Sono nato nel 1890 ad Hale’ākala nelle Hawai, isole felici che non sono solo isole, ma un intero universo dove uomini e dei si sono sempre parlati. Spesso anche aiutati.
Mio padre era un poliziotto. Amava molto mia madre, l’unica donna della sua vita, alla quale diede un gran da fare con nove figli da crescere e i tanti nipoti che sarebbero arrivati dopo.
Ho fatto studi regolari, al tempo cosa rara, ma i miei genitori ci tenevano. I maestri mi hanno insegnato tante cose, anche a parlare bene la lingua della grande terra, quella al di là del nostro orizzonte.
Il mio vero Maestro, però, è stato il mare.
È li che ogni giorno, finite le lezioni, andavo. A volte mi fermavo a riva, mi sedevo e lasciavo che le ultime lingue delle onde mi bagnassero le gambe. Era il mio modo per parlare con loro e anche con i nostri dei.
Altre volte invece mi immergevo, mi muovevo per rimanere a galla e loro, le onde, mi rimbalzavano dall’una all’altra come divertite dal gioco.
I ragazzi più grandi mi insegnarono a nuotare, ma furono le onde a insegnarmi il segreto del respiro.
Anzi, mi insegnarono a respirare come loro.
È cosi che io, Duke Kahanamoku, sono diventato onda tra le onde.
È così che sono diventato un dio del grande mare, dell’Oceano, come lo chiamate voi.
Papa he’e nalu, ma se vuoi chiamalo surf
Scoprii presto che nuotare mi veniva facile, ero bravo, veloce e ogni volta che qualcuno dei miei amici mi sfidava, vincevo.
Ma c’era anche altro che mi affascinava e sentivo intimamente mio: la tavola, papa he’e nalu come la chiamiamo noi, surf come l’avrebbe chiamata il mondo.
Entravo in acqua, nuotavo verso il largo, pregavo gli dei del mare e degli squali e attendevo l’onda buona, quella che mi avrebbe portato più in alto di tutte.
Quella che più di altre avrebbe fatto essere onda anche me.
Avevo notato quell’uomo già da qualche giorno
Veniva a Waikiki Beach, passeggiava, guardava il mare, ogni tanto si fermava, si sedeva in terra, scriveva su un taccuino e poi ricominciava. Spesso da una una fiaschetta d’argento che luceva al sole prendeva lunghi sorsi. Pensavo fosse acqua, mi sbagliavo, ma lo seppi solo molto tempo dopo.
Io ero ancora un ragazzo, avevo 17 anni, ma in acqua mi muovevo un gran bene.
Quel giorno l’uomo mi si avvicinò e mi chiese come mi chiamavo. Lo vedete anche voi, Duke Kahanamoku è difficile da scrivere e anche da comprendere per chi non è di qui. Non credo lo avesse capito del tutto, ma vidi che scrisse al volo qualcosa sul suo inseparabile taccuino.
“God”
“Sei bravo“, mi disse, “come hai imparato a stare in piedi su una tavola che salta sulle onde?“
“Noi saltiamo sulle onde da quando è stato creato il mondo” gli dissi “se pensi che io sia bravo è solo perché quando sono in acqua anche io sono onda“.
Non ne diede a vedere, ma un lampo nel suo sguardo mi fece intendere che la mia risposta lo aveva spiazzato.
Ci pensò qualche secondo senza staccarmi gli occhi di dosso, proprio come se stesse cercando anche lui di trovare l’onda che avevo dentro.
“Allora continua così. Farai belle cose ragazzo“.
Prima di andarsene scrisse velocemente sul taccuino una sola parola, tre lettere.
Sbirciai.
Aveva scritto “God“.
Dio.
Jack London
Tornò ancora, lo vidi anche provare a entrare in acqua con la tavola, ma non mi capitò più di parlarci.
Sarebbe accaduto anni dopo e io nel frattempo avevo saputo chi fosse l’uomo della spiaggia
Si chiamava Jack London, era uno scrittore, ma soprattutto era un uomo che aveva dentro tutte le avventure del mondo da quando il mondo era stato creato.
“Mi unii ad alcuni ragazzini Kanaka nell’acqua bassa, dove i frangenti erano ben spesi e piccoli – una normale scuola materna. Osservai i piccoli Kanaka aspettare un frangente dall’aspetto probabile, mettersi a pancia in giù sulle tavole, scalciare come matti con i piedi e cavalcare il frangente fino alla spiaggia. Ho cercato di emularli. Li guardavo, cercavo di fare tutto quello che facevano loro, e fallivo completamente. Tutti noi saltavamo sulle nostre tavole di fronte a un buon frangente. I nostri piedi si muovevano come le ruote di poppa dei battelli a vapore, e i piccoli furfanti si allontanavano mentre io rimanevo in disgrazia dietro di loro“.
Tra le altre cose, così Jack London avrebbe raccontato quei momenti ne “La crociera dello Shark“.
Honolulu, 1911
Io sapevo di essere bravo, ma non gli davo troppa importanza, quasi non ci facevo caso tanto tutto mi veniva così naturale. L’acqua era il mio mondo, sia quando nuotavo e sia quando salivo sulle onde con la tavola.
Venne però il giorno di fare sul serio.
Era il 1911. L’11 agosto si sarebbe svolto un meeting di nuoto al porto di Honolulu. Mi iscrissi sapendo di poter far bene, ma non così tanto in effetti.
Rimasero tutti increduli e confesso che anche per me fu una sopresa quando mi resi conto di aver letteralmente abbattuto i record mondiali delle 100 e delle 200 yard. Per inciso, eguagliai anche quello delle 50.
I giudici dell’Amateur Athletic Union (AAU) ci misero un po’ per accreditarmi i record, ma alla fine si arresero.
Avevo inventato un mio stile, alla bracciata australiana avevo abbinato un calcio a balestra e questo mi faceva guadagnare velocità.
Fu solo l’inizio.
Stoccolma 1912
Mi qualificai per partecipare alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912.
Partimmo da New York con il Finland, un piroscafo che sarebbe stato a lungo la nostra casa.
Eravamo in 180 e a bordo si creò un bel clima che ricordo con piacere. Tra i tanti divenni molto amico con Jim Thorpe, un indiano come si diceva al tempo, un nativo americano, un grande atleta che dovette vincere anche contro molti pregiudizi.
Arrivammo a Stoccolma il 30 giugno, erano le nove di mattina e sulla banchina c’era già un nugolo di giornalisti in attesa degli americani.
Quello che non sapevo è che molti di loro aspettavano proprio me, Duke Kahanamoku, l’atleta dal nome impronunciabile.
Duke Kahanamou, il gioco dell’equivoco
Forse saprete che di noi hawaiani aveva scritto per primo James Cook, l’uomo che ufficialmente scoprì le nostre isole nel 1778.
Le Hawaii non gli portarono troppo bene visto che l’anno seguente fu ucciso in maniera tribale durante uno scontro con alcuni nativi, ma fu lui a lasciare scritto di aver incontrato un popolo felice, che rispettava l’Oceano e che, per solo piacere personale, saliva sulle onde usando lunghissime assi di legno. E aveva anche detto, sbagliando, che cavalcare le onde era un privilegio concesso solo ai capi locali.
Da qui la storia che il surf fosse lo sport dei re.
Ebbene caso vuole che come da tradizione, a me primo figlio mio padre avesse trasmesso il suo nome, Duke. Nome che lui aveva ricevuto in onore della visita alle Hawai del Duca di Edimburgo nel 1869.
A Stoccolma, complice la vulgata di James Cook, tutti pensarono che io fossi veramente un Duca.
Confesso che la cosa mi divertì molto e alle specifiche domande, senza barare, ma senza disilluderli troppo e giocando sull’equivoco, rispondevo semplicemente che ero figlio di un poliziotto.
Le avventure olimpiche
A Stoccolma andò benissimo.
Una medaglia d’oro nei 100 stile libero e una d’argento nella staffetta 4×200.
Ad Anversa nel 1920 fu un altro grande successo.
Ancora oro nei 100 stile libero e questa volta oro anche nella staffetta 4×200.
A Parigi nel 1924 un argento bellissimo nei 100 stile libero dietro a Johnny Weismuller – ma battuto da Tarzan, non è da tutti – e davanti al mio amato fratello Samuel.
La seconda vita
Non dovrei dirlo io, ma in quegli anni il mio sorriso piaceva.
Ero un campione, ero famoso ed ero bello.
Il cinema mi venne a cercare.
Partecipai a 15 film, la maggior parte tra il 1925 e il 1930. Uno girato nel 1948, La Strega Rossa, mi piacque molto e mi diede la possibilità di conoscere John Wayne che, guarda il caso, aveva un soprannome, the Duke, uguale al mio nome
Iniziai anche a fare tournee di surf, soprattutto negli Stati Uniti e in Australia. Ero diventato un personaggio e ogni volta l’accoglienza mi stupiva.
La mia vita, però, sarebbe stata anche altro.
La terza vita
Nel 1932 iniziai la vita che era stata di mio padre. Diventai sceriffo della Contea di Honolulu e lo rimasi sino al 1961.
In fondo per un Duca, la Contea ha un senso.
Nonostante il lavoro formale, però, non ho mai lasciato le onde perché, ricordate, tutto è iniziato proprio quando mi sono fatto onda anche io.
Waikiki Beach 1915
Non vi ho raccontato come andò il mio secondo incontro con Jack London, lo scrittore che io, per rispetto al suo cuore e al suo destino, preferisco chiamare avventuriero.
Accadde nel 1915 e io allora non ero più Duke Kahanamoku il bravo ragazzo della spiaggia, ma Duke Kahanamoku, campione olimpico famoso e ricercato.
Quella volta, infati,non ci incontrammo per caso. Jack London mi venne a cercare e passammo diversi pomeriggi a parlare. Mi raccontò della sua vita, delle sue imprese e dei suoi demoni. Mi disse che quando aveva scritto God sul suo taccuino sapeva esattamente quello che sarei diventato. Era convinto che a volte le persone si congiungono con il mistero del tempo e lo possono percorrere in avanti e indietro. Aveva le sue idee e io non solo le rispettavo, ma le capivo. Per noi hawaiani le regole del mondo e del tempo non sono un mistero impenetrabile.
Appena un anno dopo, il 22 novembre 1916, Jack London si uccise.
La sua morte fece notizia e io lo venni a sapere leggendo un giornale, qualche giorno dopo.
Lo dico senza vergogna. Posai il giornale e mi allontanai da solo, andai sulla spiaggia dove c’incontrammo la prima volta e piansi a lungo.
Poi ci ha pensato il tempo, ma io Jack London non l’ho mai più dimenticato.
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Duke Paoa Kahinu Mokoe Hulikohola Kahanamoku, questo il suo nome intero, è morto ad Honolulu il 22 gennaio 1968.
Le sue ceneri sono state disperse in mare.
Onda nelle onde, lui, dio dell’Oceano, si è ricongiunto così ai suoi dei e ai suoi antenati.