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Giorgio Chinaglia, il grido di battaglia

Una vita da irregolare, un pensiero da irregolare, un calcio da irregolare, Giorgio Chinaglia non è solo una storia di calcio. È una storia di amore e di passione, perché Giorgio Chinaglia la sua Lazio l'amava in maniera viscerale e così i suoi tifosi che non hanno mai smesso di ricambiarlo. Neanche dopo, quando la vita se l'è preso troppo presto.
(Photo Credit:Marcello Geppetti)

Giorgio Chinaglia, Long John, Giorgione, il centravanti, il “gobbo”, come lo chiamava chi lo odiava e lo temeva.
Per noi, il grido di battaglia.
Quando il mio amico Giorgio Acerbis Ciriachi, scomparso troppo presto, appena 3 anni fa, mi chiese di scrivere un libro su di lui a quattro mani, per poco caddi dalla sedia: Chinaglia era da poco scomparso, il primo d’aprile, classico suo e a me sembrava sacrilego osare scrivere qualcosa sul Mito.
Ma…ma…io non saprei come iniziare: a me piace scrivere romanzi, non sono bravo nelle biografie.
Tranquillo, Sergio, a quella ci penso io: tu devi scrivere un qualcosa da tifoso, non so, magari da bambino cresciuto negli anni ’70 con la sua leggenda…o qualcosa del genere. Te la senti? Abbiamo già un editore pronto a pubblicarci, in più Bruno Giordano ci farà la prefazione e tanti amici sono già pronti ad aiutarci!

L’entusiasmo di Giorgio era così coinvolgente che non seppi dirgli di no.
Mi buttai a capofitto nel personaggio, che già conoscevo e amavo.
Il difficile era ritornare a quegli anni, quando da bambino, con mio padre, seguivo la Lazio in ogni dove.
Mi innamorai perdutamente di lui quando, il 12 maggio del 1974, mio padre mi svegliò improvvisamente di domenica mattina, unico giorno in cui non avevo scuola.
Svegliati, forza. Oggi è un giorno speciale, forse accadrà qualcosa di grande. Sei pronto a venire allo stadio? a stento, tutto assonnato, riuscivo a capire l’espressione sorridente di mio padre e quello che aveva in testa.
Cosa??? Allo stadio? Ma papà…è la prima volta che…
Si…lo so, oggi però è il giorno giusto, fidati.
Mi alzai in pochi secondi. Il caffellatte era lì pronto, i biscotti Gentilini pure. Mia madre evidentemente doveva essere d’accordo.
Papà posso mettere la maglia numero 9 che mi ha portato la Befana?
La devi mettere, corri a prenderla.

Maglia, bandiera, i panini col salame di mia madre, l’aranciata e lo sguardo dei miei genitori, come se andassimo incontro ad un evento storico.
La Fiat 1100 di mio padre è pronta ad aspettarci.
Posso mettere la bandiera fuori dal finestrino, papà?
Certo che sì! Oggi Roma deve sapere cosa sta succedendo…
E se perdiamo?
C’è Chinaglia in campo.
Ok papà.

Aveva ragione: la partita col Foggia era ostica, la tensione nervosa e l’emozione si tagliavano col coltello in quello stadio zeppo di 80.000 persone e altrettante bandiere bianche e celesti.
La Tribuna Tevere non numerata era piena come non mai ed io non sapevo dove guardare, per non perdermi un attimo di quel giorno.
Ma in campo c’era lui, Giorgio Chinaglia e quando al 15° del secondo tempo l’arbitro Panzino decretò il rigore per la Lazio, solo Long John poteva avere il coraggio di prendere quella palla e tirarla con forza, rabbia e sentimento dietro alle spalle del portiere.
Quando la partita finì, sentii mio padre prendermi per mano.
Alzai gli occhi verso di lui e vidi che piangeva e rideva contemporaneamente, non lo avevo mai visto così, lui che tornava spesso la sera dal lavoro stanco e rabbuiato e mi metteva a volte un po’ di soggezione.
Ecco, il mio amore sbocciò come una rosa in quel giorno di maggio e quell’amore aveva un nome e cognome: Giorgio Chinaglia.
Fu lui che cambiò il tifoso Laziale, fin lì troppo rassegnato a vivere una situazione di precarietà in una città che nei suoi strati più popolari tifava Roma, in una facile comfort zone.
Fu lui che diede la sveglia ai tifosi biancocelesti, in quel derby vinto grazie a un suo goal, sotto la curva sud, il dito puntato contro di essa come a dire: eccomi, eccoci, noi ci siamo.
Fu ancora lui a lasciarci, nel 1976, per volare negli States, per una scelta di vita, per la famiglia, per andar via da una città che oramai lo soffocava. Quel giorno mi sentii orfano, non riuscivo a capire come potesse lasciare la sua Lazio, il suo allenatore-papà, Tommaso Maestrelli e tutti noi, figli di quell’epopea fantastica e di un ritrovato orgoglio.
Piansi quel giorno.

Piansi due volte per la Lazio: quando Long John andò in America e quando morì Luciano Re Cecconi (ma questa è un’altra storia).
Da quel giorno, portai avanti insieme a tutti i ragazzi della curva Nord, l’eredità di questo strano personaggio, che biascicava le parole come un italo-americano, rude ed intransigente ma con una grande capacità di farsi amare, dote unica e rara.
Ma io, in cuor mio, sapevo che sarebbe tornato, anche quando arrivavano le immagini di lui che giocava insieme a Pelè nei Cosmos e sembrava essere a proprio agio.
Sembrava.
E quel giorno che seguimmo la Lazio in un posto assurdo, Cava dei Tirreni, uno di quei campi in serie B in cui rischiavi di tornare con la testa dell’avversario o senza la tua, fu proprio allora che si sparse la voce: Giorgio sta tornando.
La Lazio, pareggiando 2 a 2 con la Cavese, staccò il biglietto del ritorno in serie A. I tifosi locali si divertivano a tenderci trappole in ogni angolo della città, ma noi avevamo un solo chiodo fisso: Long John.
Tornammo coi pullman in tarda serata, Roma sonnecchiava nel suo caldo di giugno e nessuno aveva voglia di tornare a casa.

Quando poi arrivò la notizia che Chinaglia stava tornando dagli Stati Uniti con un volo che sarebbe atterrato dopo la mezzanotte, non perdemmo un attimo a prendere qualunque mezzo e correre verso Fiumicino.
Certo, tornava non più da giocatore, ma chisseneimporta, lui Presidente era un sogno che si avverava e noi lo seguimmo fino all’Hotel Excelsior a via Veneto, senza neanche andare a dormire. Soltanto quando si affacciò alla finestra per salutare tutti noi assiepati sotto via Boncompagni, capimmo che la missione era conclusa e che potavamo tornare a casa per farci una doccia e buttarci felici a letto.
Poi accaddero tante cose: il suo entusiasmo fu spesso carpito e usato, il suo essere presidente-bandiera non lo aiutò nel progetto che aveva in mente. Nella sua ingenuità e purezza d’animo, lasciò forse troppi spazi in cui gente sbagliata cercò di insinuarsi.
Tornò in America per la seconda volta, col peso sulle spalle di averci deluso, senza capire che invece aveva lasciato nel cuore di tutti noi, al di là dei suoi errori, quella capacità di creare un tifoso nuovo, più forte, abituato alla buona e alla cattiva sorte.
Era diventato il grido di battaglia.
Era diventato il mito, la leggenda. Era entrato nel Dna di ogni tifoso Laziale, fino a quando, il primo aprile del 2012, decise di farci lo scherzo più grande della sua vita e scivolare da essa in punta di piedi, col sigaro in bocca e il bicchiere di whiskey rigorosamente nella mano.
Click.

Titoli di coda.
Il mio amico Antonello Nello Allocca degli Eagles’ Supporters così lo ha ricordato e così lo ricordiamo in tanti.

Il mio numero 9
Questa è una cosa che sento dentro.
Ci sono due cose che ungono la passione, il gol e l’uomo.
Questo non era niente di tutto ciò, era molto di più.
E lo cercavo dentro di me, scavando nel mio immaginario di ragazzo.
Ora era davanti a me, il ghigno accigliato, il sorriso docile, spalle cattive e corsa da vendere.
Sbarazzava l’avversario guardandolo negli occhi, sfidandolo per poi vincerlo.
Il numero bianco, sui pantaloncini blu, il numero 9, il mio numero 9.

Sergio Pucciarelli è nato a Roma nel 1963. Professionista nel settore finanziario, appassionato di scrittura, musica e sport. Ha pubblicato diversi romanzi, tra cui “Il Nero e la Rossa – Una storia d’amore negli anni di piombo”, edito da Gremese nel 2012; “Apologia di un Centravanti”, insieme a Giorgio Ciriachi, edito da Urbone Publishing nel 2015; “La Dodicesima Stringa” edito da Aletti nel 2017. Ha scritto alcuni racconti brevi e ha partecipato alla pubblicazione di “Telling Roma: racconti dalla città invisibile”, compendio di autori vari, patrocinato dal Comune di Roma, con il racconto “Scialla, Mattè!”, nel 2020.Da circa 20 anni vive nella spiritualità dell’esistenza, in simbiosi con il mare, a Fregene.

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