Cosa mi ha dato lo sport

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A mente fredda, ormai ultrasettantenne, posso tranquillamente affermare che lo sport mi ha dato moltissimo: una protesi dell’anca e una del ginocchio, la frattura di un gomito e di entrambi i polsi, la lacerazione di un polpaccio e dei bicipiti femorali, più gli esiti reumatici di numero imprecisato di incidenti minori come distorsioni, lussazioni, contusioni e stiramenti, e per finire una moderata insufficienza della valvola aortica per aver spinto il cuore troppo spesso fuori giri.

Eppure sono contento: la mia, in fondo breve e non eccelsa, carriera di atleta mi ha lasciato molte cose buone, oltre agli acciacchi e alle coppe e alle medaglie che sono finite a prendere la polvere in cantina: dei ricordi lucidi e bellissimi, la coscienza di avere fatto qualcosa di buono, al meglio delle mie possibilità, grazie al lavoro e all’impegno nell’allenamento, la gioia della vittoria importante e la lezione delle sconfitte, uno strano piacere della fatica che può capire solo chi lo ha provato.

Nel canottaggio la fatica è il tuo destino. Bisogna soffrire forte, in allenamento come in gara, bisogna confrontarsi con gli avversari ma soprattutto con la voce interiore che ogni volta ti dice, “Basta, molla, chi te lo fa fare, ritirati!”. Non ascoltare quella voce è la cosa più difficile: perché mai un ragazzo con tanti amici, non brutto, benestante, che potrebbe avere quasi tutto quello che vuole, si riduce a dividere il suo tempo fra la scuola, la preparazione atletica (corsa, pesi, esercizi) e la barca, con qualunque tempo, praticamente per tutto l’anno; e ad andare a letto presto quasi ogni sabato perché l’indomani c’è una gara o una prova cronometrata del percorso che quella sadica carogna dell’allenatore fissa invariabilmente la domenica mattina alle nove? E tu sei il capovoga, il primo remo, quello che ha la responsabilità di impostare il ritmo?

E poi tua madre si è persuasa che hai qualche problema cardiologico e che l’agonismo spinto può esserti nocivo, e ti ha fatto visitare a destra e a manca cercando una conferma alla sua nevrotica convinzione, fino a che il titolare principe della cattedra di medicina dello sport non ha detto la sua parola finale, che sei sanissimo e promettente come atleta, e che sarebbe un peccato non lasciarti fare.

Ma averla vinta non è stata facile: povera mamma, suo padre e suo fratello erano morti giovani di infarto. La sua preoccupazione era dunque in qualche modo comprensibile, anche se non giusta. E io non ho dato spazio alla sua paura, ma ho dovuto combattere anche perché questo tarlo non mi entrasse nella mente.

Quello che so è che alla partenza il cuore batte fortissimo, poi subentra una strana calma, e lungo il percorso non si pensa a nulla, salvo far correre la barca, respirare e rilassarsi per un attimo in ripresa, essere veloci ad alzare i pugni in attacco senza perdere lunghezza in acqua, partire forte di gambe, tenere di spalle, chiudere veloci di braccia e uscire dall’acqua tutti insieme – “puliti” e senza spruzzi – in finale. E ogni tanto buttare un occhio agli avversari e pensare che anche loro soffrono come te, e – soprattutto – che i tuoi compagni stanno dando tutto per la squadra, proprio come te, e tu non puoi tradirli.

Poi il finale: se hai ancora qualcosa da dare, quando cominci a sentire la gente che grida dalla riva, subentra una determinazione feroce, “via, bella! adesso!” e cominci a rinforzare ancora in acqua, a salire di colpi “via ultime dieci!” e poi finisce. E magari, lì per lì non hai neppure capito se hai vinto o no, tanto sono arrivati tutti insieme gli equipaggi, e deve urlartelo in faccia il timoniere mentre ride e ti spruzza addosso l’acqua del lago con le mani …

Andò proprio cosi al Lago Patria nel 1967, ai campionati italiani juniores.

Vincemmo bene: Avevo percepito che stavamo dando tutti il massimo, ma non mi resi conto subito che avevamo superato per più di due secondi gli eterni rivali della Canottieri Napoli, preso com’ero dal sentire la barca sotto – un tutt’uno con l’equipaggio – suonare come un violino, come si usava dire allora. Una sensazione sessuale, dirà invece, qualche anno dopo, uno dei protagonisti di “Fragole e sangue”, il film – un cult per noi – che racconta di come la contestazione giovanile avesse preso piede proprio tra i componenti della squadra di canottaggio della Berkeley University al suono di “Give peace a chance”.

Solo tre giorni dopo il successo del Lago Patria dovetti sostenere l’orale dell’esame di maturità (me la cavai abbastanza bene) e poi arrivò la convocazione del nostro equipaggio nella nazionale giovanile. Eravamo al settimo cielo.

Partecipammo al Campionato mondiale juniores a Ratzeburg, non lontano da Lubecca, al confine tra le due Germanie, all’epoca ancora divise. Ratzeburg era la sede del leggendario “Otto d’oro” allenato da Karl Adam, che spadroneggiava sui campi di regata di tutto il mondo negli anni ’60 (ebbi l’occasione di vederlo in allenamento).

Noi commettemmo un grave errore nella batteria eliminatoria e finimmo fuori dalla finale per il titolo. Un po’ demoralizzati giungemmo secondi al fotofinish, per non più di cinque centimetri, nella finale dal settimo al dodicesimo posto. Ottavi. Niente più di una classifica dignitosa.

Molti anni dopo sono tornato a Ratzeburg, in una specie di pellegrinaggio sentimentale durante un viaggio con moglie e figli. Su quel sacro specchio d’acqua mio figlio, bambino, ha impugnato per la prima volta un remo.

Ce la cavammo meglio al pentagonale giovanile a Macon: terzi, dopo essere stati a lungo in testa. Quella volta avremmo potuto vincere, ma ci mancò proprio il nostro punto forte, il finale: non riuscimmo a serrare con la solita veemenza. Forse cominciavamo a essere un po’ troppo stanchi.

Andrea Simi, alto dirigente pubblico, consigliere parlamentare. "Eppure sono contento: la mia, in fondo breve e non eccelsa, carriera di atleta mi ha lasciato molte cose buone, oltre agli acciacchi e alle coppe e alle medaglie che sono finite a prendere la polvere in cantina..."

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