“L’energia delle onde è l’origine di tutto. Se cominci a fare surf, non ne puoi più fare a meno.”
Leggevo e giravo tra le mani questa frase del mio amico Winki, surfista e narratore di decine di surftrip in giro per i mari di tutto il mondo.
Già perché in questa semplice frase è racchiuso quel viaggio interiore che diventa la passione per questo sport, che sport forse non è, o almeno non solo quello.
Perché il surf è qualcosa che ti entra dentro, al di là che tu sappia andarci o meno, che tu riesca a cavalcare un’onda o che faccia sforzi considerevoli per restare in piedi 5 o 10 secondi.
Salvo provarci da ragazzo, quando girovagavo da un villaggio turistico all’altro in qualità di animatore e musicista, non mi ero mai cimentato sul serio nella pratica del surf, fino a quando non
andai a vivere al mare, a Fregene per l’esattezza, circa 25 chilometri da Roma.
Ero affascinato da quei ragazzi che vedevo arrivare con le tavole sotto il braccio, mi sembravano degli invasati che vedessero il mare per la prima volta.
In realtà, quello che vedeva il mare per la prima volta, ero proprio io: non l’avevo mai osservato con gli occhi dell’amante ma solo con quelli del bagnante, ignaro di quel movimento strano ed ogni volta mai uguale che è l’Onda.
Ma da dove arriva un’onda?
Ve lo sussurro, come fosse un segreto: in mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell’acqua, creando un’increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, diventano più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso, un po’ come quando getti un sasso in uno specchio d’acqua…
A riva noi, in effetti, riceviamo l’energia che si è sprigionata da quella tempesta, così forte da generare un treno di onde, chiamato swell. Questo treno, se la tempesta o la perturbazione è stata potente, sovrasta tutte le altre onde che trova sul suo cammino, assumendo un andamento regolare, con un lasso di tempo fra un’onda e l’altra chiamato periodo.
Ma è quando lo swell si avvicina sotto costa che nasce l’alchimia: la parte bassa delle onde incontrano il fondale marino e, a seconda della sua conformazione, subiscono una deviazione rispetto al percorso originario, spingendo in alto la parte visibile dell’onda stessa. Più la profondità dell’acqua diminuisce, più aumenta la resistenza opposta dal fondale, rallentando così l’avanzamento dell’onda che si alza impetuosa, facendosi più ripida, per poi infrangersi contro la riva.
L’onda migliore, in questi casi, è quella con vento da terra (off-shore) che ha il potere di levigare l’onda stessa e renderla più liscia, che riesca a darti la possibilità di prenderla (take-off), che abbia una parete adatta a surfare, che non si rompa verso il basso tutta insieme (closeout) ma poco alla volta, in una direzione o l’altra (verso destra o sinistra), consentendoci di viaggiare grossomodo paralleli alla riva e planando verso un instante prima che muoia.
Ecco, ho descritto la parte tecnica, ma ora lasciatevi portare nell’anima di chi fa surf e vive il tutto a contatto con il Tutto.
La parte più faticosa è arrivare lì dove l’onda “rompe”, ovvero incontra il fondale basso, perché remare controcorrente è faticoso, ma…esiste un trucco: anche se in apparenza il mare sembra essere tutto compatto, in realtà è come se fosse diviso in sezioni. C’è una sezione dove l’acqua è bassa, la cosiddetta “secca”: qui le onde si infrangono a riva e poi fanno una specie di conversione a U per poter così rientrare nel mare e tornarsene da dove sono arrivate. Bene, questa sezione diventa così un canale di uscita verso il mare aperto (che poi è quello che usano i natanti di qualsiasi genere per uscire verso il largo…). Intercettando questo semplice movimento dell’acqua, un surfista è in grado, con la sua tavola, come se fosse un’imbarcazione, di spingere verso il point break (ovvero il punto di rottura) e trovarsi con poche remate a ridosso dell’onda, senza il pericolo di beccarsi un salutare schiaffone dall’onda stessa.
Unica precauzione: fare attenzione, poiché in questa sezione, il mare è più profondo (buca) e si rischia facilmente di affogare, non capendo che la risacca ti porta fuori.
È in questo preciso momento, quando superato il punto di rottura il surfista si mette a cavalcioni della tavola, osservando le serie di onde che arrivano dall’orizzonte e che ti passano sotto come una scarica di corrente elettrica, che nasce quel momento magico in cui il Cielo, la Terra, il Mare e il Sole sembrano fondersi sopra le nostre teste.
In quel preciso momento sei immerso nella Fonte, nell’Energia, sei immerso in Dio.
È solo allora che capisci una cosa fondamentale: il rispetto e l’amore infinito per il Mare, il quale ti permetterà di intercettare una sua creatura e cavalcarla, come fosse un meraviglioso cavallo bianco.
Cavalcare un’onda è come cavalcare questo nobile animale, perché sotto la tavola percepisci qualcosa di vivo, di potente, di meraviglioso.
Sei tutt’uno con il Mare, diventi il Mare stesso.
Nei miei pochi o tanti viaggi alla ricerca di spot interessanti, in giro per l’Europa, da Carcavelos in Portogallo a San Sebastian, Playa De Somo, Mundaka in Spagna o Biarritz in Francia, ho trovato quello che cercavo stranamente in Sardegna, nella costa ovest.
In un lungo surf trip di qualche anno fa, sono partito da Portoferro, vicino la ridente cittadina di Alghero, che sembra parte della Catalogna, per scendere verso Capo Mannu prima, Buggerru poi e S.Antioco nel finale, trovando spot di tutti i tipi, adatti a quelli bravi e a quelli meno (come il sottoscritto).
L’esperienza più bella di questo Viaggio non solo fisico, è stato l’approdo a Capo Camp, una comunità surfistica in un ex convento di suore, ove si dormiva in camerate rigorosamente separate uomini-donne, si faceva Yoga la mattina e poi si andava alla ricerca di onde, nei tanti luoghi intorno al Campo: S’Archittu, Is Arenas, Is Arutas, Santa Caterina e Lui, il gigante degli spot, Capo Mannu, con le sue derivazioni Mini Capo e lo Scivolo. Un susseguirsi di spot sabbiosi (beachbreak) o scogliosi (reef) nei quali ho trovato appassionati di tutti i generi e nei loro occhi ho letto inevitabilmente la stessa cosa, specie dopo una session di più ore: la serenità interiore, quel Nirvana raggiunto tramite la pratica del Surf, la disciplina più vicina all’estasi che io conosca.
A 57 anni suonati, è questa la mia esperienza.
Tutt’oggi, ogni volta che posso, che sia inverno o estate non importa, avendo la fortuna di vivere al mare, vado sempre ad affacciarmi per vedere le condizioni.
Quando arrivo a ridosso della spiaggia, dopo aver letto le previsioni, mi diverto a osservare se ci hanno indovinato (spesso esagerano sul volume dell’onda), se ci sono surfisti in acqua o ragazzi che fanno scuola. Mi piace poggiare la mia tavola, una 8 piedi (minimalibù, una longboard più corta) sui tronchi d’albero che trovo a riva, spesso grandi quanto animali preistorici. Sto lì ed osservo i movimenti del mare, le sue onde, per capire se sono adatte ad essere cavalcate o se è meglio non entrare.
Respiro la brezza marina che ti entra nelle narici e che ti fa sentire tutt’uno con il Creato.
Indosso la muta, se occorre. Faccio qualche esercizio di stretching, mi bagno i piedi per sentire la temperatura, poi metto i piedi in acqua.
Sorrido, dentro e fuori.
Le onde, che sembravano piccole, vedendole dal basso disteso a pancia sotto, ti sembrano improvvisamente enormi. Inizia quella piccola sfida con te stesso, mentre chiedi al Mare di sostenerti, di accettarti nella sua pancia, di farti sentire vivo.
In quel momento stai lasciando alle spalle il lavoro, i problemi, la pandemia, le paure del futuro.
In quel momento, alle tue spalle hai lasciato un corpo, mentre l’Anima libra leggera sospesa nel quinto elemento.
Come può tutto questo chiamarsi semplicemente sport?
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