Per la prima volta il 20 marzo 2021 la RAI trasmette, dall’inizio alla fine, i 299 km della Milano-Sanremo. Lusso stridente con lo spazio sempre più ridotto sui quotidiani sportivi, troppo presi a parlare di altro. E la memoria pedala ad un altro ciclismo, ad un altro modo di seguirlo. La miseria di qualche decina di km con le immagini in bianco e nero che solo la voce infallibile di Adriano de Zan poteva colorare, snocciolando i nomi dei corridori uno per uno.
Come quel giorno, 19 marzo 1970, quando sbuca fuori la maglia color camoscio, striscia blu intenso quasi nero, scritta bianca Molteni, di un ventottenne indemoniato, primo sul traguardo della vita.
Lui è Michele Dancelli e su quel traguardo ci saranno gioia e lacrime.
Come sempre.
San Giuseppe e la Milano-Sanremo
La legge n. 54 del 5 marzo 1977, dal titolo Disposizioni in materia di giorni festivi, tranciò di netto ben cinque giorni dal calendario: Epifania, Ascensione, Corpus Domini, Pietro e Paolo… e San Giuseppe. Il 19 marzo che era tante cose, nonna che prepara i ravioli sul tavolo di marmo, io bravissimo con il bicchiere capovolto ad aiutare, e poi le olive ascolane, la crema fritta. Aiuto, che tempi!
E poi si accende la TV, era il giorno della Milano-Sanremo. La classicissima di primavera, la prima corsa monumento, prima edizione 1907, sette volte del cannibale Eddy Merckx, sei volte del campione dei campioni Costante Girardengo, trecento km di fatica ed adrenalina.
Nel 1966 la Milano-Sanremo entra nelle case degli italiani con le telecamere poste sul Berta, e poi sull’arrivo, per la telecronaca di due maestri, Adriano de Zan e Nando Martellini.
19 marzo 1970
Quattro anni dopo, il ricordo come fosse ora, l’emozione irripetibile per la vittoria di Michele Dancelli, straordinaria impresa che riporta a casa la corsa dopo diciassette anni di astinenza, un’eternità per la nazione che dalle due ruote ha sempre avuto campioni e successi senza sosta.
Prima del via Michele Dancelli prova la gamba attorno al Castello Sforzesco e le sensazioni sono buone, ma il pronostico è altrove. Tre delle ultime quattro edizioni ad appannaggio del belga più forte di sempre.
Adriano Rodoni, presidente UCI, abbassa la bandiera a scacchi e, un due e tre, il nostro bresciano, maglia Molteni, prova subito l’allungo. Velleitario ovviamente, ma importante per chi cerca subito risposte.
Le speranze italiane, in verità, si affidano al poker: Gimondi, Motta, Zilioli e Bitossi. Su di loro tutta la pressione per non riuscire più a vincere la corsa di un giorno più amata, ricordo sbiadito la doppietta ’52 e ’53 di Loretto Petrucci. Di mezzo c’è l’ansia smodata, ma soprattutto il fuoriclasse pigliatutto ed altri pretendenti di prima fascia, i suoi connazionali Rik Van Looy e Roger De Vlaeminck, gli olandesi Ottenbros, Karstens e Janssen, i francesi Guimard ed Aimar, il tedesco Altig.
A Novi Ligure, sotto la grandine, il primo attacco serio
Aldo Moser ci mette tutta la generosità delle sue trentasei primavere. Manca una vita, duecento km, ma Dancelli sprizza energia ed è il primo a prendere la ruota. Con lui una quindicina tra i migliori, ma non Merckx. L’azione trova margini inimmaginati, quattro minuti subito dopo Ovada, cinque sul Turchino dove Dancelli transita tra Bitossi e Moser. La reazione del gruppo, trainato da quel cagnaccio di Van Springel, stabilizza il ritardo attorno ai tre minuti per un centinaio di chilometri.
Ai meno settanta, senza logica, solo cuore oltre l’ostacolo, Michele Dancelli lancia l’attacco e fa sorprendentemente il vuoto. Ad Albenga il vantaggio sui suoi ex compagni di fuga è già oltre il minuto, l’unica replica – solitaria, complicata dal vento ed infine vana – è di De Vlaeminck. Capo Mele e Capo Cervo superati con ardore e determinazione. Dall’ammiraglia Molteni la fibrillazione si sfoga con proclami, grida e suggerimenti come non ci fosse un domani. Il patron Pietro Molteni, re dello speck e del cotechino: “Vai Michele, se vinci ti regalo uno stabilimento“. I direttori sportivi Albani e Fontana: “Zuccheri, mangia Michele, manda giù zuccheri“. Ed il meccanico Ernesto Colnago, il più lucido, a ricordargli di non forzare i rapporti.
La diretta RAI, intanto, la combina grossa
Nelle battute decisive resta sugli inseguitori e nulla si sa più di Michele Dancelli e del suo vantaggio. In aggiunta, come ogni anno, le immagini dal Poggio, l’ultima mitica asperità – solo 168 metri dal livello del mare, ma dopo quasi trecento km nelle gambe – non ci sono, non ci possono essere. Non arrivano lassù le telecamere mobili e non ci sono ancora i mezzi per pensare ad una postazione fissa. Si deve attendere, e sono minuti interminabili, che il corridore balzi fuori in prossimità del rettilineo di via Roma. Meravigliosa, estenuante attesa con il cuore in gola. Che riporta a quella sera dell’Apollo 8, comandante Borman, che nell’orbita lunare perde il collegamento audio quando gira dietro il lato lontano, buio del satellite.
Delirio al traguardo
Michele Dancelli, da gran passista quale è, scavalla il Poggio, riappare e piomba sul traguardo nel delirio dei tifosi, di De Zan, di tutti noi a casa, di me tredicenne finalmente con il suo idolo da non lasciare più.
Karstens arriva ad 1’39” davanti a Leman e Zilioli. Mercks ottavo e protagonista di una grande rimonta finale a dimostrare che battersi conta almeno quanto vincere, anzi di più.
“Non piangere, Michele, sei un campione”
Titola così il giornale che corro a comprare la mattina dopo.
Una corsa dominata dalla Madonnina al sole di Ponente, 200 km di fuga, 70 in solitaria per riportare l’Italia del ciclismo dove deve stare.
Piange il bresciano di Castenedolo, piange l’ammiraglia tutta, piangono tanti tifosi.
Colnago, che non perde mai la bussola, decide che è il momento di provare a produrle le bici e non solo di farle andare veloci e trova, nel giorno più bello, l’ispirazione giusta.
Il suo marchio sarà l’Asso di Fiori.
L’asso è Michele Dancelli, i fiori Sanremo.
Il sognatore nomade
Michele Dancelli sarà anche due volte sul podio mondiale, vive ancora nel suo paesotto dove tante cose sono cambiate dai suoi vent’anni, ma non al bar tabacchino dove trovi sempre qualcuno che narra le fughe da lontano di Michelone nostro come quel giorno a Zolder – con la maglia azzurra addosso – che non andò a buon fine, ma mamma mia quanto coraggio.
Classe 1942, ed intendiamoci, non solo la Sanremo nel palmares.
Due volte campione d’Italia, otto volte con la nazionale, undici tappe al Giro, una al Tour, la Freccia Vallone, 84 vittorie complessive da professionista. Sempre d’assalto, fuori dagli schemi, lucido folle, spiazzando qualche volta addirittura sé stesso.
E soprattutto, il mio idolo.
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