19 novembre 1969. Da qualche mese il Mondo è un posto diverso e la Luna un luogo più vicino.
Quel giorno al Maracanà però il tempo sembra essere sospeso; il Mondo è tutto lì dentro, né fuori, né sopra, ma solo dentro l’ovale.
Rio de Janeiro, Torneo Roberto Gomes Pedrosa.
Santos – Vasco da Gama già non è mai una partita qualunque e meno che mai uno stadio qualunque è il Maracanà, ma quel giorno tutto ha il sapore dello straordinario.
Edson Arantes do Nascimento entra in campo con il suo solito 10 sulle spalle, ma sa che i suoi piedi segnano tre volte 9.
Quando entra in campo Pelé cerca di non pensarci, ma come fai? E in campo e sugli spalti? Anche lì, tutti sanno e non solo ci pensano, ma aspettano solo quello.
Uno. Ne manca solo uno. Uno per fare mille.
Uno per essere leggenda più di quanto già allora non fosse.
Stacco. Siamo intorno al trentesimo del secondo tempo. Azione. Palla al piede. Area piccola. Pelé punta, ma finisce a terra.
Fischio secco, il braccio dell’arbitro è dritto verso il dischetto: è rigore.
Rigore con Pelé che deve segnare un solo goal per fare 100 volte 10.
Lo stadio è un solo corpo vivo e in quel momento pure tutti gli dei del calcio si alzano in piedi e ondeggiano come le curve del Maracanà.
I giocatori si accalcano, qualcuno protesta, qualcuno scava con punta e tacchetti sul disco bianco quasi come se volesse tentare la mossa estrema per farlo calciare male quel rigore.
Anche Andrada esce dalla porta, non si lamenta, va da Pelé, lo abbraccia e gli parla.
El Gato abbraccia O’Rey.
Già così, se non storia, è poesia del calcio.
Eccolo il tempo sospeso. Minuto 34.
Due uomini sono sulla porta della storia, uno se segna e l’altro se para.
Edgardo Andrada è di Rosario, terra argentina che del calcio è un tempio. Solo per dire, ma pochi anni dopo di lui a Rosario nascerà El Trinche, un irregolare del pallone, uno dei più grandi, il più grande secondo Maradona. E poi Valdano, Messi, Icardi. Ecco, capite che posto è mai Rosario.
Ebbene Andrada tra i pali ci crede di poter agguantare il pallone.
Fischio. Rincorsa breve, mezzo passo, il destro di Pelé tira una specie di piattone ficcante, Andrade sfiora, ma non prende il pallone che va a gonfiare la rete alla sua sinistra.
Anche Pelé entra in porta, prende il pallone, lo bacia, si volta e intorno a lui c’è già il finimondo.
In campo, sugli spalti, attaccati ai televisori, incollati alle radio, nell’altrove degli Dei, tutti sono in festa.
Da lustrascarpe a calciatore del secolo, da talento sul campo pelado delle favelas a patrimonio storico-sportivo dell’umanità, la vita di O’Rey passa per questa tappa: un rigore che vale 1.000.
Ma il Re è il Re.
O Milésimo, così sarà chiamato quel goal, per Pelé è anche il momento di parlare di altro.
“Per l’amore di Dio, gente mia, ora che tutti mi state ascoltando, faccio un appello speciale: aiutate i bambini poveri, aiutate gli abbandonati. È il mio unico appello in questo momento speciale per me”.
Così dice Pelé. Così parla un Re.
Coerentemente, a fine carriera, Pelè diventerà ambasciatore UNICEF.
Oggi O’Rey ha 82 anni e gioca un’altra partita.
Con il 10 sulla pelle e il 1.000 nel cuore.
Sono sicura.