Dal mito alla pista
Il filo di lana racconta una storia sportiva dell’atletica leggera che va molto oltre il suo essere strumento, al tempo anche ingegnoso, di misurazione e attestazione dell’esito di una gara.
La nascita di questo accorgimento, che da semplice strumento di aiuto al giudice di arrivo e al cronometrista, è diventato sinonimo di vittoria acciuffata all’ultimo istante o di successo conquistato di misura, avviene quasi certamente fra il 1906 e il 1908 ed entra subito di prepotenza nel linguaggio comune di tutti i giorni.
L’uso sportivo di questo manufatto di derivazione animale, entra con tutti i diritti nell’immaginifico popolare, alla pari della leggenda della mitica Arianna che con un gomitolo di lana, aiutò Teseo e gli Argonauti ad uscire dal labirinto del Minotauro.
Prima del filo e dopo il filo
La foto della vittoria nei 100 metri di Archie Hahn ai Giochi Intermedi di Atene del 1906, ci mostra infatti una linea di arrivo ancora non caratterizzata dalla presenza del filo di lana, che incontrò invece il petto del sudafricano Reginald Walker, vittorioso nella stessa gara ai Giochi di Londra del 1908.
Anche i torsi vittoriosi di Ralph Craig (Stoccolma, 1912), Charles Paddock (Anversa, 1920) e Percy Williams (Amsterdam, 1928), trovarono sul loro cammino il filo di lana da infrangere quasi a suggello del loro successo.
Il filo di lana teso dal petto vigoroso del piccolo Tolan, e l’aiuto della Kirby Camera, ci hanno dato la sensazione netta della vittoria dell’americano sul connazionale Ralph Metcalfe, al termine della finale dei 100 metri dei Giochi di Los Angeles del 1932, documentando un successo che neppure il cronometraggio automatico (10.38 per entrambi) era riuscito a determinare con sicurezza.
Non ebbe problemi invece Jesse Owens che nel tagliare il traguardo di Berlino ’36, infranse con le braccia il filo teso fra i paletti dell’arrivo, quasi in senso di sfida, con la stessa rabbia con la quale spezzarono (nel vero senso della parola) il filo di lana i nostri due marciatori campioni olimpici Pino Dordoni e Abdon Pamich.
Ondina Valla
Sul filo di lana, specie nelle gare riservate al gentil sesso, si sono sprecati aneddoti e citazioni, come quello che coinvolse la nostra Ondina (Trebisonda) Valla dopo la vittoriosa finale di Berlino ’36 nella gara degli 80 metri ostacoli.
Ascoltate cosa accadde.
Degli 8 successi conquistati dall’Italia a Berlino, il più sorprendente arrivò dall’atletica leggera con Ondina Valla, prima tra le atlete italiane a vincere una medaglia d’oro olimpica. La nostra specialista superò facilmente le batterie qualificandosi per le semifinali, nel corso delle quali sbalordì anche sé stessa eguagliando il record del mondo in 11″6.
La finale fu incertissima: cinque atlete si contesero sino a dieci metri dal traguardo la vittoria, finché Ondina Valla, con uno scatto, riuscì a vincere superando di pochi centimetri la tedesca Steuer e la canadese Taylor.
Si disse che il filo di lana fu tagliato per primo dal seno dell’italiana, che rispose, sorridendo: Non è vero, perché non l’ho mai avuto abbondante e pertanto non ebbi alcun vantaggio dalla misura del mio seno.
La vittoria mancata di Peter Scott
Il filo di lana venne malinconicamente raggomitolato, e messo in soffitta quando al suo posto furono chiamate due algide cellule fotoelettriche, che implacabilmente facevano prima imprimere su pellicola, e poi trasmettere al computer, il momento topico nel quale l’atleta infrangeva il raggio che esse si scambiavano dai due lati opposti della pista.
Ma la funzione del filo di lana oltre quello di facilitare il giudice nello stilare l’ordine di arrivo di una gara di corsa, specie quelle veloci, ebbe anche aspetti regolamentari che il fotofinish non poté ripetere.
Per avvalorare un arrivo il concorrente doveva tagliare con il petto il filo di lana e non evitarlo come successe nel 1967 al mezzofondista statunitense Peter Scott che in fase di arrivo perse il passo e tagliò il traguardo passando sotto il filo di lana che rimase integro e fu invece “spezzato” dal secondo, tale Noel Carroll, che si vide così assegnare la vittoria.
Ma all’atleta mancò, almeno nei primi tempi, quel punto di riferimento visibile a indicare il traguardo e quella sensazione piacevole di contatto che, almeno per il primo classificato, dava la certezza della vittoria.