Quando la voga è musica

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È stato un caso.
Non solo, ma sembrava proprio che quel caso avesse preso un’altra direzione.
Era una di quelle estati di quando sei poco più che un bambino, quando tutto deve e può ancora accadere.
Non potevo saperlo, ma quella fu la mia estate.
Era il 1994, avevo tredici anni e il mio amico convinse me, ragazzino un po’ ingoffato, a fare una cosa da grandi, andare a un corso della Lega Navale, due settimane fuori casa; libertà assoluta devo aver pensato e forse fu questo che mi spinse ad accettare l’invito e a convincere i miei genitori a iscrivermi.

Facciamo un passo indietro, piccolo ma essenziale.
A tredici anni, con le mie taglie di troppo, la mia erre moscia che provate a immaginare cosa potesse significare pronunciare il mio nome e cognome, la mia assoluta negazione per il buon gusto estetico che mi dava licenza di vestire in tuta con mocassini e calzini corti e la mia singolare passione per la musica classica, io ero completamente fuori moda.
Ora sorrido a ripensare alle feste in casa per i compleanni dei miei compagni di classe, dove venivo invitato, certo, e dove immancabilmente finivo a suonare il pianoforte, una gratificazione visto che lo studiavo da quando avevo sette anni, ma che, nel mio caso, era come essere messo a giocare in porta perché incapace di giocare la partita del campo, quella del passaggio, dello smarcamento e del tiro in porta. Fatto è che mentre io suonavo virtuosismi che piacevano ai genitori, la festa, quella vera, si svolgeva alle mie spalle, con ammiccamenti, filarini e primi indissolubili amori adolescenziali che duravano il tempo di un pomeriggio.
Ecco, quel ragazzino fuori moda di tredici anni ero io e se è vero che la vita ci cambia, nel mio caso poi tantissimo, quel ragazzino da qualche parte esiste ancora.
Quindi, tornando a noi, a tredici anni mi proietto nell’avventura della Lega Navale e il caso, eccolo il caso, volle che il corso di vela fosse già al completo e a noi non rimase che iscriverci al corso di canottaggio.
Non andò male, andò malissimo.

Per me, ragazzino fuori moda sì, ma abituato a una vita comoda, l’ambiente spartano della Lega Navale fu un salto nel buio e non solo per la disciplina della giornata, per i suoi orari e le corvée di pulizia, quanto per l’aplomb da sergente maggiore Hartman del mio istruttore, meno scenico di quello di Full Metal Jacket e che rispondeva al molto più mediterraneo nome di Vito, ma non per questo meno incisivo.
Ovviamente, se Vito era il sergente Hartman io, Lorenzo, il ragazzino fuori taglia, non potevo che essere Palla di Lardo che secondo Vito poteva forse, e ho detto forse, fare altre cose, ma tra queste di sicuro non c’era il canottaggio.
Andò che non finii il corso e che dopo una decina di giorni implorai i miei genitori di venire a riprendersi quello che restava di me.
Non potevo saperlo, ma quella non era la fine, era l’inizio.

Nonostante le apparenze, un ragazzino fuori moda può avere mille risorse, anche se quel ragazzino era chiamato dagli amici Er merendina per la vorace passione che lo distingueva nel mangiare di tutto.
Fu così che tornato a Roma decisi da lasciare il nuoto, che praticavo senza grande passione e di iscrivermi al corso di canottaggio al mio circolo, il Canottieri Aniene; era il settembre del 1994.
Bastarono sei mesi.
Sei mesi in cui il senso di rivalsa lavorò in profondità e fece tutto.
Sei mesi e il mio mondo cambiò.
Mi allenavo ogni giorno, il ragazzino della taglia 54 diventò un adolescente della 46, affrontai a tu per tu la mia erre moscia, iniziai a mettermi davanti allo specchio, a pronunciarla in ogni parola possibile e a sentirla suonare diversamente a secondo di come battevo la lingua; durò a lungo, ma imparai e alla fine la mia erre rimase lì, davanti a quello specchio che piano piano iniziò a riflettere non solo me, ma il futuro che mi avrebbe aspettato.
Mi allenavo in palestra e in acqua, sul fiume che forse vale per ogni città che ne è attraversata da uno qualunque, ma a Roma il fiume è il Fiume, simbolo di un’origine e di un destino, anima perenne sempre in movimento, fluire di una vita che si rinnova in ogni suo attimo.
Come la mia, che vedevo cambiare ogni giorno quando quell’approccio spartano che mi aveva disorientato alla Lega Navale divenne invece il mio approccio, con le giornate scandite da studio a scuola, studio della musica, palestra e fiume; quello era il mio ritmo, ritmo mentale che diventava movimento, azione, volontà.

Ritmo, ecco, se dovessi isolare e astrarre il mio percorso, se dovessi trovare una sintesi alla mia vita, una parola che la possa comprendere tutta, quella vissuta, quella in divenire e quella che immagino, userei proprio questa: ritmo.
Ritmo come la mente che si allea con il corpo, ritmo come quello scandito da un metronomo, ritmo come una sinfonia che prende vita e che da uno spartito arriva dritta a toccarti l’anima, quella sì ritmo ancestrale, ritmo come il respiro che accompagna il remo che taglia l’acqua e che non è mosso solo da un braccio e dalla sua forza, ma da una sintonia che in quel gesto ti fa mettere tutto te stesso, anima, cuore, forza e sogni.
Ritmo che è la cifra che unisce la vita della disciplina estrema dell’agonismo con la creatività assoluta di un musicista, dove il rigore prende altre forme e segue vie misteriose.
Ritmo che quando dirigo un’orchestra non mi fa essere diverso da un capo voga o da un allenatore che cerca la chiave giusta per portare il suo equipaggio o il suo atleta alla sfida e, magari, al successo contro l’avversario, contro se stesso, ma sempre e soprattutto cercando di sovrapporre il proprio ritmo a quello naturale del tempo.

Per me la sfida contro il tempo arrivò molto presto, perché prima ancora di confrontarmi con il tempo sportivo avevo iniziato a farlo con il tempo della musica, a sette anni, quando il pianoforte entrò nella mia vita per non uscirne mai più.
La mia prima gara fu nel 1996, nello splendido specchio d’acqua di Sabaudia.
Indimenticabile come ogni prima volta.
Indimenticabile perché non avrei dovuto esserci.
Indimenticabile perché avevo al seguito i miei genitori, anche loro a fare i conti con una prima volta, quella dell’emozione di un figlio in gara.
Indimenticabile perché un errore di scrittura nel mio cognome mi fece annunciare dalla speaker come Ponzio e non Porzio, con mia madre che, pur sostenendo a malapena l’emozione della gara, andò da lui che con piglio deciso a fargli correggere l’errore, quello sì impossibile da sostenere.
Indimenticabile perché quella gara, io che non dovevo esserci, la vinsi.

Ma anche le delusioni hanno il loro ritmo e possono essere indimenticabili.
Come quella del Campionato del Mondo del 2000, a Copenaghen.
Vento che spazzava l’acqua, onde e freddo.
Ero lì con grandi attese nel quattro di coppia, attese che finiscono tutte in uno scalmo spezzato e nell’imbardé che prendo perché quel giorno il ritmo del tempo, quello del vento e delle onde, ebbe partita facile e vince lui.
Arriviamo sesti e, come dicevo, la delusione fu grande.
Ma ricordate il ragazzino di tredici anni, quello che non da qualche parte non mi ha mai lasciato?
Bene, è lui che viene fuori nei momenti difficili.
Da quel giorno iniziai ad allenarmi cercando il maltempo, il vento e le onde per far diventare quel ritmo il mio e quando due anni dopo a Genova scesi in acqua increspata dal vento, capii che era la mia acqua e vinsi il titolo mondiale under 23.
E la stessa cosa accadde ad Atene, nel 2004, acqua increspata e vento, la mia acqua, il mio ritmo.
Anzi, la nostra, perché eravamo in quattro in barca a vogare.
A vogare e ad arrivare al bronzo olimpico e, come potete immaginare, al di là dei titoli nazionali, europei e mondiali che sono bellissimi, una medaglia olimpica è il vero sogno di ogni atleta.
Un sogno per noi e per Giuseppe La Mura, zio dei fratelli Abbagnale e allenatore a cui devo tantissimo.

E le gare, poi, ognuna è una storia a sé.
Come al Campionato del Mondo di Lucerna, nel 2006, quando ero in gara con un due senza ed eravamo io, che non gareggiavo nella mia specialità, e una riserva.
Eravamo rassegnati, si scende in acqua anche solo per la bandiera e noi sapevamo di essere destinati all’ultimo posto.

Lo sapevamo prima di scendere in acqua, però, perché dopo, il ritmo ha preso il suo swing, la voga ha preso il suo swing come dicono gli inglesi, e non c’erano più speranze, certezze o paure e abbiamo vogato senza pensare, vogato e dato tutto quello che avevamo, anche quello che non sapevamo di avere.
Arrivammo quarti, non era un podio, non era una medaglia, ma era tutto.

E così, il ritmo fa sempre la differenza.
Il ritmo della rivalsa, il ritmo della voga, il ritmo che a sette anni mi ha messo davanti la musica, quello che da bambino mi faceva suonare l’organo a quattromila canne della parrocchia del Sacro Cuore Immacolato di Maria, quello che ha fatto della musica la vita che coltivo con passione, il ritmo che mi fa comporre, suonare e dirigere un’orchestra, il ritmo che mi fa insegnare musica con passione e che con altrettanta passione mi vede allenare in acqua i ragazzi alle loro sfide, una più di altre, la più importante nelle sue tante vesti in cui ognuno di noi la affronta, la vita.

Lorenzo Porzio. Romano, coniuga sin da bambino la disciplina musicale con il canottaggio. Campione del Mondo under 23, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene, 18 volte Campione d'Italia e Tedoforo Olimpico, è attualmente allenatore al Circolo Canottieri Aniene e del Ministero degli Affari Esteri. Pianista, organista e direttore d'orchestra, è l'attuale direttore dell'Orchestra Filarmonica Città di Roma e del Coro e Orchestra del Convitto Nazionale. Testimonial Unicef e Cavaliere della Repubblica, ha debuttato nel 2019 come direttore d'orchestra con un tutto esaurito alla Carnegie Hall di New York

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