Il portiere è differente. Non è il colore della maglia, quello è il meno. Solo chi è stato tra i pali può capire, ma non lo sa spiegare e mai dirà la verità fino in fondo. Più etichette di uno scooter modificato: giocoliere, eremita, squinternato, teatrante, estraneo, equilibrato ed il contrario di tutto. Nella storia del calcio sono tanti gli artisti, per lo più attori e cantanti, ma qui raccontiamo dei pittori, di uno in particolare. Qui raccontiamo di Domenico Maria Durante.
L’artista e i visionari
Murazzano, provincia di Cuneo, 2500 anime a cavallo tra XIX e XX secolo, adesso un terzo e la discesa non si frena. Domenico di buona famiglia, studente brillante dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, città non più capitale ma ancora cuore pulsante d’Italia. Ragazzo tra ragazzi con mille interessi, conosce quei visionari che dal D’Azeglio hanno deciso di fare squadra, portano la gioventù nel nome e, da quell’autunno 1897, si chiamano Football Club Juventus.
Dieci stagioni di Juventus
Durantin, per gli amici, gioca in porta e sceglie l’allor giovane signora dopo una prima esperienza con la Ginnastica Torino. Siamo nel 1901, è il secondo portiere della storia del club dopo Beniamino Nicola, stimato medico. Una carriera che abbraccia dieci stagioni dall’esordio contro il Milan il 28 aprile 1901 all’ultima presenza il 26 novembre 1911 nel derby contro il Torino, curiosamente due sconfitte. Dieci anni, una pausa di tre nel mezzo, per una quarantina di presenze complessive ed una trentina di reti subite. È lui tra i pali, nel 1905, nella Juventus per la prima volta campione d’Italia. Lo “scudetto” arriverà più avanti con i legionari di D’Annunzio, in palio c’è la Targa Federale, i bianconeri si lasciano finalmente dietro il Genoa Football and Cricket Club.
Baffi e carattere
Durante divide la gloria con i colleghi del politecnico Armano e Mazzia, Barberis e Donna di giurisprudenza, Varetti che studia ingegneria, il geometra Forlano, lo svizzero Walty, lo scozzese Diment e gli immancabili pionieri inglesi, Squire e Goodley.
Durantin ha dei bei baffoni, un po’ come tutti, è il bersaglio di battute e palloni, ma decide lui quando si può scherzare e quando no, anche con l’arbitro finisce spesso a male parole, allergico com’è all’autorità. Tira cazzotti al pallone e lo allontana quanto più può, funziona così all’epoca, non ci sono maestri né riferimenti e, di tutti i ruoli, l’estremo difensore è quello più rozzo ed istintivo. Si para con i piedi, si spazza con i piedi, la palla non si blocca mai, le mani si usano in area per arrivare prima del forward. Serve coraggio, tempismo, temerario tempismo. Il Durantin ce l’ha e da vendere, ride il pubblico a bordo campo quando si appella al loro intervento, sventolando il berretto, davanti a qualche stramberia del direttore di gara.
L’autoritratto
La maglia della Juventus è la sua seconda pelle. Lo ricorderà a noi, e a sé stesso, con un autoritratto del 1926 quando, oramai 47enne, è solo e soprattutto pittore affermato. Durantin uomo maturo, via i baffi e capelli ora radi, a mezzo busto di tre quarti su sfondo paesaggistico. Maglia bellissima, stemma tricolore e fascio, le radici e il presente, occhio severo come piace a lui, a far capire che è meglio stare alla larga, per abbracciarsi casomai ma a partita finita. Solenne e soprattutto misterioso come la didascalia al dipinto: Domenico Maria Durante Campione di calcio et pittore.
Parallelo ardito
Nel 1902 espone a Torino, evento internazionale di arte decorativa moderna. È l’inizio di un’attenzione che trova estimatori ovunque, la biennale di Venezia, Inghilterra e Germania, re Vittorio Emanuele III si aggiudica diversi dipinti, la collezione Giovanni Agnelli ne fa incetta. Durantin esprime la tradizione, il suo tempo è il ‘400, ma vive gli anni dell’asse Milano-Parigi che viaggia a mille tra futurismo e cubismo. Lui sente verismo e simbolismo più consoni, ama il rinascimento, incassa il distacco dei critici d’avanguardia, ma lui va avanti, come su quei campi con poca erba e tante nuvole di terra. Lui è diverso dagli altri venti giocatori, solo uno è come lui ma sta dall’altra parte, più lontano non si può.
Capolavoro
Cresce ma non cambia, decadente ma sempre misurato, trova pace nei ritratti femminili quasi fotografici. Dea del 1908 è di una bellezza che io le parole non ce l’ho. Aggiunge temi religiosi, realismo di sorrisi dolci e di alone enigmatico. La forza della luce, della protezione, della maternità di “Mater Purissima” è, direbbe paganamente Eupalla, la sua parata più bella. “Io sono la rugiada, il giorno/ ma tu, tu sei la pianta“.
La prossima volta proverò a dire di altri portieri pittori, eroi solitari
Enrico Paolucci, Combi prima di Combi, ed Ezio Sclavi, prigioniero d’Etiopia. Intanto, quanto sopra, è dedicato a Gigi Meroni, il più grande artista italiano del nostro scontento che continua, inafferrabile, a dipingere tra gli angeli.