Chissà se quel 30 giugno del 1990 nello stadio di Firenze, mentre Faruk Hadžibegić si accingeva a calciare il quinto rigore della Jugoslavia contro Sergio Goycochea e che forse avrebbe deciso quell’incontro di ottavi di finale dei mondiali di Italia 90, immaginava che quello sarebbe stato l’ultimo tirato con la maglia della nazionale. Non il suo ultimo, ma proprio l’ultimo di tutto un Paese. Qualche sentore doveva per forza avercelo avuto: negli spogliatoi erano troppi i mugugni, gli sguardi torvi, i neanche troppo velati riferimenti alle “etnie”, una parola strana di cui forse neanche conosceva il significato. E poi, quei compagni di squadra che solo qualche mese prima erano tra loro amici e che adesso invece si guardavano in tralice?
Più probabilmente Faruk non pensava a nulla di tutto questo mentre caricava il destro alla ricerca dell’angolino alla sinistra del portiere dell’Argentina, impegnato com’era a reggere il peso schiacciante della responsabilità.
Jugoslavia. L’ultimo Mondiale
Era una gran bella squadra la Jugoslavia di quel mondiale italiano. A detta di molti la migliore rappresentativa della sua storia, persino più forte di quella di Dragan Dzajic, finalista poi sconfitta agli Europei del 1968 dall’Italia. Equilibrata in tutti i reparti, con una difesa rocciosa ma anche dotata di tanta tecnica. Farle gol era impresa titanica per qualsiasi avversario.
A parte quel complicato inizio contro la Germania, da cui ne aveva presi ben quattro. Ma da lì in avanti fu tutto un crescendo, prima regolando la Colombia, di misura, per uno a zero, poi seppellendo di gol – quattro a uno lo score finale – gli Emirati Arabi nella fase a gruppi.
Negli ottavi di finale, era toccato alla temibile Spagna, di essere bistrattata: la vittoria per un solo gol di scarto (2-1) non racconta appieno il divario tattico e tecnico insistente tra le due squadre. Quella sera, i “blues” riversarono a centrocampo tutta la loro qualità, con Stojković, Katanec, e a partita in corso, anche Prosinecki e Savicevic. Sušić e Vujovic, fisicata coppia d’attacco, a fare a sportellate, là davanti, contro gli arcigni difensori spagnoli. Alla fortissima Spagna non restò che accettare il verdetto di essere stati eliminati da chi era più forte, senza accampare recriminazioni.
Nei quarti di finale, invece, non bastarono centoventi minuti: il gol non arrivò, malgrado le tante occasioni. Jugoslavia-Argentina si sarebbe decisa con la lotteria dei calci di rigore.
I prodromi della guerra civile
Al ritorno a casa Faruk Hadžibegić trovò i prodromi della guerra civile i cui primi segnali si erano drammaticamente manifestati attraverso un campo di calcio. Giusto un mese prima dei mondiali si era disputata Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado allo stadio Maksimir di Zagabria. Nella Dinamo c’era l’astro nascente e nuovo simbolo di appartenenza Zvonimir Boban, ventun’anni, trequartista, che giusto un paio di anni dopo sarebbe stato ingaggiato dal Milan. La partita, valida per il campionato, in realtà non cominciò nemmeno, perché sugli spalti accade di tutto. Le due tifoserie si fronteggiano e in pochi minuti la situazione degenerò drasticamente. La polizia a maggioranza serba, propensa a chiudere un occhio nei confronti dei tifosi ospiti, caricò quelli della Dinamo, con manganelli e gas lacrimogeni. La reazione fu immediata: i supporter di casa invasero il campo a caccia dei rivali serbi. Intervennero così i reparti antisommossa utilizzando autoblindati e cannoni ad acqua. Quando i giocatori della Dinamo tentarono di convincere i tifosi a riprendere il loro posto, avvenne il fatto più eclatante: Boban colpí un agente con un calcio volante per proteggere un giovane tifoso croato dalle manganellate della polizia federale jugoslava; il futuro rossonero venne poi tratto in salvo da alcuni supporter e dirigenti della Dinamo. La rivolta si esaurì solo a notte fonda, dentro e all’esterno dello stadio, con una marea di arresti e feriti. Boban, che poi diventerà un eroe per il popolo croato, rischiò l’arresto, ma venne solo sospeso per sei mesi e di conseguenza non venne convocato per quei Mondiali.
Faruk in tempo di guerra
L’anno dopo la guerra civile deflagrerà in tutta la sua violenza scrivendo una delle pagine più tristi, drammatiche e truci della storia moderna che travolgerà completamente le vite dei civili della ex federazione Jugoslavia, sia in termini sociali che politici. Nel 1992, pur avendo ottenuto la qualificazione ai campionati europei di calcio in Svezia, la Jugoslavia verrà squalificata dalla federazione per “fatti bellici” e al suo posto verrà ripescata la Danimarca. Faruk Hadžibegić, di nascita bosniaca, all’epoca dei fatti aveva già lasciato la Jugoslavia per andare a giocare per il Real Betis. Durante la guerra civile prestò il suo contributo al Toulouse prima e al Sochaux dopo, fino al 1995. Altri calciatori ex jugoslavi ne seguiranno l’esempio, molti di questi accasandosi in Italia.
Arrivederci amata, odiata terra
Faruk Hadžibegić quel rigore lo sbagliò. Anzi, fu Goycochea a scegliere l’angolo giusto da coprire così da ritrovarsi col pallone tra le mani. La Jugoslavia venne eliminata dall’Argentina per 2-3, che poi eliminò l’Italia in semifinale, ma uscì sconfitta in finale per mano della Germania.
Faruk non tornò mai più nella sua terra. Diventò un allenatore girovago. Allenò in Spagna, Turchia e soprattutto in Francia, con il Bastia, il Valenciennes e i Red Star, tra le più importanti. Ha anche allenato la nazionale del Montenegro. Solo nel 1999 tornerà nella sua amata terra, chiamato dalla federazione Bosniaca a guidare la nazionale. La lascerà un anno dopo avendo fallito l’obbiettivo qualificazione per gli europei del 2000. Vi farà ritorno nel 2019 per provare a centrare la partecipazione ai mondiali del 2024 ma verrà esonerato all’indomani di una rovinosa sconfitta casalinga per mano del Lussemburgo nel giugno scorso.