il calcio dei padri, dei fondatori, degli apostoli.

Nel 2010 ho celebrato, s’intende, in forma privata, trentacinque anni di amore per il Subbuteo con la pubblicazione di Wembley in una stanza (Minerva Edizioni), un romanzo in cui ho raccontato un mondo che non c’è più, attraverso gli occhi di due fratellini – che poi siamo io e mio fratello, oggi lui stimato archeologo e professore universitario, io che invece scrivo ancora di Subbuteo – e attraverso il Calcio giocato, o meglio ‘giocato’ proprio nel suo valore di participio passato.

Forse perché il calcio ha segnato una passione di bambino; forse perché le maglie da calcio erano più belle e sempre uguali proprio come quelle dipinte a mano nelle figurine del Subbuteo, invece di cambiare ogni stagione per far piacere agli sponsor che allora non esistevano; forse perché il calcio aveva davvero un altro sapore; forse perché quando un giocatore segnava si abbracciava con i suoi compagni e non correva via per non farsi toccare come non volesse condividere la sua gioia con gli altri o non faceva scene strane pensate in anticipo per essere sempre innovativo nell’esultanza; forse perché i calciatori avevano dei nomi e dei visi più credibili per figurare sugli album e sugli almanacchi; forse perché sono un inguaribile romantico delle domeniche pomeriggio.

E del Subbuteo.

Qualche anno prima, nel 2005, avevo dedicato al Subbuteo (gioco inventato proprio in Inghilterra, quella nazione lontana, strana isola del nord dell’Europa in cui giocava il Southampton) una mostra fotografica intitolata Flick about realizzata dall’artista svedese Charlotta Smeds, che il Subbuteo lo conosce davvero bene, e che dedicò i suoi scatti ad alcuni pezzi che lei stessa scelse e che fanno ancora parte di una piccola collezione privata, la mia. Una collezione di ricordi e di immagini dolcissime. Non si trattò di ripercorrere una storia del Subbuteo o di illustrarne i pezzi, ma di raccontare con l’occhio di una grande fotografa i sentimenti e le immagini indelebili di un calcio che noi serbiamo nel cuore. E fu così che sul mio viso comparve lo stesso sorriso di bambino col quale per anni ho acquistato centinaia di squadre assieme a mio nonno e a mio fratello. Lo stesso sorriso che ho adesso mentre scrivo.

Raccontando la storia del calcio in miniatura puntammo l’attenzione su quanto il Subbuteo fosse stato educativo per diverse generazioni, dal 1947 ai nostri giorni. Simbolo immutabile di Fair Play tutto britannico come la sua nascita e la sua discendenza.

Ma abbiamo omesso quanti litigi e quante risse di bambini e giovinetti ha causato. Le ricordiamo adesso. Sono state litigate sincere, cavalleresche come il calcio che amiamo, spesso inconciliabili per il lasso di tempo necessario a riuscire a riderci sopra. Amicizie e vincoli familiari rotti e ricuciti il tempo di mangiare una bella fetta di pane e olio (per i più ghiotti di pane e zucchero e per mio fratello di entrambe) e di aver voglia di giocare ancora.

Un po’ come prendersi a pugni con lo stesso stile con il quale si duellava anticamente, lasciando al rivale, allo sfidato, o al più debole, l’onore del primo colpo. Questo è stato il Subbuteo per tanti giovani che, ormai, così giovani non sono più.

Insomma, un mondo magico fatto di fair play da una parte e di sacrosante ragioni per scatenare odio e minacce dall’altra.

Le regole, ad esempio, sono state uno dei motivi di maggiore attrito tra i giocatori del Calcio in miniatura. E di discriminazione. Ricordo regole incredibili, frutto di una libera interpretazione che sfociava nell’eresia. I pochi che leggevano il libretto con le vere regole assumevano ai nostri occhi il valore che i Padri della Chiesa hanno avuto per la Cristianità. E gli eretici convinti, difficili da stanare e condannare al rogo, per noi erano considerati alla stregua dei luterani più incalliti. Seguaci di una loro chiesa che nulla aveva da spartire con la Vera Chiesa del Subbuteo, quella del Padre Nostro Peter Adolph. Che purtroppo oltre ad essere uomo non era anche Dio e non ha trasferito poteri terreni e vincoli sacrali a discendenti eletti per la traditio legis.

Questo ha significato movimenti di subbuteisti che hanno conservato, ampliato, rinnegato, rivisto e corretto il messaggio del vecchio Subbuteo.

Ancora oggi, a distanza di tanti anni dalla realizzazione della mostra e dalla pubblicazione del libro, cercando su internet qualche comunità di appassionati del gioco, ne ho trovate davvero molte.

E ancora una volta, come accadeva da bambini quando si litigava, tutte contro tutte. E come litigano! Con lo stesso ardore e la stessa caparbietà di quando si era bambini. C’è chi si richiama alla purezza del gioco e ancora organizza tornei con le squadre prodotte fino agli anni Settanta e c’è chi invece ha inventato il calcio da tavolo e le sue federazioni; c’è chi conserva e chi innova.

Strenui difensori della Tradizione oppongono le proprie ragioni a progressisti che oppongono le proprie verità a ‘bacchettoni’ da Antico Regime.

Ce n’è davvero per tutti. E tutti che nel nome del Subbuteo invocano benedizioni sulle proprie schiere e maledizioni sugli adepti del satanico avversario.

Senza mai pensare al fatto che il Subbuteo sia sempre stato un potente scaccia-figa.

Da parte mia, senza aver necessità di entrare in un così grave problema – intendo quello tra rivoluzionari e controrivoluzionari del flicking football – sento di dimostrare la mia fedeltà assoluta a un gioco immortale, celebrandone gli anni d’oro, come un buon tempo antico di dantesca memoria e come un’Età dell’Oro che, di fronte alle tante prove del Kali Yuga, servirà a farci sentire più vicini ai nostri Padri.

E a mio nonno che non c’è più da tanti, troppi anni.

Fabrizio Ghilardi è nato a Roma nel 1967. Si occupa di relazioni istituzionali e della progettazione di reti di cooperazione transnazionale nel campo della cultura. Grande appassionato di calcio, specialmente di quello in bianco e nero, è collezionista di football memorabilia. Socio fondatore del Wisdomless Club, è autore di Wembley in una stanza (Minerva Edizioni) e di Di efferati delitti e d'altre storie macabre (Idrovolante Edizioni). Inoltre ha curato la mostra fotografica Flick about dell'artista svedese Charlotta Smeds. Molti dei suoi scritti giovanili si conservano nelle più importanti capitali europee. Sui muri.

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