Sarà capitato anche a voi di varcare delle soglie che, quando le varchi, non puoi pensare ad altro che: “qui dentro il tempo si è fermato”. A me, varcandone una, per prima cosa capita di incontrare Marina alla quale, essendo “quea che te gà verto la porta”, chiedo se sono aperti (perché azienda ed abitazione sono tutt’uno) e quello di cui ho bisogno. Lei allora “ciama” Enrico, che “se de sora”. Dall’odore di legna bruciata non ho dubbi su come il loft venga riscaldato e, nonostante non ci sia molta luce, comincio ad individuare e, soprattutto, ad inquadrare alcune delle foto appese alle pareti.
Poi faccio la conoscenza di Enrico che però “te dise: no, quei garocci lì non li gò”.
“Ah, peccato, e allora dove posso andare a cercarli?” e siccome mi era parso uno di poche parole sto per uscire quando, finalmente, le sinapsi vanno a regime e mi torna in mente una chiacchierata con Paolo Rastrelli – sì, proprio lui – di quando mi raccontò di essere partito in tromba per Trieste a recuperare l’archivio (uno dei tanti che ha salvato) di Sergio Sorrentino l’altro grande dragoner italiano.
Quale altro? Ma che storia è questa? direte voi.
E quindi, prima di salutare, chiedo: “mi scusi, potrei vedere da vicino la foto di quel Dragone?”.
Così ti accorgi che la scritta in alto a sinistra è una dedica, di Nino Cosentino a Giuseppe Parovel, per ringraziarlo di aver tagliato le vele che l’hanno portato sul podio all’Olimpiade. E dunque comincio a intavolare un discorso e “beh, se è per questo, Bepi fece anche le vele per Costantino di Grecia”, che su quel podio salì il gradino più alto.
A questo punto, certo di non aver varcato una soglia ma un portale spazio-temporale, vorrei stare lì tutto il giorno se solo non avessi un socio che ha sempre fretta e che ti vuole portare via.

Sapevo che sarei tornato…
Infatti, avendo dei lavori da fare su una barca acquistata proprio a Monfalcone, sono tornato più volte e mi sono fatto raccontare un po’ della storia di una famiglia che, con quel cognome – mai nomen fu così omen (prima di conoscerli credevo fosse un marchio) – ha prodotto ben tre generazioni di velai. Credo cominciate a capire e allora spiego il perché del friulano, che non scimmiotto ma intendo perfettamente: musica per le mie orecchie, essendo stato generato da un istriano e da una furlana della bassa [1].
Ma torniamo in argomento e con un po’ di storia
La veleria G. Parovel “nacque” nel 1947, a Fiumicello [2], da un’idea di Giuseppe (il nonno) e Giorgio (il papà di Marina ed Enrico) per essere poi trasferita a Monfalcone dieci anni dopo. Bisogna ammettere che i Parovel con l’architettura non hanno avuto un rapporto felicissimo, ma da friulani operosi non si sono evidentemente mai curati di certi dettagli. Agli inizi la produzione era rivolta alle vele per passere, Dinghy 12’ e altre derive nella quarta foto si nota la sacca di una deriva U, classe nazionale a restrizione, imbarcazione di cui si è quasi perso il ricordo).
Dalle Olimpiadi del ’60 alla Coppa Gauloises del ‘78
Il primo importante successo (e che successo!) viene ottenuto nel 1960 con la medaglia d’oro e quella di bronzo alle Olimpiadi di Roma nella classe Dragone. Nello stesso anno le Parovel si classificano ai primi posti nel Campionato Italiano Star e nei medesimi campionati di Austria, Germania e Francia. Poi la produzione si amplia e nel 1965 vengono realizzate le vele per “Irina”, una goletta di 27 m, e nel 1969 per “Vagrant”, uno schooner di 39 m progettato nel 1913 niente popò di meno che da Nat Herreshoff (e recentemente restaurato da Royal Huisman). Nei primi anni ’70 la Parovel invela “Croce del Sud”, goletta a tre alberi progettata da Nicolò Martinoli e realizzata ne 1933 dai cantieri Martinolich a Lussinpiccolo: 42 m ft, 886 mq di superficie velica, scafo in acciaio, sempre (e solo) armata dalla famiglia Mentasti. Successivamente vengono tagliate le vele del piccolo “Caipirinha”, lo scafo del cantiere Gilardoni su progetto di Davide Castiglioni (già collaboratore di Olin Stephens) che nel 1976 si distinse alla OSTAR con Angelo Preden, nonché quelle di “Nuova Samantha”, che nel 1978 partecipò alla Coppa Gauloises a St. Malo.

Gli anni ‘80
Negli anni ‘80 i Parovel continuano ad invelare importanti imbarcazioni classiche e d’epoca, come “Grande Zot”, schooner di 16 m commissionato dallo skipper Angelo Toso per il charter ed indissolubilmente legato a Erik Tabarly, che lo noleggiò per 4 anni di fila ai Caraibi, e la replica “Aleph”, progettate da Carlo Sciarelli, oltre a “Stalea” uno schooner di 83’ disegnato da Ron Holland di proprietà del principe Ranieri di Monaco. Nel 1987 vengono realizzate le vele per “Lady Genevieve” un cargo a tre alberi di 45 metri costruito in vetroresina a Muggia, adibita a trasporto merci e persone alle isole Seychelles: una realizzazione memorabile per un’imbarcazione più unica che rara ai tempi nostri: non aveva winch per tesare scotte e drizze! Giorgio Parovel, successivamente, la raggiunse nell’oceano Indiano per apportare modifiche ed effettuare riparazioni alle sue vele.

Dal Cinquantesimo in poi
Nell’anno del 50° anniversario, il 1997, vengono tagliate le vele per uno yawl costruito nel 1947 dal cantiere Baglietto. Nel 2002 viene effettuato il refitting di “Chiaretta”, uno schooner progettato da Carlo Sciarelli [3]. Successivamente vengono realizzate le vele per “Javelin”, ketch aurico disegnato nel 1896 da Arthur E. Payne e varato dall’omonimo cantiere di Southampton nel 1897.
Insomma, per chi non l’avesse capito l’anno prossimo si celebrerà il 75° anniversario della fondazione nel ricordo di Bepi, che ha guidato l’attività fino al ’74 e di Giorgio che l’ha fatto più o meno fino al 2008, quando è prematuramente scomparso a soli 71 anni. (NdR: l’articolo è stato pubblicato per la prima volta nel 2021) Stiamo parlando dei velai che hanno lavorato, oltre che per i citati Cosentino e Sorrentino, dragoner, per “tutti” i Pelaschier, Adelchi, Annibale e Mauro, nonché per il giovane Agostino Straulino.
Quanti velai, in Italia, possono vantare un curriculum simile?
Note
[1] E non starò a discettare qui se il bisiac (o bisiacco, il dialetto di questa parte del goriziano) sia più influenzato dal triestino che dal veneto – quest’ultimo rimasto intatto nella vicina Grado, storica enclave della Serenissima Repubblica,
[2] A Fiumicello, pochi km da Monfalcone, aveva casa la famiglia di una zia dell’autore, figlia del Maggiore Mario Rizzati, paracadutista della Nembo, medaglia d’oro al v.m. conferita dalla R.S.I. Nonostante le apparenze, Mario Rizzati non era un “fascista” bensì un soldato italiano che non volle mancare alla parola data: mentre Mussolini, per esempio, tenterà poi di fuggire travestito, lui sacrificò la vita per difendere Roma, la capitale di quella che chiamava Patria. Se non avesse combattuto dalla parte “sbagliata” ci sarebbero targhe in sua memoria. I libri di storia ne parlano e questa citazione, su una rivista che tratta di storia, non mi è sembrata inopportuna.
[3] Onestamente non ne ho trovato menzione sulla celebre “striscia” lasciata da Carlo Sciarrelli, la carta sulla quale aveva elencato tutti i suoi disegni (mettendo un “misterioso” punto accanto a quelle che gli esegeti ritengono siano le migliori). Altrettanto onestamente alcune imbarcazioni non vi sono classificate con un nome: “Chiaretta”potrebbe essere una di queste.