Roma 1934. Il mio comportamento non sarebbe cambiato

Lite all'insegna del "Lei non sa chi sono io" (con il "voi" però, dati i tempi), prima di un derby romano. Protagonisti Virgilio, centurione della milizia, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo PNF. Intervento di Mussolini per chiudere, faticosamente, la questione. Virgilio era mio nonno, ex legionario fiumano, marcia su Roma, giornalista, poi comandante btg nella rsi
Fanny e Virgilio

Roma, una domenica del 1934.
Il mio comportamento non sarebbe cambiato. Dopo dirà così Virgilio, ma quella domenica mattina lui pensava di andare di andare a vedere solo un derby.
Accadde molto altro.

Una domenica di derby

Virgilio ha da un po’ terminato di pettinarsi ma indugia a scrutarsi nel vecchio specchio ovale, presente in famiglia da un paio di generazioni. Ha ancora in mano il piccolo pettine d’osso sul quale sono rimasti alcuni capelli castano scuri e pochi altri chiari. Si è sempre vantato della compresenza di questi amici chiari e di questi altri scuri sul suo capo, e ora sente una sottile disperazione vedendo i capelli non fare più massa aprendosi ad ampie stempiature e a vaste zone diradate.
A volte sospetta di star divenendo completamente calvo e si passa la mano in testa come a contarseli uno a uno. Ma è domenica, e di domenica non ci si può incupire, specie quando gioca Roma – Lazio (che è nel dire comune prima Roma e poi Lazio anche quando si gioca in casa di quest’ultima).

È un marzo balzano e freddo questo del 1934, e lui sta già stimando che per l’uscita ci vorranno cappello, cappotto e galosce. Sta piovendo, ed è una pioggia fredda, stizzosa e obliqua.
Un’ora prima, affacciandosi dall’attico di via Imera, ha assaporato l’odore di Roma bagnata e malgrado la pioggia ha voluto che sua moglie Fanny gli servisse il caffè, con l’alkermes, proprio lì in terrazza.
Ha atteso invano che si affacciasse, dall’appartamento vicino il suo amico Carlo Campanini, per le solite due chiacchiere di politica, calcio, spettacolo.

Virgilio, figlio del secolo

Virgilio è un giornalista, dopo qualche inizio in cronaca ha piegato verso l’informazione economico commerciale. Idea che si è rivelata presto un successo. In breve è divenuto titolare di un paio di testate, ha potuto assumere personale e aprire due redazioni, una a Roma e una a Torino.

Virgilio in divisa da Milite
(Virgilio)

La scelta politica fatta da ragazzo lo ha di certo favorito: malgrado non abbia ancora 29 anni è già un veterano della Milizia, e vanta per il regime la cimice della Marcia su Roma e la medaglia della Marcia di Ronchi quale legionario fiumano, avventura cui era riuscito a partecipare dichiarando due anni in più di quelli che effettivamente aveva (in fondo trasformare un 5 in 3 non è opera ardua).

È appassionato di letteratura, scrive, dipinge. Ma di base resta figura schiva, defilata, quantomeno rispetto al regime, verso cui nutre qualche freddezza, come tutti quelli della prima ora legati al programma sociale diciannovista. Non si macera però di certo per questo, è figura solare, orientata al presente, all’immediato e all’azione. La sua stella polare peraltro non è il fascismo, ma la famiglia. E a essere precisi, la famiglia di provenienza, non quella che pur giovanissimo si è creato (oltre alla moglie, ha due figli).

Una storia di famiglia

Il legame fortissimo con il padre e i due fratelli Alfredo e Orfeo, lo ha segnato in modo tale che riferendosi a lui non si possa ignorare questo suo lato. Per anni hanno abitato tutti insieme, pur se tutti già sposati, in una villetta plurifamiliare a via Sannio. Qui si trovano infatti le cosiddette case dei ferrovieri, perché in quella zona le Ferrovie italiane concedono case ai propri dipendenti.

La loro villetta fu acquisita per meriti particolari del padre Claudio il quale, professore di filosofia al Liceo Massimo, figura eccentrica, aveva deciso durante la Grande Guerra di prestare servizio volontario di capostazione presso Tivoli, senza volere compensi per il servizio.
Il compenso era tuttavia arrivato sotto forma di villetta, nel Dopoguerra. Quell’esperienza lo aveva avvicinato molto ai ferrovieri e alla loro condizione, e pur approvando anche lui il regime era stato senza riserve dalla loro parte nei numerosi scioperi degli anni Venti.
A via Sannio era per questo amatissimo dai colleghi del vicinato.

L’aria che si respirava in famiglia era orientata all’innovazione, al lavoro, era un’aria di sinistra.

Claudio, tra i suoi variegati e a volte strambi talenti aveva anche quello di sedicente inventore. Si diceva fosse l’autentico inventore del sonoro delle bambole, brevetto che gli era stato tuttavia rapinato da amici industriali di cui si era ingenuamente fidato.

Repubblicano fervente, in astio verso il passato nobiliare dei propri avi (nobili catalani trasferitisi a Roma da Barcellona a fine Quattrocento, per mettersi al servizio dei Borgia) aveva cambiato la ‘d’ nobiliare del proprio cognome in una bella ‘D’ maiuscola e plebea.

In un certo periodo si invaghì della Chiesa evangelica, e fu uno dei primi a Roma ad abbracciarne il culto. Pretese che tutta la famiglia allargata, mogli e figli inclusi, si convertisse senza tentennamenti.
Nessuno aveva particolari entusiasmi e neppure particolari obiezioni alla cosa. Con una eccezione.
Fanny, la moglie di Virgilio, donna molto semplice e riservata, ma di pochi saldissimi principi, gli aveva detto seccamente: “Caro signor Claudio, mi spiace per voi, ma io resto cattolica, apostolica e romana”.

Virgilio, che non amava gli attriti, e che era le mille miglia lontano dall’interessarsi a dispute di natura fideistica, decise allora di trasferirsi in via Imera (“tanto siamo a un passo”), anche perché quell’abbraccio costante col padre cominciava a essere soffocante.
Avrebbe mantenuto però alcune consuetudini e alcuni riti con loro.
Le partite a scopone scientifico, alla conclusione delle quali la coppia vincente intonava coi vocioni un Mapìn mapòn, mapìn mapòn trionfale, picchiando i pugni sulla tavola, a sberleffo.
La cena della domenica sera, altro momento corale.
Ma soprattutto: la partita di pallone.

La Roma anche prima della Roma

Erano tutti romanisti, ma la Roma era nata soltanto nel 1927. E prima?
Prima la famiglia, Claudio in testa, si recava nei vari campi sportivi romani, come per esempio ai Due Pini, piuttosto vicino a dove poi sarebbe sorto lo stadio Flaminio, poi chiamato Stadio del PNF, opera di Marcello Piacentini.

FORTITUDO
(La Fortitudo)

Andavano a vedere il Roman, l’Alba, la Pro Roma, a volte la Fortitudo (ma un po’ meno volentieri perché ritenuta squadra papalina).
Soprattutto però il Roman, per i colori, e l’Alba per la forza, erano le predilette.
Si erano entusiasmati per le prestazioni di Attilio Buratti, soprattutto quando c’era di mezzo la Lazio.
La Lazio mai” aveva sentenziato Claudio a inizio anni Venti, “perché non reca il nome e nemmeno un colore su due di Roma”.

Nasce AS Roma 1927Quindi tutti avevano seguito con un certo fervore le iniziative, annose, con le quali si era data vita alla AS Roma.
Virgilio conosceva abbastanza bene sia Italo Foschi che Ulisse Igliori, primi dirigenti della nuova società, molto prossimi al regime, e aveva potuto seguire le operazioni in modo diretto.
Il loro punto di riferimento, come anche di molti romanisti, era comunque sempre stato Renato Sacerdoti, presidente già del Roman e poi della Roma.

Virgilio conosceva anche lui per questioni politiche mentre Claudio, pur amandolo, non riusciva a perdonargli la cessione di Rodolfo Volk al Pisa, nell’estate del 1933.
Sia l’Alba che il Roman (che alcuni chiamavano Foot Ball Club Roma), giocavano in zona Flaminio, quindi si erano ormai tutti abituati alla gita domenicale, con visite a volte alla parte storica di Roma Nord (dove c’erano tracce dei Visigoti e altre vestigia degne di rilievo), colazione al sacco e partita.
La Roma però aveva cominciato giocando al Motovelodromo Appio, in zona Tuscolana, quindi abbastanza vicini a San Giovanni.

Tifo di famiglia

In quel primo anno in cui la Roma aveva giocato al Motovelodromo, Virgilio alle volte lasciava il padre e i fratelli, per incontrarsi con la cognata Clara e suo marito Angelino che arrivavano dalla via Appia, provenienti dalla villa ai Laghi che Angelo vi aveva fatto costruire. Quest’ultimo aveva in simpatia Virgilio e aveva preso a ben volerlo e a introdurlo nella Roma Bene.
Angelino, ex campione di ciclismo, poteva vantarsi di essere titolare di 18 macellerie a Roma, ed era grande amico di Beniamino Gigli e di altri noti personaggi.

Clara invece era un fenomeno a sé stante, non riproducibile in poche parole. Robusta, bella, la bocca sempre ridente, la battuta prontissima, era la zia di mezza Roma.
Accesa tifosa romanista, costringeva il marito ad accompagnarla allo Stadio, prima al Motovelodromo, poi allo stadio del PNF e poi definitivamente a Campo Testaccio, dove la consuetudine di vedersi nei pressi dello stadio con Virgilio e a volte anche con i suoi si era consolidata. Anche perché il sor Angelo, di cui si vociferava fosse laziale (lui si dichiarava “sportivo”), spesso e volentieri disertava il match per passare il pomeriggio da amici o presso la Fiaschetteria Marini vicino piazza Fiume.

Per qualche anno, per le partite importanti, Angelo e Clara furono soliti passare da San Giovanni in auto (Clara era stata una delle prime donne a guidare a Roma) e tirare su Virgilio e qualche altro componente della famiglia. Da quando Virgilio si era trasferito in via Imera, passavano a prendere lui solo, mentre Claudio e i due fratelli preferivano raggiungere Campo Testaccio in tram.

Oggi però si gioca in casa della Lazio, allo Stadio del PNF, quindi Virgilio tornerà nel caro rione Flaminio, dove ha visto le prime partite di calcio diversi anni prima.
Deve prepararsi e considera la vestizione per lo stadio più ardua e imbarazzante che per le cerimonie ufficiali in cui se la cava indossando la divisa della MVSN.

Non è tipo da cerimonia, ama l’avventura, lo stato brado, la natura, la divisa sì ma quella irregolare. Non ama sentirsi irregimentato. Detesta il vestirsi pensando a chi incontrerà, troppo formale per una partita, troppo trasandato per qualcuno che possa riconoscerlo. Insomma, un tedio vero. Allora decide di mescolare le carte. Dei pantaloni di un vecchio gessato leggero, quasi estivo, un po’ lisi ma in parte nascosti dal cappotto. Una camicia pesante a pelle, di quelle da escursione, sotto il cappotto stesso. Poi borsalino e galosce. Anche calzettoni perché testa e piedi vanno preservati.

Non ha ancora terminato di prepararsi, quando già si sta pentendo per i pantaloni, ma ormai è fatta.
La domenica è impossibile una seconda chance, non c’è neanche la domestica che risolve tutto.
La partita si gioca presto, alle 14,30, gli amici passano un’ora prima, dunque si pranza a mezzogiorno. Frugalmente e da solo.

Dall’anno prossimo comincio a portare il maschio allo stadio”, dice mangiando malvolentieri una mela. “Ma l’anno prossimo Lucio avrà solo 4 anni!”, gli obietta Fanny. “Va benissimo, me lo metto sulle spalle, lo fanno tanti intorno a me…”.

Allo stadio

Malgrado la pioggia a raffica non ha preso l’ombrello perché il cappotto ha la parte superiore impermeabile, così come il borsalino e le galosce. Conta inoltre sul fatto che la tribuna centrale dello Stadio sia coperta (e che il suo posto ricada sotto la copertura!). Si fissa a volte Virgilio e sembra quasi assente (come Fanny gli rimarca), e invece è solo preda dei ricordi, quasi tutti di quella famiglia da cui per qualche verso sta affrancandosi.

Ora attende sotto al portone l’arrivo dei cognati, si stringe nel cappotto e assapora l’aria frizzante. Si ripassa i suoi bei momenti. Alto come il padre, 1,77, il viso carnoso, spalle larghe, il fisico longilineo dalle belle gambe armoniose, Virgilio condensa qualità che non sa nemmeno lui di avere nello sguardo. I suoi occhi verdi alle volte acquistano la luce e la profondità di un’ora che non esiste. Il tempo assume una diversa metrica e in questo tempo esercita il suo fascino, soprattutto verso le donne, che lo vedono ammantato di una certa quieta grazia virile.

All’arrivo, senza neanche scendere dall’autovettura, Angelo gli propone di prendere il solito Campari di riscaldamento pre-partita in zona Piazza d’Armi, a viale Angelico. Sono zone che Virgilio ha frequentato anche per esercitazioni della Milizia o per adunate. Si dice che sul grande piazzale debba sorgere una gigantesca statua di Mussolini.

Più avanti ci sono i lavori del Foro, in cui si auspica sorga al posto dello Stadio dei Cipressi il tanto sospirato Stadio dei Centomila.
L’importante è che non esagerino, pensa Virgilio, cui l’aspetto monumentale del regime dà una segreta inquietudine (“mi sembra tutto un gigantesco mausoleo”). Preferiscono, malgrado la pioggia, fare due passi, lasciare l’auto in zona Foro e guadagnare a piedi lo Stadio del PNF. Si prevede un pienone, circa trentamila persone, in maggioranza romanisti, anche in virtù del risultato dell’andata, 5 a 0 per la Roma.

A pochi metri dall’ingresso, Clara li abbandona perché quasi sequestrata da due amiche, che sono anche le mogli di Scopelli, calciatore della Roma, e di De Maria, della Lazio.

La cosa mette di un qualche malumore Virgilio che si trova meglio con la cognata che con il sor Angelo, ma è abituato a vedere Clara sparire. Non c’è volta alla partita che non incontri un qualche amico, amica, personaggio amico suo e del marito, con il quale si intrattenga, per poi spostarsi ancora chissà dove.
Angelo lascia fare di buon grado. “Noi ci mettiamo sotto, vicine alla rete”, urla loro e si lascia inghiottire dalla folla.

Dopo qualche giorno la ritroveranno immortalata sulle pagine del Tifone con il titolo “Tifose alla sbarra!”, cronache fotografiche della partita che ritraggono lei e le signore Scopelli e De Maria a bocca aperta di fronte agli eventi dell’incontro.

Quell’Isotta Fraschini

Virgilio e Angelo, rimasti soli, se la prendono comoda, in ogni caso hanno il posto sicuro in tribuna, quindi si spostano a margine della strada e aspettano di veder diminuire la ressa.
Non solo la folla e la calca danno loro disagio, ma anche la pioggia che ora scroscia in modo veemente. Come spesso avviene in queste situazioni, si crea un piccolo torrente che invade la corsia e la folla sul marciapiede ora è davvero compressa.
Le forze dell’ordine per giunta complicano le cose, imponendo alle persone di non muoversi in attesa che i livelli dell’acqua vadano calando.

In questo frangente si profila un’auto di grossa cilindrata, che sembra voler ignorare la situazione che si sta creando, procede spedita e nel fendere l’acqua investe platealmente la prima fila degli spettatori, che reagisce imprecando.

L’auto, una lussuosa Isotta Fraschini 8B (auto alla cui fine aveva contribuito proprio il regime fascista), sembra rallentare quasi a rendersi conto cosa sia capitato.
Virgilio, forte delle sue galosce, riesce a farsi largo e a picchiettare con le nocche sul finestrino all’indirizzo dell’autista che per tutta risposta si allontana tranquillamente.
Virgilio torna imprecando nella sua posizione, mentre Angelo che quasi non si è accorto della questione lo invita a pensare alla partita.
Passati non più di due minuti, ancora fermi e implotonati i due, ecco l’Isotta Fraschini che si ripresenta, sembra puntare Virgilio, quindi una frenata secca e una sterzata in sua corrispondenza lo inondano d’acqua fino a metà cappotto.

Terminato il blitz la vettura si dilegua stavolta in maniera più celere. Virgilio resta in surplace, non poteva aspettarsi un dispetto così sciocco e insensato. Non accenna reazioni, limitandosi a constatare la situazione: per la parte sopra nessun problema, ma i pantaloni del gessato, già leggerini, sono del tutto zuppi d’acqua gelida. Intanto, all’improvviso il torrentello è andato a scemare, piove molto meno, la gente si affretta a entrare allo stadio, sono le 14, 25.

Per Virgilio però la partita è già terminata.
Non per l’inconveniente di doverla vedere con i pantaloni fradici, quanto per il dispetto provato per la provocazione stucchevole e vile subita.

Angelo, diplomatico, gli consiglia di portare pazienza, ma entrambi si chiedono chi potesse essere alla guida ma soprattutto a bordo di quella macchina lussuosa. “Di certo un laziale”, incalza Virgilio, Angelo tace. “Vedrai che farà la fine del figurino dell’andata” (e qui Virgilio si riferisce a una vignetta di Lauro, in cui si raffigura un signore della Roma bene, stereotipo di un tifoso degli azzurri, prima e dopo il derby giocato nel novembre ’33).

Il derby

La partita si mette presto bene per i giallorossi: tre gol entro i primi quindici minuti e Lazio annichilita. Sugli spalti non si segue più l’incontro ma ci si dedica a cori di scherno e a filastrocche irriverenti nei confronti della squadra che sta soccombendo.
Allo stadio il clima che si respira in tribuna e quello che si percepisce in campo si contagiano reciprocamente.
I romanisti considerano la partita archiviata, e così i giocatori inscenano un palleggio derisorio nei confronti degli avversari.
La Roma gigioneggia anche in virtù del complesso di superiorità che coltiva forte di una rosa in cui militano Masetti, Bernardini, Tomasi, Ferraris IV, Guaita, Scopelli e altri campioni di primissimo piano.
Ma è proprio questo atteggiamento a segnare il destino della partita.

Malgrado un gol leggermente fortuito che porta la partita sul 3 a 1, la Roma non muta atteggiamento. La Lazio, non avendo più nulla da perdere si getta in avanti con la forza della disperazione.
Virgilio comincia ad avvertire una certa inquietudine che scaccia come una mosca fastidiosa.
Poco dopo arriva puntuale la seconda marcatura di De Maria, che accorcia ancora le distanze.

Nel secondo tempo la partita procede con continui cambi di fronte, ma la Roma non si riorganizza e la sua tensione agonistica cala del tutto quando Armando Del Debbio viene espulso per un errore di persona commesso dall’arbitro (anche all’andata lo stesso giocatore aveva lasciato la Lazio in 10 causa infortunio).

1934 DERBY LAZIO ROMASugli spalti l’atmosfera si incrudelisce (i tifosi sono mescolati, non ci sono settori specificamente riservati agli uni o agli altri), e polizia e carabinieri sono costretti a intervenire per spegnere focolai di zuffe che si accendono un po’ ovunque.

La giornata si sta aprendo, e quasi si affaccia il sole, quando la Lazio pareggia, e sul volto di Virgilio si disegna una piega di dolore e di scoramento assoluto.
Ancora De Maria, nella gioia incredula dei laziali.
La partita finisce, malgrado altre rabbie e altre emozioni.
La Roma colpisce tre paletti prima del termine dell’incontro (uno di Ernesto Tomasi e due consecutivi di Fulvio Bernardini), ma il risultato finale è 3 a 3. Uscendo, mentre Angelo, divenuto molto più loquace, parla con entusiasmo di “grande partita” e di essersi davvero divertito, Virgilio non ha neanche la forza di obiettare qualcosa.

Malgrado i pantaloni si siano praticamente asciugati, avverte quella coltre pesante e quello sfinimento emotivo che lascia un senso di tristezza e di esaurimento delle energie tipiche di tanti fine partita (stanchezza amabile da centellinarsi quando si vince, abbattimento fisico e nausea verso il gioco del calcio in caso di sconfitta).

Ancora l’Isotta Fraschini

In tutto questo, come in un gioco a incastro in cui tutto sia stato predeterminato, ecco ricomparire, ferma a bordo strada, l’Isotta Fraschini. L’autista è fuori dell’auto, e sta terminando di fumarsi un sigaro, mentre si intravede qualcuno seduto dietro.

Virgilio abbandona Angelo e si dirige  deciso verso il passeggero, ma l’autista, forse riconoscendolo, ha già gettato via il sigaro ed è pronto a intervenire. A questo punto Virgilio si ricorda che l’autore dell’affronto non è chi sieda dietro ma giustappunto l’autista, e appena questi gli è a tiro lo afferra per il bavero.

All’istante dall’auto si precipita fuori un uomo elegante sulla cinquantina, barbetta, che tenta di bloccare Virgilio e di colpirlo contemporaneamente. Virgilio allora stacca una mano dall’autista e con questa blocca l’aggressore, quindi liberando l’autista, lascia partire un ceffone che colpisce in pieno l’uomo dalla barbetta.
Mentre quello stramazza lentamente al suolo, Virgilio pensa di averlo riconosciuto.

E ne è preoccupato.

La pagherete…

L’uomo riesce appena a mormorare “Voi non sapete con chi avete a che fare, la pagherete…”.
L’autista provvede adesso a soccorrere l’uomo, che appare più scosso che malconcio. Virgilio è raggiunto intanto da Angelo che lo prende sottobraccio e lo invita a salire su un taxi con lui.

Nella settimana successiva, tutta la famiglia condivide la preoccupazione che Virgilio aveva sentito assalirlo nell’immediatezza del fatto.

GIOVANNI MARINELLI
(Giovanni Marinelli)

L’uomo dell’Isotta Fraschini è Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito, coetaneo, amico e gran sodale di Mussolini, al cui fianco non è stato solo nelle fasi della presa del potere, ma prima, nel partito socialista, nella scelta interventista e infine nella fondazione dei Fasci da Combattimento.
Ma c’è di più, Marinelli si sospetta sia anche il capo della Ceka fascista ai tempi dell’affair Matteotti. Ed è finito alla sbarra come uno dei più coinvolti in quella losca vicenda.

Claudio, nel silenzio cupo che ha coinvolto tutta la famiglia, è stato l’unico a dire qualcosa: “Ma è quello di Matteotti? Allora Virgilio ha fatto bene!”.

Dalla sua però Virgilio ha che a Roma e nel fascismo è una figura defilata ma molto stimata. Non ha poteri, non gestisce nulla se non piccole attività legate alla Milizia. Ma è un giornalista ed è molto vicino ai D’Annunzio. Colpirlo sarebbe un grave errore.
Per una banale lite da stadio poi…

Ma di certo Marinelli si è mosso per farlo in qualche modo punire.

Come appartenente alla Vecchia Guardia e legionario fiumano, dal presente e dal passato adamantini, è difficile metterlo alla berlina. Marinelli invece non è amato da nessuno, salvo che nelle sue aree d’origine, il Polesine, per il quale si è dato molto da fare.
Per il resto, Marinelli è figura arrogante e vendicativa, e vanta anche la Medaglia d’Oro della Marcia su Roma. Per un paio di settimane non accade nulla, nessuno dei due ha proceduto alla denuncia, e i duelli sono ormai da anni banditi.

Basta un “beh”

In una mattina di aprile, a casa di Virgilio arriva una telefonata e una convocazione. Deve recarsi alla Casa del Fascio per una comunicazione ufficiale. In casa c’è costernazione.
Perché dopo tutto quel tempo e perché in quel luogo? Virgilio va, ma va armato.

Viene ricevuto dal locale segretario, che lo conosce a menadito.
 “Di che si tratta?”.C’è qualcuno che ti conosce, che ti aspetta”.
Virgilio viene introdotto in una piccola stanza.
Un uomo di spalle, seduto, in una stanza disadorna, lo attende.
Virgilio lo vede, lo riconosce, anche se di spalle, si sente sollevato.
Gli va incontro di slancio. Si tratta di Renato Ricci, segretario del PNF, sottosegretario di governo e Presidente dell’Opera Nazionale Balilla.

Ricci lo frena con un gesto ma non riesce a trattenere un piccolo sorriso. “Ma che hai fatto? Hai malmenato Marinelli?!”, Virgilio sta per interloquire, ma Ricci lo previene ancora.
I due si sono conosciuti a Fiume, nel 1919, e poi persi un po’ di vista negli anni Venti quando Ricci ha iniziato a ricevere le sue investiture.

Non è a me che devi rendere conto. Dobbiamo fare una telefonata…”.
Si trasferiscono in una stanza più ampia, dove campeggia un apparecchio telefonico. La linea è già aperta. Parla Ricci e dice poche parole, si limita ad annuire, prima in maniera tesa, poi in maniera sempre più rilassata.
 “A te, parola all’”imputato”!”, Ricci lo dice sorridendo e Virgilio ha la buona idea di esordire domandando, ma con tranquillità: “Sono imputato?”.

Dall’altra parte, Mussolini è incuriosito e divertito: “Non sai che alla partita ci si va sobri?”, “Ne convengo, duce!”.Bene, allora diciamo che proprio sobrio non eri e che questo ha dato origine a quel piccolo, increscioso incidente. Per di più, da non sobrio non avevi riconosciuto il Camerata Marinelli, con cui hai condiviso i giorni eroici della Marcia”. “D’accordo con voi...” risponde Virgilio con voce nient’affatto convinta.

Mussolini ha un’esitazione, poi aggiunge “Diciamo pure che allora l’incidente è chiuso qui!”.
Mi permetto di aggiungere”, osa a quel punto dire Virgilio “che date le circostanze in cui è maturato il fatto, qualora avessi riconosciuto sua Eccellenza Marinelli, il mio comportamento non sarebbe cambiato”.
Silenzio.
Beh!” esclama a quel punto Mussolini e immediatamente la linea cade.

Ricci e Virgilio si guardano.
Poi Ricci conclude “La situazione è risolta, vattene a casa”.
Per qualche settimana la famiglia si interroga su quel “beh” corredato da punto esclamativo pronunciato dal duce.

Ma la questione è chiusa davvero.

 

Fabrizio De Priamo Laureato in sociologia della comunicazione, si è successivamente perfezionato presso la Scuola di Giornalismo della LUISS (area comunicazione d’impresa). Ha ricoperto tutti i ruoli editoriali, da redattore a editor a direttore editoriale. Ha svolto numerose docenze e collaborazioni con Università pubbliche e private in materia di comunicazione, storia contemporanea ed editoria libraria. Attualmente è direttore del Centro studi di Ipermedia, l’associazione professionale degli operatori della comunicazione e dell’editoria, associata a Confassociazioni.

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