George. Best, pop, rock

Divo assoluto, geniale, esteta del dribbling, innamorato della vita viscerale e senza regole, George Best lascia un segno indelebile nel calcio moderno e paga i suoi conti fino in fondo.
George Best

George questa storia l’hai raccontata spesso anche tu, ci ridevi sopra, poi vallo a sapere se sia andata proprio così.
In ogni caso io quella domanda non te l’avrei mai fatta.
Certo, il ragazzo bisogna pur capirlo; faceva il cameriere, un lavoro onesto che fa vedere la vita in un certo modo anche se, lavorando in un albergo con casinò, qualche cosa in più della vita probabile che l’avesse già vista.
Qualche cosa in più, ma forse mai così tanto.
Quel pomeriggio, iniziando il suo turno, il ragazzo non poteva immaginare che la vita gli sarebbe apparsa tutta insieme e in un solo momento, in una sola stanza, grande, bella e di lusso certo, una suite, ma pur sempre quattro pareti e qualche finestra e uno mica se lo aspetta che dentro una stanza si nasconda un paradigma dell’Universo.
Quando il ragazzo bussa alla porta pronto a spingere il carrellino con la glacette e dentro la bottiglia di champagne che avevi chiesto, non può sapere che la vita sta per saltargli addosso, tutta e senza preavviso.
La tua vita, quella di George Best.

George Best

The Genius

Dietro quella porta c’eri tu, George Best in persona, anzi the Genius, come sembra ti abbia chiamato per primo Bob Bishop, l’osservatore del Manchester United, uomo di esperienza e viso rugoso che ti vede giocare su un campetto di Belfast e per primo, anche se sei magro fino all’osso e sembri sbarellare al vento, ti fiuta e capisce.

Dietro quella porta c’eri tu, il George Best affamato di vita come sempre, come poteva esserlo un ragazzino nato a Belfast nel 1946, un figlio della working class con padre operaio e madre alcolizzata, cresciuto a giocare a pallone in strade circondate da mattoncini rossi e su campi dove il fango arrivava ben sopra le caviglie.

E poi c’era lei, Mary Stavin, modella svedese, Miss Mondo 1977; dice che fosse distesa sul letto, vestita solo per modo di dire, circondata e persino coperta da migliaia di sterline, perché quella sera al casinò avevi vinto forte e adesso bisognava festeggiare.
Tanta vita vero George?
Troppa per quel ragazzo che si guarda intorno, troppa per non farlo entrare in panorami sconosciuti e non fargli perdere l’orientamento.

Il ragazzo è cresciuto con il mito di George Best e tu lo sai

Ti guarda, poi prende coraggio e ti chiede Georgie, where dit it all go wrong?
Ti chiama Georgie perché così ti chiamano i tifosi, proprio come se il George Best che li fa impazzire in campo sia sempre il ragazzino che giocava dietro l’angolo di casa, il ragazzino che alla fine ce l’aveva fatta a mordere quel mondo che l’aveva fatto nascere nella sua periferia umana e sociale.
Georgie, quando hanno iniziato ad andarti male le cose?
A te lo chiede, proprio a te.
Lo guardi, sorridi, gli dai la mancia e lo mandi via, lo lasci tornare nel suo mondo.
Là fuori, fuori da quella porta, nell’altro mondo, ci sono quelli che George Best lo amano, quelli che lo invidiano, quelli che lo additano.
Giocando sul quel cognome da predestinato, molti dicono che tu sia il migliore, cosa possibile perché esprimi un calcio che nessuno aveva mai visto prima, di sicuro però tu sei The genius e di sicuro sei pop e rock.
Tu sei George Best e sei oltre.

George Best 1963

Facciamo un passo indietro.

A Belfast si cresce in fretta.
Tu hai appena 15 anni quando lasci i campetti di casa con destinazione Manchester United, che non è una squadra, ma un tempio del calcio che in quegli anni ha come gran sacerdote lo scozzese Sir Alexander Matthew Busby, Matt per tutti.
Matt allena i Red Devils dal 1945 al 1969, sopravvive alla tragedia di Monaco di Baviera del 1958, porta la squadra nell’Olimpo del calcio e tu gli darai una grande mano.
A Manchester arrivi nel 1961, ma non ti ritrovi, te ne vai, torni a casa perché in fondo i campetti sono più rassicuranti dell’Old Trafford.
Per fortuna che c’è tuo padre che ti parla e ti convince a tornare in Inghilterra.

Filosofia del Campo

Un paio di anni nelle giovanili e il 14 settembre 1963 esordisci in prima squadra.
L’ultima partita con lo United la giocherai il primo gennaio 1974, dopo qualche giorno sarai messo fuori squadra per non esserti presentato agli allenamenti. Te ne vai dopo aver vinto praticamente tutto, giocato 361 partite e segnato 137 goal, molti di una irruenza estetica allo stato puro e mai vista prima.

Movimento, fantasia, coraggio, insofferenza, in quelle partite e in quei goal c’è veramente tutto, inutile citarne solo alcune, magari sempre le stesse, come quella contro il Benfica o quella contro il Milan.

Il campo per te non è mai stata una questione di numeri e di ruoli; certo il 7 ti rimane attaccato sulla pelle, ma giochi anche con l’8, l’11 e per una stagione persino con il 9.
Il campo per te è terra di conquista, il pallone lo insegui dove vuoi, quando ce l’hai attaccato al piede scendi verso la porta e non importa se la traiettoria sia diritta, in diagonale o tutta da inventare, non importa quanti giocatori devi dribblare, quanti ne metti seduti a terra che tanto ti piace farlo che persino i portieri dribbli .
È un’estetica misteriosa quella che governa ogni tuo movimento,  è sintonia primordiale e danza tribale  quella che metti in scena e  che ti fa andare oltre gli schemi e persino del buon senso.

Best numero 7Filosofia del Gioco

È così che in campo fai cose clamorose che solo in apparenza non c’entrano nulla con il Gioco, ma che invece del Gioco sono quintessenza, distillato prezioso, nettare magico di un Dio che occhieggia agli umani per farne ciò che vuole.  
Come il 15 maggio 1971, quando rapini la palla a Gordon Banks, il portiere dell’Inghilterra, e segni un goal impossibile, talmente impossibile che l’arbitro lo annulla.
O come quella volta che, dopo aver smarcato tutti, ti sei tolto lo scarpino in mezzo al campo per passare poi la palla tirando di piede e calzino.
Oppure come quel 13 ottobre del 1976, quando giochi con la Nazionale contro l’Olanda.
Al 5° minuto ti arriva la palla e tu invece di puntare la porta cambi prospettiva, capovolgi il mondo, ti giri, corri indietro, smarchi due avversari, ti presenti davanti a Cruyff che non crede a quello che vede, lo finti e poi gli fai un tunnel.

Un tunnel, a Cruyff, il Profeta del goal, uno tra i giocatori più forti di tutti tempi.  
È il beau gest, filosofia inconsapevole, azione, pensiero, estetica, fuoco sacro primigenio.  Il senso è tutto lì.
Placato il demone lanci lontano la palla e dopo che te ne sei liberato vai dal Profeta a dirgli una cosa che con il senno di poi fa venire i brividi, gli dici tu sei il più forte, ma solo perché io non ho tempo.

Era vero

Nel 1976 non avevi più tempo perché negli anni sessanta avevi già fatto e vinto tutto, campionati, Coppa dei Campioni, Pallone d’Oro.
Avevi lasciato lo United da un paio di anni, la tua parabola calcistica si sarebbe consumata ancora per qualche tempo in qualche partita per la Nazionale irlandese e tra ingaggi che ti avrebbero portato in vari continenti con squadre dai campi facili.
Il tempo non torna mai indietro, ma il tuo era fuggito in avanti.
Guardiamolo da vicino però il tuo tempo, il tempo in cui nasce il genio del calcio, l’icona pop, il personaggio rock.

George Best

Tu sei capitato in un tempo straordinario

Tu, con il tuo genio e la tua sregolatezza, ti sei ritrovato al massimo del successo calcistico proprio negli anni della swinging London e Dio solo sa quanto quell’effervescenza creativa e culturale espansa tra la metà degli anni cinqiuanta e la fine dei sessanta abbia influenzato quegli anni e quelli a seguire.
Mary Quant accorcia le gonne e libera le gambe delle ragazze, che poi se prima di lei lo abbia fatto André Courrèges c’è da dire che non se n’era accorto quasi nessuno. Twiggy la modella filiforme diventa icona di una nuova estetica del corpo femminile e indossa vestiti psichedelici, i Beatles cambiano la musica, allungano i capelli e indossano abiti minimal sartoriali su colletti abbottonati, Richard Hamiltonconia il termine pop art, l’amore diventa molto libero o forse solo meno nascosto, i giovani iniziano ad essere una categoria non solo anagrafica.
Ecco, in questo fermento arrivi tu, inevitabile che ci fosse il corto circuito, inevitabile che di quel fermento diventassi un idolo.
Sei famoso, sei irregolare, sei bello, sei ingordo di vita e sei egoista perché la vita la vuoi tutta e a modo tuo, bevi tutto il possibile, ami tutto il possibile, compri macchine veloci perché anche la velocità è una categoria dello spirito proprio come i tuoi dribbling, sciupi denaro a fiumi per non esserne ostaggio.

Impossibile fare distinzioni, impossibile separare

The Genius, il calciatore che in campo non ha regole e che inventa goal ed equilibri con la palla al piede è la stessa persona che dell’eccesso fa la sua regola fuori dal campo.
L’uno senza l’altro sono inconcepibili.
L’uno non sarebbe esistito senza l’altro e mi voglio immaginare le risate che ti sarai fatto leggendo e sentendo quelli che si domandavano quanto sarebbe stato ancora più grande il calciatore se l’altro, il dissoluto, non avesse preso il sopravvento.
Bullshit!
Tu sei George Best e puoi essere solo prendere o lasciare.
Lo so, qualche volta non hai fatto bella figura.
Ad esempio andare in televisione ubriaco come è successo quando sei stato invitato da Terry Wogan sulla BBC non è bello, ma è il concetto stesso di bella figura che a te calza come uno scarpino stretto; non ti veste, non ti si addice, non ti rappresenta, soprattutto non ti fa giocare e se non giochi non sei George Best.

George Best

Bere per te non era un optional

L’alcol ti ha mangiato dentro e quando nel 2002 hai avuto un fegato nuovo che doveva servire per farti stare bene, devi aver pensato che fosse un lasciapassare per continuare la vita di prima, che poi in effetti era l’unica che conoscevi.
In effetti non era quello lo scopo.
Quel fegato nuovo ti ha fatto guadagnare del tempo, ma neanche tanto.

L’ultima foto

Il 20 novembre 2005 il tabloid News of the World ti dedica due pagine.
È la tua ultima intervista e una delle due pagine è interamente occupata da una foto che ti ritrae su un letto di ospedale.
Ci sei da un mese, sei dimagrito 30 e più chili, sei pieno di lividi, hai la pelle gialla e gli occhi vacui che guardano senza guardare, occhi che aspettano soltanto.
Tu sei stato the Genius perché il pallone ti scorreva nelle vene prima che tra i piedi, sei stato pop perché hai incantato stadi interi, tifosi e avversari, sei stato rock perché hai avuto lo stesso ritmo di vita della musica che in quegli anni beffava e rompeva ogni schema.
Tu sei stato tutto questo e lo sai che stai per morire.
Ancora una volta vuoi fare il beau geste, ancora una volta vuoi essere teatrale come se anche alla morte potessi fare lo stesso tunnel fatto a Cruyff.
Dici al giornalista che deve titolare il servizio don’t die like me e il giornale lo scrive a tutta pagina.
Non morite come me sembra un messaggio semplice, superfluo da interpretare e forse è proprio così.

Don't die like me

A me piace credere altro, però

A me piace credere che tu volessi dire non morite come me  perché nessuno aveva vissuto come te, nessuno aveva la tua vita alle spalle, quella vita che in tuo libro hai descritto  costellata di…Miseri campi di allenamento, alimentazione orrenda, terreni di gioco fangosi, stadi gremiti, canzoni stupende, arcigni centromediani, centroattacchi inarrestabili, allenatori per sempre nella stessa squadra, magliette senza sponsor, calci d’ inizio alle tre del pomeriggio e, dopo novanta minuti di tirar calci e prenderne, una birra scura in una vasca di acqua sporca.
Nessuno aveva il tuo genio e la tua sregolatezza.

Te ne vai il 25 novembre

Accanto a te ci sono tuo padre e tuo figlio, uno ottantasei e l’altro venti anni.
Lasci scritto di donare gli organi, nel caso che ce ne fosse ancora qualcuno sano.
Non so che strada tu abbia fatto per passare dall’altra parte, ma ho l’impressione che se per caso anche su quella strada c’era un bar, tu sia ancora lì a bere birra o vino o whisky o cocktail o quello che capita.
Magari neanche da solo, che a te trovare compagnia è sempre rimasto gran facile.

Belfast, 2 dicembre

A Belfast il 2 dicembre ci sono decine di migliaia di persone.
È venuta a salutarti gente innamorata del tuo calcio, gente innamorata di quello che sei stato, del tuo genio e anche dei tuoi eccessi. Gente comune, ex compagni di squadra e volti noti vivono indistintamente la tristezza corale della tua perdita.
Sir Alex Fergusson, altro mito del calcio, dice che non poteva non esserci ai tuoi funerali, Sven Goran Erikson allora allenatore della nazionale inglese confessa di aver pianto, Dennis Law uno dei protagonisti con te dei successi dello United fa ridere tutti quando dice non mi sarei sorpreso se oggi non si fosse presentato.

Niente è andato male George

Ecco perché la domanda che ti ha fatto il cameriere dell’albergo io non te l’avrei mai fatta George.
Non l’avrei mai fatta perché tu non sei stato the Best, che alla fine qualcuno migliore di qualcun altro prima o poi arriva sempre.
Tu sei stato George Best.
Unico.
Niente è andato male George, semplicemente è andato tutto come doveva andare.

…la mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati:
non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità
(Friedrich Nietzsche, Ecce Homo)

  

 

Marco Panella, (Roma 1963) giornalista, direttore editoriale di Sportmemory, curatore di mostre e festival culturali, esperto di heritage communication. Ha pubblicato "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015), "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016) il thriller nero "Tutto in una notte" (Robin 2019) e la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021)

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