Nasce in casa, a Trastevere, affaccio su piazza San Cosimato, una casa che oggi non c’è più ma che in quel 15 giugno del 1920 doveva essere un fremito di agitazione. È il quinto figlio, due sorelle e un fratello e uno che non ha passato pochi giorni di vita. Andava così al tempo, tanti figli, ma un figlio non era mai un’abitudine e quando nasceva era sempre festa.
Deve essere andata così quel martedì. Mamma Maria, insegnante elementare, papà Pietro, professore di musica e prima tuba al Teatro dell’Opera di Roma, e i ragazzini curiosi intorno ridono e sorridono all’ultimo arrivato.
Ridono e sorridono, ma di sicuro qualche lacrima ci sarà stata.
Sorrisi, lacrime e risate
In fondo il destino di Alberto Sordi sarà proprio questo. Ironico, garbato, sarcastico, comico, drammatico, Alberto Sordi è stato una maschera perfetta del cinema italiano e di uno dei suoi linguaggi più originali, quella commedia capace di mostrarci tutti i nostri vizi e tutte le nostre virtù.
Romano di cuore, spirito e parlata, mi piace ricordare Alberto Sordi nel giorno del suo compleanno, 103 ne avrebbe avuti, per la sua capacità di interpretare lo sport immaginario.
Capace di danzare e cantare, voce di personaggi suoi, ma anche di Oliver Hardy che faccio fatica a non chiamare Ollio, di Alberto Sordi non sono note particolari attività sportive. Nato del 1920, figlio quindi della Lupa, come tutti i bambini del periodo avrà fatto anche lui i saggi di fine anno, i Ludi Juveniles dell’Italia Balilla.
Ma non è questo il punto.
Nei suoi 160 film e negli innumerevoli personaggi ai quali ha dato anima, alcuni si distinguono per essere diventati icone di sport immaginario.
Alberto, Nando, Max e gli altri
È il 1951 quando la corsa podistica di Alberto, il compagnuccio della parrocchietta che in Mamma mia che impressione vuole fare colpo sulla signorina Margherita, con il suo inizio comico e il finale in qualche modo drammatico, irrompe nella storia del cinema italiano.
Ancora di più è Nando Mericoni che nel 1953 entra nel cinema italiano per non uscirne più. O meglio, per contagiare dal grande schermo l’intero costume italiano. Un giorno in pretura, dove compare per la prima volta, e Un americano a Roma sono il mondo in cui Nando Mericoni si muove con il suo sogno americano. Magistrale la mano di Steno, superlativa l’interpretazione di Alberto Sordi. Lo sport qui arriva con le citazioni del Tarzan di cui al tempo era il campione di nuoto Johnny Weismuller a dare prestanza (…americà, facce Tarzan…), ma soprattutto con la passione per il baseball di Santi Bailor, l’alter ego americano di Nando. Inutile ricordare che quelli sono gli anni in cui il mito di Joe Di Maggio è ancora vivissimo e pervade la società americana.
Nel 1957 Giorgio Bianchi riedita Il signor Max di Mario Camerini.
Nella rinnovata versione de Il conte Max, l’edicolante Alberto si dipana nella suggestione del bel mondo di Cortina d’Ampezzo, fresca di Olimpiadi invernali, e lo sci diventa simbolo esuberante di sport elitario e inarrivabile.
Il salto temporale ci porta al 1970 quando Alberto Sordi è Benito Fornaciari, volitivo, chiassoso, rissoso Presidente del Borgorosso Football Club, storia di un calcio che a pensarlo oggi brilla per ingenuità e veracità.
Sport immaginario quindi, come si addice a un cinema capace di raccontare la realtà, ma anche, forse soprattutto, di inventarla.
Passione giallorossa
Della realtà, però, impossibile non dire della grande passione calcistica di Alberto Sordi, il suo viscerale amore giallorosso per la Roma, spesso cameo in tante sue scene, di cui citiamo tra tutti l’episodio del derby di Un giorno in Pretura e gli sberleffi dal balcone ne Il marito.
Citazione a parte però merita la surrealtà deltesserino dell’abbonamento all’A.S. Roma che, in Finchè c’è guerra c’è speranza, diventa tessera di riconoscimento dell’Association Sanitaire Roma. Espediente grazie al quale il nostro fa mettere in quarantena Balcazar, il suo rivale d’affari.
Nel 1987, in Di che segno sei, all’Alberto Sordi tifoso un ritrovato Nando Mericoni, consente di dire “Chi è nato a Roma è romanista. I laziali sono quelli de fori le Mura, che ce porteno l’ove fresche e le ricotte, a quanno arriveno in città, alzano la testa e dicono: “Guarda ‘nmbò che cielo limbido!”
Per dirla con il tennis, gioco, partita, incontro.