Essere o non essere un campione: questo è il problema.
Italo Zilioli era un campione, il problema è stato che lui non lo ha mai veramente saputo. Ragazzo educato, forse anche troppo, intelligente, forse anche troppo, modesto, forse anche troppo. Un corridore con una personalità complessa e ricca di sfumature. Saliva leggero in salita e quando scattava se non riusciva a staccare gli avversari si demoralizzava.
Poi gettava alle spalle le sue mille paure e si buttava a capofitto in discesa.
L’esordio da professionista
Nel 1963, alla sua prima stagione da professionista, Zilioli nel giro di un mese vinse quattro importanti classiche italiane, la Tre Valli Varesine, il Giro dell’Appennino, i Giri del Veneto e dell’Emilia. Fausto Coppi era morto da tre anni, il ciclismo italiano cercava il suo erede e molti credettero di averlo trovato in quel ragazzo piemontese come il campionissimo, gentile, di poche parole, elegante in bicicletta, forte in salita.
Una copertina della Domenica del Corriere ritrasse Zilioli in fuga con la figura di Fausto Coppi che aleggiava dal cielo alle sue spalle. Gli venne subito affibbiata l’etichetta di Coppino e forse fu la sua rovina.
Zilioli vs. Zilioli
Intendiamoci, Italo Zilioli aveva tutte le caratteristiche fisiche e tecniche per fare grandi cose, ma ad aspettarlo al varco c’era un avversario nascosto, implacabile; uno che lo conosceva bene e che lo ha perseguitato per tutta la carriera: sé stesso. Risultato: quattordici stagioni da protagonista tra i professionisti, nelle quali ha collezionato 58 vittorie, alcune anche di prestigio, ma la grande affermazione, quella piena, definitiva, non è mai arrivata.
Iniziava la stagione e Zilioli partiva subito a mille, vinceva anche delle belle corse, ma così sprecava un sacco di energie, che poi gli sarebbero mancate nei grandi appuntamenti. Il fatto è che Italo Zilioli era un insicuro, uno che aveva bisogno di avere continue conferme del suo talento, per cui si faceva prendere da una sorta di “ansia da prestazione”. E così spesso in corsa sbagliava i tempi, si muoveva troppo presto. I buoni risultati e le vittorie ottenute non riuscirono mai a diventare un piedistallo solido da cui partire per fare il salto di qualità decisivo. La mancanza di fiducia nei propri mezzi gli impediva di programmare come si deve una stagione. Ogni anno, ogni giorno, ogni corsa ripartiva da capo.
I grandi piazzamenti
Gambe e polmoni di Zilioli sembravano fatti apposta per le grandi corse a tappe, ma la testa andava per conto proprio e non reggeva la pressione delle tre settimane di un Giro o di un Tour. Solo così si spiegano i successi parziali con cinque tappe vinte alla grande al Giro d’Italia, ma anche i tre secondi posti consecutivi (1964, 1965, 1966) più un terzo (1969) nella classifica generale. Una sequela di bei piazzamenti, ma senza mai arrivare al successo completo.
Il Tour del ‘70
Al Tour de France del 1970 Italo Zilioli è in squadra con Eddy Merckx. Nella seconda tappa va in fuga con un gruppetto, vince ad Angers e prende la maglia gialla. È in condizioni splendide e potrebbe essere arrivata la grande occasione, ma Zilioli quasi si scusa per la sua azione. Come al solito, il primo a non crederci è proprio lui: «Mi sentivo bene, ma non pensavo alla vittoria finale». E così dopo quattro giorni la maglia gialla va sulle spalle del “cannibale” Merckx, uno che di dubbi ne ha sempre avuti pochi.
Le notti senza sonno
Prima ancora di sfidare Anquetil, Merckx, Gimondi o Adorni, Zilioli doveva battersi contro gli spettri e i fantasmi che popolavano le sue notti. E il più delle volte al mattino si presentava alla partenza già da battuto. Le notti di Zilioli al Giro d’Italia e al Tour de France hanno fatto epoca nel ciclismo. Alla vigilia delle grandi tappe era uno che non dormiva, si rigirava nel letto, si macerava di dubbi. Poi quando riusciva finalmente a prendere sonno aveva degli incubi, arrivava persino a ululare. Si è parlato anche di sonnambulismo. Nino Defilippis, che fu suo compagno di squadra e di camera, ricordava che una notte lo vide appollaiato sul comodino mentre rivolgeva a sé stesso incitamenti, quasi che sognasse di essere in corsa.
Vero Amleto del ciclismo
Proprio come il principe di Danimarca Italo Zilioli si sentiva inadeguato. Era un campione, ma schiacciato dal peso delle responsabilità. È sempre stato il primo ad ammetterlo: «Quando io e Merckx eravamo in squadra insieme, ero in camera con lui e al momento di andare a dormire lui diceva “Buonanotte”, spegneva la luce e dopo cinque minuti lo sentivi dormire, anche se aveva da difendere tutte le possibili maglie. Lui girava l’interruttore e lo girava anche nel cervello, sapeva gestire le pressioni, era una macchina da guerra. Io invece cominciavo a pensare alla cronometro o alla scalata dell’indomani e addio sonno. La notte a volte davo i numeri».
Insomma, sempre Amleto e i suoi mille dubbi: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni.