Allo Stadio in Milletrè

Lo stadio, la Curva Sud, la Fiat Milletrè, la Roma, la promessa di un padre al figlio, l'attesa del grande giorno, l'emozione della prima volta tra cori e bandiere, la gioia del rientro a casa cantando e sltando sul sedile della macchina. Il racconto generazionale di chi da quel giorno la Curva Sud non l'ha più lasciata.
Curva Sud

503909

Non è un terno da giocare a lotto e neanche una numerazione conseguenziale di chissà quale formula.
Roma 503909 è semplicemente il numero di targa di una fiammante Fiat Milletrè bianca, una gran bella macchina, una berlina elegante, fiat 1300che mio padre si era comprato qualche tempo prima; era patito delle auto bianche e grandi, questa era la sua passione.
Era il mese di aprile di tanti anni fa, pieno di ricordi, almeno per me.
Era il 1967. Una mattina molto presto, mio padre usciva da casa sempre di buon’ora, qualche minuto prima dell’apertura del garage, alle sei, si avvicinò al mio letto e mi disse: “Domenica andiamo allo stadio a vedere la Roma!”, sgranai gli occhi, nonostante l’ora, pensando che stessi sognando e invece tutto era vero, era lì accanto al mio letto con tanto di sorriso.
Quando mi svegliai alla giusta ora, chiesi subito a mia madre se quella promessa era vera, lei annuì ridendo, domenica si va all’Olimpico a vedere la Roma!

L’attesa

Di tempo ne mancava molto e quella domenica per me tardava ad arrivare.
A scuola avevo raccontato a tutti quel programma pomeridiano, persino al Maestro Anelli, un uomo dai capelli tutti bianchi che nonostante fosse l’insegnante di scuola elementare era come un secondo padre. A quei tempi la figura del Maestro era molto importante, specialmente se era rappresentata da un uomo, contrastava di molto la tipica maestrina raccontata da tutte le fiabe e i racconti per ragazzi di allora.

Durante i giorni precedenti ero diventato assillante nei confronti di mio padre il quale con pazienza, e non sempre, mi garantiva l’evento, non mi dovevo preoccupare! La sera, prima di addormentarmi il mio pensiero era sempre lo stesso: lo Stadio, il Popolo, Quanta gente, la Roma, una personale, quanto originale interpretazione dell’antico S.P.Q.R.

Avevo appena compiuto dieci anni, in piazzetta e sotto casa giocavo sempre a pallone, la mia grande passione, molto piu’ di quella scolastica. La piazza di terra e polvere era lo stadio di noi ragazzi del ’57, se pur piccoli già autodidatti per quanto riguarda il gioco del calcio. Ci si allenava sotto casa sbattendo il pallone sulle serrande chiuse dei negozi, le porte rumorose senza rete, per poi recarsi sul campo una volta che i grandi lo lasciavano libero. Le porte distinte da un cumulo di sassi. I bordi del campo fatti strisciando i piedi sulla terra, le scarpe sempre sporche. Addosso portavo sempre una maglietta rossa con i bordi gialli, comprata alla Standa, senza nessun numero, la mia seconda pelle. Mia madre la lavava a mano, “ordine tassativo per non rovinarla!” (non ci sono piu’ le mamme di una volta…).

E finalmente arrivò il sabato sera prima della partita di domani, 16 aprile 1967, alle ore 15 e minuti trenta il mio primo incontro di calcio allo Stadio Olimpico.
Dormire? Poco e male! Nel letto un insieme di sogni a occhi aperti mi hanno accompagnato per tutta la notte, mille domande per mille risposte. Sono un ometto e non devo per nulla emozionarmi! Io sono della Roma!

Un pranzo veloce con gli occhi di mio padre puntati su di me, un quadretto niente male dove i protagonisti, i genitori, si prendevano gioco del mio comportamento inverosimilmente teso, quasi nevrotico, il tempo poi era tutto a favore dei protagonisti che mi beffeggiavano continuamente. La maglia della Roma indossata sin dalle prime luci dell’alba.

La prima volta

È giunta l’ora! si va! Non è una bellissima giornata, è nuvolo ma poco importa.
Dobbiamo andare a prendere mio zio, fratello di mio padre con i suoi due figli, miei cugini in zona Monte Sacro per poi andare insieme all’Olimpico.

Durante il tragitto mio padre mi raccontava delle sue prime volte a Campo Testaccio sul Monte dei Cocci, fuori lo Stadio a vedere la Roma di Masetti, Brunella, Amadei e poi l’anno dello scudetto, sempre su quel Monte tra il popolo romano e romanista. Storie ripetute all’infinito ma sempre belle da ascoltare.

La strada è lunga e tutto intorno sembra finto, uscito da un film in bianco e nero, quelli del neorealismo cinematografaro tipico di quei tempi. Non era per niente facile stare tranquillo e sereno. Sono quasi le tredici, manca veramente poco, una volta caricati in macchina zio e cugini non c’è altro da fare che dirigersi in tutta fretta verso lo stadio. Seduti di dietro, urlavamo la nostra felicità sporgendoci dai finestrini dell’auto. I pochi semafori incontrati per strada erano un peso, troppo secondi sprecati.

Ponte Milvio è l’ultima sosta, i grandi devono prendersi il caffè (pure il caffè…!), ancora qualche centinaio di metri ed ecco imponente davanti ai miei occhi lo Stadio Olimpico, lato curva nord. I grandi dietro e noi avanti in tutta fretta. Ancora qualche minuto perso per fare i biglietti ai botteghini; prima di entrare però mio padre decide di ingigantire il regalo acquistandomi una bandiera da uno dei tanti venditori ambulanti che circondavano lo Stadio, bancarelle tutte variopinte con i colori che mi rappresentano, da sempre! M’impossessai di una bandiera di plastica rossa, piccola con in mezzo uno scudetto che racchiudeva la lupa capitolina e con sotto scritte quattro lettere di puro amore: ROMA.

Dentro lo Stadio!

Appena entrati il boato del pubblico dei tifosi già sugli spalti mi dà una scossa di adrenalina, mio padre trattenendomi a stento mi dice: Sta entrando in campo la Roma! Vai e corri a vedere la tua squadra!.

Senza esitare neanche un secondo mi divoro quegli scalini fatti a tre a tre per arrivare subito in cima. Lo Stadio tutto dentro il mio sguardo, il campo verde enorme, i giocatori distanti da me sono vicino a centrocampo, usciti da un tunnel di vetro dalla curva opposta, come fossero gladiatori immersi dentro il Colosseo. Gli occhi lucidi lo sguardo attento, nulla mi deve sfuggire, nulla…

Difficile era sbandierare quel pezzo di plastica, in piedi per tutto il tempo rimasto a cercare di vibrare quel vessillo che per moltissimi anni è rimasto tra i miei ricordi preferiti, ora chissà in quale soffitta.

Roma AtalantaSono le ore quindici e minuti trenta i giocatori entrano in campo, l’avversario è l’Atalanta. Sento i cori dei tifosi e cerco di capire prima le parole per poi diventare uno di loro, l’emozione gioca brutti scherzi, sarà sempre la stessa fino a quando entrerò su questi spalti. La partita inizia male, dopo quindici minuti la Roma è sotto di due reti, la gioia scompare per fare posto a una surreale situazione di sconforto, non ho più voglia di cantare, almeno per il primo tempo che ci vede perdere. L’intervallo è l’ora del panino, ma non ho nessuna voglia di mangiare, non è il momento, non vedo l’ora che ricominci la partita.

Appena inizia il secondo tempo riprendo a sventolare, almeno ci provo, quel pezzo di plastica, non posso stare seduto a guardare e basta, non sono venuto mica per fare lo spettatore…La Roma attacca, il pubblico incita la squadra che accorcia le distanze per poi pareggiare la partita in pochi minuti.
I gol visti da lontano sono piu’ belli, vedi gonfiarsi la rete e poi il boato del pubblico e tu che “strilli” come un forsennato. Sento che non può finire così, la Roma è in grado di vincerla questa partita, tirata e combattuta. Seduto, manco per niente, in piedi e col vessillo in alto. Arriva l’apoteosi con il gol che porta in vantaggio i giallorossi, anche se la voce è poca c’è ancora modo di farsi sentire. Fischio finale: Roma – Atalanta 3 a 2!

La felicità in Milletrè

Roma AtalantaSi esce dallo Stadio, felicissimi, la gente canta, un mare immenso di uomini e donne romaniste che mi passano accanto, qualcuno mi da una pacca sulla spalla, altri che mi incitano: “Daje piccolè!…piccoletto a me, io sono della Roma!

Una serie di eventi e circostanze che faranno parte del bagaglio dei miei ricordi di tifoso. Gli occhi ancora immersi a guardare tutto ciò che è intorno, la gente festosa che esce cantando, io con loro, attento a non perdermi tra la folla.

In auto la partita non ha fine, seduti si canta e si balla sul sedile posteriore, per fortuna mio padre, nonostante il gran casino di tre piccole pesti, non dice nulla, comprendendo il momento e il nostro stato d’animo. Si ritorna a casa, un po’ di stanchezza accompagna il mio percorso, non ho voglia di vedere fuori dai finestrini per quanto sono ancora immerso nello Stadio, vestito da tifoso, col cuore che ha cambiato tonalità di colore aggiungendo uno splendido giallo.

La cena, ci sono ancora i compiti di scuola da terminare, in attesa de La Domenica Sportiva. Parte il servizio, in quei pochi minuti d’immagini, mi rivedo tra la gente, ci sono io e i giocatori…

Prima di andare a dormire mi avvicino a mio padre, vorrei ancora dire tante cose e invece riesco solo a pronunciare: Grazie papà!

Da allora, per ben trentasette anni, ho vissuto lo Stadio…la gente…la Roma!

Stefano Trippetta 66 anni, romano. Scrittore non per vocazione ma solo per passione rivolta alla città che fortunatamente mi ha voluto, scelto e cresciuto. Attraverso il filtro di una buona memoria sono riuscito a dividere questa grande madre: da una parte la Roma del cuore, la Lupa, tatuata con orgoglio; dall'altra quella razionale legata a ogni tipo di cambiamento, atteggiamento, costume.

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