Un giorno impennavo

Questa non è una storia di sport. È una storia di strada e di motori, una storia di moto nella Roma degli anni '80. Una storia non convenzionale, una storia che corre su una sola ruota e che racconta di una generazione affascinata dai motori di strada e dalla sfida a rasoio con la morte.
Luigi Seclì

Sembra impossibile oggi dall’alto delle mie stampelle che mi preservano da un equilibrio disastroso che mai farebbero pensare alla stabilità di allora, eppure io un giorno impennavo in moto.

Era la fine degli anni 70 e noi ragazzini dell’epoca, forse per una società priva di svaghi alla portata di tutti, facevamo giochi che visti oggi potrebbero sembrare antichi e barbari.
Le
cerbottane con cui combattevamo infinite battaglie pomeridiane, le fionde che ci costruivamo per rompere i vetri delle costruzioni abbandonate e cacciare lucertole, o il carrettino per fare a gara a chi andava più veloce – vero status symbol del tempo – erano il nostro quotidiano.
Eravamo una generazione spericolata e decisamente non corretta, non almeno per quello che si intende oggi.

Gli anni ottanta

In quei primi anni ottanta tutto sembrava possibile e anche le ultime propaggini di povertà sembravano sparire al profumo dei miraggi americani.
Tra questi, quelli che a me più suggestionarono furono gli spettacoli di stuntman che si esibivano con numeri straordinari domando macchine e moto che erano il sogno di tutti noi.
Ogni spettacolo era annunciato da manifesti che incartavano Roma e ogni volta le esibizioni facevano il sold out di biglietti.

Ricordo la volta che ne vidi uno allestito in uno dei grandi parcheggi dello stadio Olimpico: ne uscimmo tutti contagiati, solo che diversamente a quello che accadeva dopo aver visto un film di Chen, stavolta anziché fare gesti assurdi imitando mosse di karate, chi poteva si ingegnava a far camminare con una ruota la moto o il motorino.
Un mio amico riusciva persino a far alzare su due ruote l’Ape con la quale lavorava; un gesto straordinario, ma era solo un modo per esibirsi, per dire io esisto e so fare qualcosa.

La Vespa

La mia prima impennata fu con una Vespa e mi tolse il fiato.
Mi sembrò di volare, quella mancanza di equilibrio che poi ho conosciuto bene, all’epoca mi dava una forte emozione perché la mancanza della sicurezza delle due ruote piantate a terra sfociava in eccitazione pura; oggi posso dire che era adrenalina, droga di cui non si poteva più fare a meno.

Fu così che iniziai a impennare ogni volta che potevo, ogni minuto non appena la strada lo permetteva, davanti ai miei amici e anche da solo per il gusto di farlo e basta.

Nei primi anni ottanta, in quella cintura di periferia romana che circondava la città, non era raro trovare dei campi ancora liberi incastonati tra palazzi.
A Villa Bonelli, tra la Portuense e la Magliana, c’era un campo da cross e una volta ci andammo io e Paolo detto er gallina, lui alto com’era dietro alla mia vespetta.
Avevamo deciso che avremmo fatto una prova che non si doveva fare, arrampicarci e scendere da quelle discese ripide con uno specialino (Vespa 50 special, NdR).

Una volta in cima alla discesa più alta abbiamo respirato l’adrenalina di cui eravamo in cerca e ci siamo buttati.
La velocità della paura fu raggiunta in un attimo, io frenavo, o meglio ci provavo, ma quel freno non aveva la minima intenzione di funzionare e allora non rimaneva che urlare e aspettare lo schianto.
E così, urlando insieme, Paolo ancora più forte di me, finimmo su dei cumoli di terra e cademmo rovinosamente, ma senza grandi conseguenze.
Io non mi ero fatto niente, ma Paolo si toccava il piede quasi piangendo dal dolore; solo in quel momento capii che la Vespa non frenava perché lui aveva messo uno dei suoi lunghi piedi sotto il pedale del freno, ed era in ciabatte.

Le prime moto dei sogni

Gli anni più belli passavano, così pure le moto.
Imparai a impennare bene con una moto difficile che quasi nessuno alzava, una Cagiva 125; riuscivo a cambiare marce su una ruota e a fare cose assurde e incoscienti, come appoggiare la ruota anteriore sul retro di un autobus in movimento.

Il salto di qualità, se così lo vogliamo chiamare, lo feci con una moto che sembrava fatta apposta per dipingere un’aura di leggenda addosso a un mezzo pazzo come me: una Laverda Zundapp 125.
La alzavo con tale disinvoltura che una volta arrivai al punto di abbassare la ruota davanti per noia dopo chilometri.
Quando scommisi che ci sarei riuscito i miei amici erano tutti convinti di vincere facile, ma quel giorno, quando erano tutti intorno a me per “scortarmi” mentre percorrevo su una ruota via Nomentana da Porta Pia a via XXI Aprile, persero tutte le loro certezze.
La leggenda era dovuta dal fatto che la Laverda Zundapp 125 aveva la marmitta lunga e impennando, raggiungendo una certa gradazione strusciava a terra generando lunghe scintille, l’avevo così consumata che ci feci saldare una lastra d’acciaio e quelle scintille si moltiplicarono, inscenando di notte fuochi e rumori degni da essere raccontati.

Per molti io ero semplicemente il pazzo.

Quelle notti in moto tra Panoramica e Olimpica

Poi arrivò l’epoca delle impennate del venerdì e del sabato.
Senza un appuntamento specifico, ma i luoghi era sulla bocca di tutti per il passaparola che attraversava Roma da bar a bar e da comitiva a comitiva, le sere si animavano di sciami su due ruote in cerca di ebbrezza.

Qualche sera, ade sempio, ci ritrovavamo all’attacco di una strada che a Roma tutti chiamiamo Panoramica e di praticamente nessuno conosce il vero nome.
Ebbene la 
Panoramica si arrampica in tornante da piazzale Clodio su Monte Mario, un circuito stradale perfetto e pericoloso, dove avevo imparato a fare anche le curve su una ruota e dove vedere quelli più bravi e più pazzi di me mi accendeva per nuove sfide impensabili.
So bene che detto così non è per nulla edificante, che non è un esempio da imitare e oggi non direi mai a nessuno di farlo, ma quelli erano i miei anni, quella era la mia generazione; potevamo fare tutto e abbiamo fatto tutto.

Ma tra tutte le strade dove ci davamo appuntamento con la morte, una divenne presto spettacolo per tutti.
Fu sull’Olimpica, nel tratto che taglia Villa Pamphili, che quell’appuntamento fino ad allora riservato a pochi divenne non solo di dominio pubblico, ma spettacolo come se si fosse in un vero circuito cittadino.

Tutti volevano esserci, quelli che correvano, quelli che pinnavano, quelli che guardavano; ragazzi e ragazze si assiepavano sui marciapiedi e popolavano la strada all’inverosimile, tutti a parlottare, ridere e giocare, fino a quando il silenzio prendeva il sopravvento, un silenzio che scendeva rapido perché qualcuno aveva deciso di esibirsi.

Ognuno poteva scegliere.
Qualcuno apriva al massimo i suoi carburatori con quelle moto ancora bellissime e per niente assettate da corsa come quelle di oggi, e chi impennando.
Ci sentivamo forti, liberi, imprendibili, impunibili, imbattibili, ma soprattutto non capivamo quanto eravamo fortunati a tornare a casa all’alba camminando ancora sulle nostre gambe.

Storie metropolitane

Spettacolo nello spettacolo, ricordo una impennata mitica di certi che vedevo in queste serate, ma di cui non ho mai saputo il nome; erano tre vesponi e formavano un trenino, con i due dietro che appoggiavano la ruota anteriore sulla schiena del loro amico davanti, o almeno così sembrava per quanto erano vicini.

Una storia che conoscevo, ma che non vidi mai con i miei occhi, era quella di un ragazzo che tutti conoscevano con il nome di er cecato. Di lui si diceva che avesse messo il bloccasterzo al vespone e fatto vedere la chiave con una mano mentre lo metteva su una ruota e farsi un bel pezzo di strada così  prima di abbassarla, reinserire la chiave e sbloccare il bloccasterzo.

Eravamo dei pazzi alla ricerca dell’adrenalina, o forse della notorietà, o tutte e due.

Su quella strada ci andavo tutte le volte che potevo e anche per me venne il tempo della bella moto, per me la più bella di tutte, una Honda Super Bol D’Or 1100, una potenza magnifica, si impennava da sola e malgrado fosse pericoloso per la sua stazza, sembrava ancora più facile impennare con quella moto rispetto a qualunque altra avessi provato.

I miei amici

Avevo un amico preferito con il quale condividere quelle impennate, è tuttora un mio amico, Fabio Orlandi detto Gustino, lui era un freddo, o un fatalista, non ha mai avuto paura, mai una stretta più forte che mi facesse notare la sua apprensione, mai un urlo, rimaneva lì dietro immobile, non lo sentivo, ma mi dava il peso per equilibrare ancora meglio la moto.

Noi siamo stati tra quelli che hanno partecipato a fare della via Olimpica, in quegli anni ottanta, il nostro moderno Circo Massimo.

Approfitto per citare un amico caro, morto quando era ragazzino come me, morto su una moto a via Fonteiana. Con lui avevamo iniziato a fare pazzie, io sono stato solo più fortunato, e se per qualche ragione al mondo potesse leggere quello che sto scrivendo tramite qualche filo scoperto o onda che parte da dietro il mio computer, ti saluto con tutto il cuore Umberto Fedeli, amico mio, e ti immagino ancora su una ruota, come sempre.
Come siamo noi.

 

Luigi Seclì ragazzo cresciuto nei primi anni 80 romani, tra comitive dei Colli Portuensi e moto che mettevo su una ruota. Poi il lavoro mi ha portato via da quel sogno. Ho fatto l'organizzatore di vendite girando tutta Italia, ma la mente era sempre aggrappata agli angoli delle strade della nostra gioventù. Oggi che ho iniziato a scrivere libri, cerco di ritrovare tutta la fantasia che senza le nostre moto sarebbe stata più povera.

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