È sabato quell’undici agosto del bisestile 1928.
Se pensate che non possa essere Natale vi sbagliate; per la boxe italiana è andata proprio così.
Ad Amsterdam i Giochi della IX Olimpiade moderna si avviano verso la conclusione, mentre nella vecchia New Amsterdam – oramai New York per tutti – i teatri sono presi d’assalto per vedere Greta, la regina del muto ne “La donna misteriosa“, la spia russa che seduce l’ufficiale austriaco.
In Olanda si cominciano a tirare le somme di una manifestazione che ormai cresce ad ogni edizione, non è ancora fenomeno planetario ma la strada è quella. Tremila atleti a rappresentare 46 paesi si sfidano su 17 diverse discipline per contendersi 110 medaglie d’oro.
La boxe. Una storia a parte
Per la prima volta, da almeno vent’anni, si respira aria di pace ed armonia con l’eccezione, chissà perché, del torneo di boxe. Simbolo, il canottiere australiano Bobby Pearce che nel suo quarto finale del singolo rallenta, quasi si ferma, per permettere ad una famiglia di paperelle di attraversare il canale riservato alle prove di canottaggio. Sono i Giochi del ritorno della Germania, dell’assenza dell’Unione Sovietica, della fiaccola, della Grecia che sfila per prima ed il paese ospitante ultimo (tradizione che non va più via), del numero raddoppiato di donne finalmente presenti anche nell’atletica e nella ginnastica – epica l’avventura delle nostre ginnaste di Pavia – , della bibita che fa da sponsor, delle prime vittorie asiatiche.
Appuntamento in finale
Nella boxe ci sono due giapponesi, Usada arriva nei quarti tra i welter, Okamoto, nei piuma, si ferma prima.
Sabato undici è il giorno delle attesissime finali, il meteo non racconta tutto il caldo che c’è.
La ressa dei quasi tremila spettatori all’ingresso dell’arena Krachtsportgebouw rende meglio l’idea. Sono tutti lì per sedici pugili ad un passo dalla gloria olimpica, reduci da un autentico giro di forza, quattro incontri in quattro giorni.
Noi italiani ci siamo e con le carte in regola per fare molto bene.
Il contingente è composto in avvio da sette pugili per otto categorie, buchiamo solo i massimi (sopra i 74.9 kg). Ogni paese può presentare solo un atleta per categoria ed anche questa è una novità. Due dei nostri si fermano al primo turno, Fausto Montefiore nei piuma e Domenico Ceccarelli tra i mediomassimi. Romano Caneva arriva ai quarti nei welter. Il milanese Carlo Cavagnoli va a medaglia superando ai punti il sudafricano Buddy Lebanon nella finalina dei mosca. Gallo, leggeri e medi ci vedono brillantemente in finale, solo l’Argentina fa meglio con quattro pugili in lotta per l’oro. L’appuntamento con la storia è all’angolo.
Ci siamo e siamo cattivi. Anzi, siamo arrabbiati neri
La nostra federazione di boxe ha appena dodici anni, ma già ne ha viste. È alla sua terza Olimpiade ed il bicchiere è mezzo vuoto.
C’è il bronzo del peso piuma Edoardo Garzena ad Anversa, c’è soprattutto la ferita di Parigi dove la squadra decide per l’abbandono, disgustata da una raffica di verdetti ingiusti ed ingiustificabili.
Sul quadrato di Amsterdam, per capirci, la boxe italiana sale con la voglia matta di rivincita contro tutto e tutti.
Vittorio Tamagnini
Il programma vede i nostri impegnati nel secondo, quarto e sesto match di finale.
Il primo ad allargare le corde di canapa si chiama Vittorio Tamagnini, diciotto anni da Civitavecchia, campione italiano dilettanti dei pesi gallo. Si è conquistato la finale con tre vittorie ai punti nel giro di 72 ore con il messicano Ortiz, il britannico Garland e l’irlandese Traynor.
Nell’angolo opposto lo statunitense John Daley, dieci centimetri più alto e tante polemiche ad accompagnarlo dopo la semi finale con il sudafricano Isaacs. Verdetto inizialmente favorevole ad Isaacs, ma rovesciato dopo il baccano smodato di dirigenti e pubblico a bordo ring. Non c’è tempo per retropensieri, quando il match inizia, inizia il capolavoro di Vittorio. Al centro ring controlla, comanda, trova il bersaglio, sfugge alla reazione spesso scomposta dell’americano, minuto dopo minuto più nervoso.
Al verdetto, la canizza americana si ripropone con lo stesso schema che aveva funzionato contro il povero Isaacs. Giudici assediati, volano brutte parole e qualche sedia, ma finalmente la sconfitta di Daley viene ufficializzata.
Vittorio Tamagnini, l’uragano di Amsterdam, conquista meritatamente la prima storica medaglia d’oro del nostro pugilato.
Carlo Orlandi
Ci sarebbe da far festa, e la festa si fa nello spogliatoio dove Tamagnini scioglie le bende: non ha dolore alle mani, non ha un segno sulla faccia.
Ci sarebbe da far festa, ma i pochi italiani sulle tribune aspettano Carlo Orlandi, il peso leggero, categoria sotto i 61.2kg.
Gli americani invece aspettano Stephen Halaiko per pareggiare subito i conti. Di mezzo, c’è la finale dei piuma con l’unico pugile di casa in finale, van Klaveren, che supera l’argentino Peralta.
Con gli olandesi in piedi sulle sedie, Carlo Orlandi e Stephen Halaiko (chiuderà con 128 vittorie su 129 incontri da dilettante) si avvicinano al ring ignorando il frastuono intorno. Alle spalle tre vittorie ciascuno, solo una per KO del nostro sul rhodesiano Bissett. Si guardano cavallerescamente negli occhi, si studiano nelle prime battute, ma Carlo è primo a picchiare, lavora di anticipo, colpisce e schiva.
Il coraggio ma anche la sua maestria tattica pagano ed anche il più ottuso dei tifosi fanatici d’oltreoceano si arrende all’evidenza.
Italia 2 – USA 0.
Carlo è la nostra seconda medaglia d’oro nello spazio di un’ora ed è il primo atleta sordomuto ai Giochi. e vince per la commozione degli italiani presenti, cappello in mano e sull’attenti quando partono le note della Marcia Reale. Carlo abbozza un sorriso.
Piero Toscani
Di nuovo fra una finale italiana e l’altra, c’è un altro match come per rifiatare, ridare forma al cappello e non smettere di sognare.
Ci pervade un’aurea di invincibilità, “dai, veniteci sotto”, siamo noi a chiedere agli americani di rialzare la cresta, siamo noi che non ci fermiamo più. Dispiace che il figlio di emigrati, il welter Raul Landini da Buenos Aires, ceda ai punti contro il neozelandese Morgan quello che aveva fermato Caneva.
Dispiace ma non c’è tempo di rammaricarsi più di tanto, arriva Piero Toscani per la sua finale dei medi contro il cecoslovacco Jan Hermanek.
Le cronache sono scarne, si racconta di una grande tecnica e lettura dell’incontro che gli permette di prevalere ad avversari dal pugno più pesante. Jan è il quarto testimone della superiorità del milanese dopo il danese Ludvigsen, lo svedese Kjallander ed il belga Steyaert.
È il terzo centro, il terzo oro, le note della Marcia Reale si mischiano con la trionfale di Verdi intonata dagli italiani (Grazie agli Dei rendete nel fortunato di’) in una piazza Dam mai così viva ed illuminata.
11 agosto 1928. Indimenticabile
L’Italia chiude al primo posto nel medagliere della boxe ed al quinto assoluto con 19 podi confermando la posizione di quattro anni prima. Si migliora a Los Angeles ’32, seconda forza assoluta, e Berlino ’36 quarta. Il 1928, per inciso, l’educazione fisica diviene obbligatoria nella scuola.
Nessuno la mattina di quel sabato undici agosto poteva immaginare una giornata così per i colori azzurri (Vittorio, Carlo e Piero forse sì?). Nessuno la mattina di quel sabato undici poteva immaginare che un mese ed un giorno dopo una montagna che cammina inizia a tirar pugni fino ad arrivare lassù dove nessuno mai: la cintura di campione del mondo dei pesi massimi. Primo Carnera, nel suo esordio professionista, sdraia – a Parigi, la città che ci aveva iniettato il veleno giusto – il malcapitato Leon Sibilio prima del gong alla fine del secondo round.
XI.VIII.MCMXXVIII anno VI EF: non un sabato qualunque, un sabato italiano.
Per la nostra nobile arte, Natale.