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Scacchi. La diagonale del pazzo

Gioco millenario di strategia e di sagacia, gli scacchi rappresentano la battaglia dell’uomo contro il tempo e contro i propri limiti. Metafora manichea dell’universo, sulla scacchiera si misura l’intelletto, l’arma più nobile dell’essere umano, e si disegnano le trame del destino. E poi c’è l’alfiere, che si muove lungo la prospettiva più affascinante dello spazio a tre dimensioni, la diagonale del pazzo.
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Nessun altro gioco come gli scacchi ha saputo stuzzicare la fantasia di poeti e scrittori nel corso dei secoli. Dante, Cervantes, Goethe, Poe, Montale, Bulgakov, Borges, tanto per citare i più importanti, hanno dedicato nelle loro pagine una particolare attenzione a questo gioco millenario. La ragione di tale successo risiede probabilmente nel fatto che gli scacchi si prestano facilmente a essere spogliati delle proprie caratteristiche logico-matematiche, per conservare solo la connotazione filosofica intrinseca nel gioco stesso. Ecco perché attraverso la trasfigurazione artistica la scacchiera diventa un universo manicheo dove lo scontro tra il bianco e il nero è la metafora dell’eterna lotta tra il bene e il male, dell’opposizione dei contrari, in definitiva della incessante dialettica dell’universo, conteso tra immobilismo e divenire, tra vita e morte, tra conscio e inconscio, e terreno di una battaglia dell’uomo contro sé stesso, che mina le sue certezze e apre la strada alla follia.

Spasskij vs. Fischer

Come uno specchio, gli scacchi riflettono le grandi passioni della condizione umana e traducono in dimensione estetica la drammatica lotta dell’uomo contro il tempo e contro i propri limiti, più che contro quelli dell’avversario. L’ex campione del mondo Karpov era solito affermare che le guerre dovrebbero essere combattute sulle scacchiere dai migliori giocatori di ogni nazione, per evitare spargimenti di sangue tra le popolazioni inermi. E infatti, non a caso, la sfida del 1972 a Reykjavik, in Islanda, tra il russo Spasskij e l’americano Fischer fu vista come la migliore metafora delle tensioni della guerra fredda: il primo, dallo stile sobrio e classico, chiaro esponente della pianificazione sovietica; l’altro, imprevedibile e brillante, incarnazione del sogno americano, non si scontrarono con bombe e pistole, bensì con l’intelletto, l’arma più nobile dell’uomo.

Scacchi
(1972. Spasskij vs Fisher)

Rappresentazione schematica della guerra

Pare che il gioco degli scacchi sia nato verso il V secolo d.C. in India con il nome di chaturanga, cioè “quadruplice armata”, come evoluzione di un gioco importato secoli prima dalla Cina. Sulla scacchiera si scontravano le quattro componenti dell’esercito indiano: elefanti, cavalleria, fanteria e carri da guerra. Nato come semplice rappresentazione della guerra ridotta a schema per il divertimento dei re, esistono varie leggende intorno alla nascita del gioco, una delle quali narra che l’inventore degli scacchi rifiutò la metà del regno che il suo re gli aveva offerto per la sua invenzione, chiedendo in cambio solo un chicco di grano raddoppiato per ognuna delle 64 caselle della scacchiera. Dapprima il re sorrise della faciloneria del suo suddito ma, appena i suoi contabili gli ebbero fatto il conto dei sacchi di grano che avrebbe dovuto sborsare, il re impazzì dalla rabbia e fece tagliare la testa al geniale inventore. Leggende a parte, alcuni studiosi odierni si trovano concordi nel considerare il Latruncolorum lusus, cioè “il gioco dei soldati”, un antico gioco da tavolo che i soldati romani avevano probabilmente imparato durante le guerre in Oriente, come un antenato diretto degli scacchi. In effetti, molte attestazioni letterarie tardo-latine ce lo descrivono come un gioco di pedine su uno scacchiere che rappresenta una banda di soldati che attaccano o difendono una postazione fortificata. La differenza fondamentale con gli scacchi è che il “gioco dei soldati” fa uso dei dadi, e quindi la somiglianza tra i due giochi potrebbe essere solo casuale.

kasparov
(Garri Kasparov)

Il lungo viaggio verso Occidente

Dall’India, comunque, gli scacchi si spostarono seguendo il cammino del sole, lungo le vie commerciali e di conquista: dapprima giunsero in Persia, dove chaturanga si deformò in chatrang, poi approdarono nel mondo arabo, dove il gioco al-shatranj trovò enorme favore. In Europa gli scacchi penetrarono tra VIII e X secolo attraverso la conquista islamica della Spagna e le crociate in Terra Santa e si diffusero rapidamente, come confermano vari documenti: per esempio, il testamento risalente all’XI secolo del Conte di Urgel, in Catalogna, che lasciava tutti i suoi beni, tra cui una preziosa scacchiera, alla Chiesa; e una lettera del 1060 del cardinale Pietro Damiani al Papa Alessandro II, nella quale si lamentava del fatto che il gioco dei mori stava conquistando i fedeli cristiani. Inoltre, molti poemetti medievali, soprattutto francesi, si ispirarono agli scacchi, in particolare per le possibilità uniche che questo gioco dava allo sviluppo delle scene d’amore: a quei tempi una partita a scacchi era uno dei pochi motivi per cui una visita nelle stanze private di una donna non appariva sconveniente e, oltretutto, dava agli innamorati la preziosa possibilità di sedersi vicini. Senza andare troppo lontano, basterà ricordare che Tristano e Isotta, ma anche Lancillotto e Ginevra, usarono questo espediente per incontrarsi, ed esistono alcune illustrazioni che ritraggono lo stesso Re Artù intento a giocare a scacchi. Nel medioevo gli scacchi furono definiti “il gioco dei re, il re dei giochi”, e si racconta che il grande Napoleone Bonaparte, come molti altri generali prima di lui, preparasse minuziosamente su una scacchiera le sue tattiche belliche.

scacchi

Tanti nomi per tanti pezzi

Il nome italiano scacchi, che indica tanto il gioco in sé quanto le singole pedine, deriva dal persiano shah “scià, re”, attraverso l’arabo al-shag e il provenzale escac. La famosa espressione scacco matto, che indica la mossa vincente della partita, non è altro che il calco della locuzione persiana shah mat “il re è morto”. Nel lungo viaggio verso l’Europa, i pezzi del gioco originario si andarono trasformando adeguandosi al modo occidentale di dar battaglia. Rimasero perciò invariati il re, il cavallo e i pedoni (dallo spagnolo peón “soldato di fanteria”, a sua volta dal tardo latino pedo, accrescitivo di pes “piede”). Modifiche, invece, subirono la torre, anticamente chiamata rocco, da rokh, nome dato dai persiani al cammello montato da arcieri e, per assimilazione di forma, al pezzo degli scacchi che rappresentava un elefante che portava una torre in groppa; la regina, in francese vierge “vergine”, ottenuto per falsa etimologia popolare dal persiano ferz, che valeva invece  “condottiero, visir” (il capitano in pratica cambiò sesso per trasformarsi, ironicamente, in regina, il pezzo più potente della scacchiera); e l’alfiere, che ci giunge dall’arabo al-fil “l’elefante”, in quanto presso gli orientali quel pezzo rappresentava, appunto, un pachiderma. Da notare che l’italiano alfiere, nel senso di “ufficiale della milizia incaricato di portare la bandiera”, ci giunge anch’esso dall’arabo, ma da una parola diversa: al-faris “il cavaliere”. È singolare che l’alfiere sia l’unico pezzo che cambia nome a seconda della lingua: nei paesi anglofoni è un vescovo (bishop), in Germania è un corridore (Laufer), in Francia è un pazzo (fou).

Scacchi
(1984. Karpov vs Kasparov)

La diagonale del pazzo

Quest’ultima definizione ci piace particolarmente, perché sembra alludere al movimento dell’alfiere in diagonale, lungo la prospettiva più strana dello spazio a tre dimensioni: la potremmo definire “la diagonale del pazzo”, il titolo migliore per la vita di tutti gli uomini che si ritrovano a tracciare linee immaginarie di fronte a una scacchiera metaforica, a loro volta pedine di una partita giocata a più alto livello, come diceva il poeta persiano del XII secolo Omar Khayyam: “Noi siamo i pedoni della misteriosa partita a scacchi giocata da Dio. Egli ci sposta, ci ferma, ci respinge, poi ci getta uno a uno nella scatola del nulla.

Davide Zingone Napoletano classe ‘73, vive a Roma dove dirige l’agenzia letteraria Babylon Café. Laureato con lode in Lingue e Letterature Straniere e in Scienze Turistiche, parla correntemente sei lingue. È autore della raccolta di racconti umoristici "Storie di ordinaria Kazzimma", Echos Edizioni, 2021; del saggio “Si ‘sta voce…”, Storie, curiosità e aneddoti sulle più famose canzoni classiche napoletane da Michelemmà a Malafemmena, Tabula Fati, 2022; e di “Tre saggi sull’Esperanto”, Echos Edizioni, 2022.

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