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“A ci mantèn è fatt…”

00 Cover Masoni

È tutto racchiuso in questo grido in puro slang tarantino, lo spirito che ha legato la mia vita di sportivo alla gioventù, agli amici, alla crescita, all’amore, alle splendide vicende di quello scorcio di vita che si identifica in Rari Nantes Taranto, che era una vera e propria ragione di vita. A dispetto, spesso, di amici, ragazze, conoscenti, familiari che non capivano, e a volte neanche apprezzavano.

Procediamo per gradi.

Dopo oltre un decennio di gare di nuoto e campionati giovanili…l’età matura.

Correva l’anno 1975. Partecipavamo al campionato di serie C Nazionale di pallanuoto, si chiamava così (quattro gironi in Italia) per differenziarla dalla serie C Promozione, a carattere regionale o interregionale. Eravamo stati promossi in questa serie nazionale nel 1973 vincendo il concentramento alle Najadi di Pescara, un trionfo storico (per noi) sportivo ed emotivo che, nella sua semplicità, rappresenta ancora oggi il momento ed il ricordo più bello di tutti, per tanti motivi, la sintesi più calzante.

Allora, luglio ‘75; il campionato si snocciolava tra giugno ed agosto, con partite calendarizzate in doppio impegno settimanale, il sabato e la domenica, in cui venivano accoppiate sedi geograficamente vicine e quindi facilmente raggiungibili.

Avevamo giocato, perdendo, il sabato a Civitavecchia e la domenica pomeriggio dovevamo giocare a Pesaro contro la Vis Sauro. Dopo aver pernottato nella Pensione Valle, all’epoca ad 1 Stella perché meno non era previsto, ci mettiamo in pullman per raggiungere Pesaro, non proprio dietro l’angolo. Più o meno a metà strada, ci fermiamo a pranzo in Umbria – credo tra Spoleto e Foligno – dove, notoriamente, si mangia…non male.

Fu una mangiata colossale, meravigliosa, ricca, gustosa, appagante, incredibilmente pesante e soprattutto interminabile. Insomma tutto fuorché ciò che una squadra, un atleta, dovrebbero fare. Risalimmo sul pullman appoggiandoci l’un l’altro e sprofondammo in un rumoroso abbiocco che terminò solo nel parcheggio della piscina di Pesaro.

Erano le 18,25, la partita era in programma alle 18,00.

Trovammo la squadra di casa già pronta, in calottina, controllo con l’arbitro effettuato, che ci aspettava, con l’arbitro che stava per decretare la fine del tempo d’attesa (30 minuti), perché pensavano che non arrivassimo più. Quando ci videro entrare ci fu una risata e una derisione generale al limite della compassione: assonnati, disordinati, chi correva in bagno da una parte, chi dall’altra, chi si spaparanzava sulla panchina, chi cercava di ricomporsi, chi andava nello spogliatoio, chi era rimasto sul pullman, chi cercava di spiegare e giustificare all’innervosito ed incredulo arbitro, tra le assordanti proteste del pubblico presente. Ma si doveva comunque scendere in acqua.

Qui il dilemma: chi i primi sette? Nessuno voleva entrare, in pochi se la sentivano.

Dopo discussioni e proposte prevalse la linea del “chi se la sente”.

Primo tempo: 4-0 per noi. I pesaresi ne volevano vendetta e non se ne facevano una ragione. Dal primo minuto del secondo dei quattro tempi, iniziò un forte Apache da leggenda e, secondo dopo secondo, ci rincuoravamo e ci incoraggiavamo a vicenda con «A ci mantèn, è fatt’» (pressappoco, se riusciamo a resistere vinciamo).

Tre tempi di eroica resistenza. La partita la vincemmo 4-3, e fu un’esplosione di incredulo entusiasmo da parte nostra e di incredulità rabbiosa da parte loro. Ecco, da quel momento quel grido – che pure da qualche tempo era già nel nostro corredo e nel nostro protocollo pre-gara – diventò ufficialmente il nostro grido di guerra e di incoraggiamento prima di ogni partita.

Ci riunivamo tutti in gruppo, con le mani raggruppate al centro; l’allenatore gridava «A ci mantén» ed il gruppo rispondeva a gran voce «E’ fatta».

È storia. È durato per decenni, ancora oggi, dopo generazioni, è quello.

La passione, la storia.

Una storia che ancora oggi ci lega, che ha segnato quegli anni che, fuor di retorica, sono stati davvero unici. La nostra passione, il nostro impegno erano davvero grandi, veri. I risultati, ancorché il livello fosse di serie C, furono importanti. C’era un solo girone di serie A, due gironi di serie B, quattro di C Nazionale. Il livello e la selezione erano severi. Nel nostro girone c’erano squadre che si chiamavano Posillipo, Pescara, Roma Nuoto, Lazio, Rari Nantes Napoli, Civitavecchia, Carabinieri, RN Salerno e altre che hanno scritto la storia della pallanuoto italiana. Soprattutto le condizioni erano diverse. Le altre squadre si allenavano tutto l’anno, noi da maggio (se non giugno) ad agosto (il campionato iniziava a giugno) perché non disponevamo di una vasca coperta. In più la nostra vasca era di 25 metri, dovunque si giocava in vasche da 50 (campo di gioco di 30 metri), condizioni di handicap pesanti.

Ma eravamo più forti noi.

Ci tenevamo molto, moltissimo; ci seguivano in tantissimi, eravamo diventati un riferimento per lo sport locale e regionale, per la città. Tutti venivamo o ancora praticavamo, nuoto agonistico, per cui ci si allenava per l’uno e per l’altra, spesso tre volte al giorno: mattino e pomeriggio nuoto, sera pallanuoto. In piena estate, in una città di mare. Il che voleva dire rinunciare molto spesso proprio al mare, agli amici, alle comitive (non alle ragazze), al sabato sera e spesso alle domeniche, alle serate e lottare con chi non capiva, chi derideva, con amici e amiche che non accettavano, con i tanti «ma chi te lo fa fare» e persino con i dirigenti che non ci volevano “capelloni” così come usava in quegli anni.

Eravamo stoici nella dilettantistica professionalità. A nostro modo “uomini”, forti nel carattere, nella volontà, nel rispetto degli impegni, dell’amicizia, nello spirito del gruppo, nel saper affrontare difficoltà apparentemente insormontabili, grazie alla nostra passione ed alla nostra coesione, nel saper fare squadra.

Insomma: lo sport. Quello vero. Quello non fatto di soldi e primati, ma di cuore e passione.

Quello sport che, al di là ed oltre i risultati agonistici, si ricorda ed è bello raccontare, anche e soprattutto per gli episodi esilaranti che lo hanno accompagnato. In vasca e fuori, sul piano della squadra e sul piano personale.

Ma che t’interessa? – Per esempio. Bergamo, anzi San Pellegrino Terme, piscina Italcementi estate 1971, campionati italiani studenteschi di nuoto. Arriviamo in albergo, dove alloggiavano tutte le squadre, e ci sediamo nella hall aspettando il nostro turno per il check-in. Arriva un’altra squadra, credo di Catania, ed uno di loro si rivolge sorridente al nostro “Armandino” (196cm…) che era meditabondo in poltrona: «Ciao, di dove siete?», gli fa. Ed Armandino: «E a te ce caxx te ne futt! (per dindirindina, ma cosa mai potrà interessarti?)». Quello, stupefatto, si rivolge a noi: «Ma che è scemo?», e noi: «Si è scemo». Ne scaturì una maxi rissa che ancora oggi in albergo ricordano con terrore. Armandino oggi è un affermato avvocato.

L’ombrello – Roma, Foro Italico, vasca coperta, 1976. Giochiamo contro la Lazio e le stiamo buscando sonoramente, tipo 6-0 o giù di lì. Nel terzo tempo Valerio, il filosofo del gruppo, inventa da metà campo una palombella che si insacca perfetta all’incrocio. Si gira verso il pubblico e gridando a squarciagola, da invasato «Tiè tiè tiè» e facendo a ripetizione il gesto dell’ombrello tra l’incredulità e l’ilarità generale, per almeno trenta secondi. Un gesto inaudito per uno calmo e pacato come lui. Fu ovviamente espulso, il pubblico…capì e non dette corso ad alcuna rappresaglia. Valerio oggi è un uomo di grande cultura, di quelli col papillon, coordinatore e organizzatore di mostre d’arte, scrittore, altro.

Non averla – Piscina Scandone, Napoli. Anni 80. Giochiamo contro la Rari Nantes Napoli, stiamo vincendo giocando una gran partita. Quarto tempo, nella trance agonistica, il nostro Pierluigi, paonazzo, molto oltre il palese debito d’ossigeno, nella foga di una controfuga, in piena trance agonistica, chiede a gran voce la palla ad un compagno: «Passa la palla, passa la palla», gli fa. E il compagno: «Ma io non ce l’ho», e Pierluigi gli grida: «Non averla non averla», e senza soluzione di continuità prosegue testa sotto. Ma non nella controfuga, bensì dalla parte opposta verso il bordo sotto la nostra panchina. Arriva ed esce dall’acqua a partita in corso e corre negli spogliatoi, senza che fossero stati chiesti cambi o l’arbitro l’avesse autorizzato, il tutto mentre la partita proseguiva. Noi esterrefatti prima ancora che increduli. Lascio immaginare lo sbellicarsi dei presenti, in acqua e sugli spalti. Oggi è un valente professionista.

Cesareee – Civitavecchia, sempre ‘77. Partita tirata con i forti padroni di casa. Recuperiamo palla in difesa per una controfuga molto importante, ed il nostro Fabio “Pallino” (per noi: “il più str…. di Sanseverino Marche”) chiama a gran voce «Cesareeeee», passandogli a palla con un lungo lancio sotto il bordo destro della vasca: Peccato, però, che Cesare fosse sotto il bordo sinistro: subimmo gol. Oggi Fabio è un importante ingegnere e dirigente internazionale d’azienda, di alto livello.

Ecce Lombo – Nel ‘78 uscì il film Ecce Bombo, di e con Nanni Moretti. Il quale Nanni Moretti era un buon giocatore di pallanuoto. Giocava con l’Aventino Pallanuoto di Roma. Vennero a giocare a Taranto e la partita la vincemmo noi al termine di quattro tempi diciamo molto grintosi, di vera mattanza. Non so perché, non era in palio nulla di che, ma fu così. Al punto che l’indomani il titolo sui giornali fu “Ecce Lombo”. E Nanni rientrò a Roma non eccessivamente contento.

Cortese chiarimento – Simbolo di tutto, comunque, il nostro allenatore e capitano, Armando, altezza normale…“diverso” da Armandino. Durante una partita, credo il derby col Centrosport Brindisi, ebbe uno scambio di convenevoli con l’arbitro e, a gioco in corso, uscì come una saetta dall’acqua sotto il tavolo della giuria, l’arbitro posò la bandierina sul tavolo, tolse la maglietta, pronti entrambi, incuranti che la partita fosse in corso, a chiarire da…uomo a uomo i loro differenti punti di vista. Furono separati e tutto finì lì, partita compresa. Carattere, sangue, passione, orgoglio: era giustamente il nostro capitano, il capitano della Rari Nantes Taranto. Oggi è uno dei magistrati più importanti e di prestigio del nostro Paese.

La famiglia; prima, durante e dopo

Sono solo alcuni aneddoti (ne avrei tanti altri) di quegli anni così intensi, che tratteggiano bene come vivevamo quel nostro impegno, con quale spirito, ricchi di passione verso uno sport, straordinario da giocare, difficile forse da capire e seguire. Una grande passione tramandatami da mio padre Enzo, fiorentino doc, con un passato nella Rari Nantes Florentia prima di approdare a fine guerra con la nave a Taranto e non salpare mai più. Mi accompagnò in piscina che avevo sei anni. Non ne sono più uscito. Papà, in virtù dell’essere Ufficiale della Marina Militare, quando poteva autorizzava la squadra ad allenarsi nelle strutture militari (La piscina delle Scuole CEMM di San Vito) negli orari “Ufficiali e famiglie”, cercando così di colmare la gravissima lacuna che avevamo a causa della mancanza di un impianto coperto.

Mi seguiva e ci seguiva sempre e dovunque: da genitore, da dirigente, da appassionato. E forse non meritava uno sgarbo che gli feci, ma che però poi gli confessai. Estate 78. La domenica sera giocavamo a Napoli contro il Posillipo. Una partita importante. Io ero universitario a Pisa ed il lunedì, cioè 24 ore dopo, mi sarei laureato in ingegneria. Ero bravino ed ero un punto fermo della squadra. Non potevo mancare a quella partita in casa del Posillipo. Senza dire niente in famiglia la domenica mattina mi misi sul treno e raggiunsi Napoli. Giocai, pareggiammo, e subito dopo di nuovo in treno per tornare a Pisa, dove arrivai giusto in tempo per discutere la tesi. Tutto di nascosto di mio padre. Per fortuna andò tutto bene. Comprensiva assoluzione paterna compresa.

Il più sfigato

Ma la pallanuoto, lo sport, mi ha dato anche qualcos’altro. Di ben più importante.

Un sabato di fine luglio del 1974, partita in casa con la Rari Nantes Salerno. Vinciamo.

A fine partita esco dall’acqua e ancora bagnato sul piano vasca, calottina in mano, mi imbatto in Fabio, il “pallino” di Civitavecchia (che non aveva giocato), accompagnato dalla sua ragazza dell’epoca, Giovanna, una giocatrice di basket. Con loro c’era una compagna di squadra, bellissima, di Giovanna. Ci fu uno scambio di sguardi che ci fulminò.

Sono passati 47 anni, e quella ragazza, Gemma, è ancora oggi mia moglie, madre delle mie due figlie. Con una particolarità, per me “umiliante”; lei è stata una famosa playmaker di alto livello, maglia azzurra, campionati europei, tanta serie A1 alle spalle. Le mie figlie: Marianna, la grande, Marta la piccola: due talenti, volley e basket.

Marianna: schiacciatrice, nazionale di pallavolo, Club Italia, serie A1 a bizzeffe, Europei, Universiadi, Giochi del Mediterraneo, ecc. ecc.

Marta: ala, nazionale di basket, Club Italia, campione d’Europa Under 18 con l’Italia, argento europeo Under 16, e poi sempre con la maglia azzurra: mondiali, tanti europei, Giochi Olimpici Giovanili, convocazione nella nazionale d’Europa contro il resto del mondo e tanto altro con il club: scudetti, coppe Italia, supercoppe, coppe europee, con la chicca di un’esperienza a Los Angeles con le Matadors di California State University, nella Golden League della NCAA.

Insomma, tutto molto bello, una famiglia di autentici appassionati di sport, una famiglia con tre storie di grande valore e prestigio, più una: la mia. Tra me e me ogni tanto penso: sono stato e sono veramente il più scapocchione, ancorché il più appassionato, il più “sfigato” della famiglia.

Ma una nota positiva però c’è: essere riuscito ad inculcare nelle mie figlie la stessa passione per lo sport, e all’educazione alla vita che questo dà, che era di mio padre e che da testimone, ho diligentemente passato loro. (Con l’insostituibile, determinate e imprescindibile presenza di mia moglie e del suo impegno e sacrificio. Ma questo non lo diciamo…).

«A ci mantén è fatt’»: ecco, abbiamo saputo resistere, tenere duro.

Maurizio Masoni, atleta e giornalista sportivo per passione, ingegnere per necessità, "A ci mantém è fatt...In questo grido è racchiuso tutto lo spirito che ha legato la mia vita di sportivo alla gioventù, agli amici, alla crescita, all’amore, alle splendide vicende di quello scorcio di vita che si identifica in Rari Nantes Taranto, che era una vera e propria ragione di vita."

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