La recente scomparsa del mio caro papà ha fatto affiorare pacchi di vecchie fotografie, filmini in super8 e memorabilia varie in gran quantità, ma a colpirmi in particolar modo è stata un’immagine estremamente espressiva, come a volte solo il bianco e nero riesce ad esserlo, in cui si vede un bambino di 6 anni (la scritta nel retro recita Senigallia 1966) seduto su un piccolo dinghy con la randa issata in totale assenza di vento che guarda serissimo l’orizzonte, quello ero io sulla Miolona, la instabilissima barchetta a vela con cui mio nonno mi portava al largo della sabbiosa costa adriatica.
La barchetta dove la vela ha iniziato a essermi maestra di vita.
Alla ricerca dell’inizio
Sarà stato quello il momento che ha deciso il futuro della mia vita?
Nacque lì l’amore per lo sport che ha segnato il mio destino?
Sinceramente non saprei dirlo, non ricordo, mentre ricordo molto bene l’episodio che accese il mio primo amore sportivo, quando dopo un paio d’anni rubai il Ciao Piaggio a mia cugina e mi andai a schiantare sul tavolo dove stavano celebrando il pranzo pasquale tutti i miei parenti in seduta plenaria e che per puro miracolo (pasquale?) non ci rimisero qualche vertebra.
L’emozione fortissima della guida del biciclo a motore si tatuò indelebile nel mio cuore, sicuramente aiutata dai quattro punti di sutura sul mento, insieme a qualche cinghiata sul mio giovane sedere. Ma la scintilla dell’amore era scoccata! E che amore!
Passione ed estasi ogni volta che riuscivo a ripetere l’impresa, tormento per il mio povero padre che da appassionato motociclista si vedeva sparire regolarmente ogni tipo di moto entrasse in garage, a nulla valevano lucchetti e catene, lui era un pilota dell’Alitalia e trascorreva sempre diversi giorni alla settimana in viaggio lasciando campo libero alla mia abilità di scassinatore.
Tra vela e motocross
Sempre più esasperato a 13 anni, con un anno di anticipo mi comprò un 50cc da cross che però potevo usare solo in sua presenza e che in sua assenza rimaneva incatenato con la ruota anteriore ad una colonna del garage, inutile dire che fu un gioco da ragazzini, appunto, procurarmi una ruota, sfilare il perno di quella incatenata, rimontare quella libera e via a tutto gasss!
Il mio Papà disperato ed esausto alla fine firmò il permesso per farmi correre ed iniziò la mia brillante carriera di motocrossista costellata da frequenti e regolari ricoveri, tanto che ormai quando entravo al reparto ortopedia del CTO mi salutavano tutti con sincero affetto.
Nelle more del grande amore coltivavo però anche la vela quasi come una relazione extraconiugale.
Qualche campionato invernale, qualche crociera estiva e diverse regatine col 4.70 mi facevano sentire in colpa per il tempo sottratto al motocross, finché poi un infortunio più grave o meglio, più rognoso, il maledetto scafoide in cinque parti, mise fine alla mia travagliata storia motocrossistica e mi consegnò nelle braccia fluide dell’amante vela.
Vela, il grande amore
Certo inizialmente non era la stessa cosa, mi mancava l’adrenalina del cancelletto di partenza, il corpo a corpo, il volo del salto, ma appena iniziai a fare sul serio e mi ritrovai alla partenza di una ¾ Ton Cup, il Mondiale per barche di 10 metri, con altri 110 scafi scatenati e 30 nodi di vento, lì compresi che l’amante mi avrebbe dato le stesse soddisfazioni del primo doloroso amore.
Come un fuoco covato a lungo il mio amore per la vela divampò violento e totalizzante, con gran dispiacere dei miei genitori buttai la laurea nel cassetto più profondo e per più di 10 anni navigai per oltre 300 giorni l’anno sulle barche più belle, con gli equipaggi migliori e con le sfide più entusiasmanti: Azzurra per la Coppa America, Gatorade per la Whitbread (giro del mondo in regata: attuale Volvo Ocean Race), Moro di Venezia per il Mondiale Maxi Yacht e mille e mille altre.
Un periodo esaltante fatto di planate sfrenate, dure boline, snervanti bonacce sugli oceani e sui mari di tutto il mondo.
Capii molto rapidamente che non ero fatto per le regate tecniche intorno alle boe.
Si è vero ho vinto parecchi campionati nazionali e mondiali girando fra le boe sotto costa, ma il mio spirito si appagava solo nelle regate lunghe offshore.
La Giraglia, il Fastnet, la Whitbread, la Sydney Hobart, le transatlantiche, queste sono le regate che ricordo con più piacere.
Regate in cui ti trovi ad affrontare onde di dieci e più metri e venti che ruggiscono ed urlano costringendoti a tirar fuori fino all’ultimo atomo del tuo coraggio e della tua resistenza fisica, regate dove l’equipaggio diventa un unico organismo teso nello sforzo agonistico della sopravvivenza, regate iniziate con amici e finite con fratelli.
Fratelli
L’aspetto umano è una parte meravigliosa delle regate.
Ho avuto l’onore di regatare con i più grandi velisti del mio tempo, ma anche dopo tanti anni non riesco a vederli come campioni, ma come fratelli nati dalle stesse acque, dalle stesse onde, modellati dallo stesso vento ed accomunati dalla stessa meravigliosa sofferenza.
Il sale, le onde, l’orizzonte dipinto di albe e di tramonti e il vento, soprattutto il vento, entrarono in me, scorsero nelle mie vene, si impadronirono della mia anima, modificarono il mio DNA, finché incappai nel mio scoglio.
Si dice che sulla rotta di ogni navigante c’è uno scoglio, il mio prese le sembianze di una bellissima ragazza, bravissima marinaia a tal punto che mi sentii in dovere di sposarla, salvo poi scoprire che non aveva nessuna intenzione di fare il nido in mare, come romanticamente sognavo, ma preferiva la sicurezza della terra ferma per allevare la prole.
Come darle torto? Da uomo adattabile, quale io sono, feci di necessità virtù, comprai un cantiere e misi radici, sempre però occupandomi di barche diventai mediatore marittimo e project manager collaborando con i maggiori cantieri italiani ed europei.
Le soddisfazioni non mancarono anche perché questo lavoro mi dava comunque l’occasione di navigare e regatare, certo non più come prima, ma l’abbraccio del mare non mi mancava, tanto che in quegli anni riuscii a vincere anche un paio di Arc!
Arc 1998
L’Arc è una regata organizzata dagli inglesi che originariamente serviva per attraversare l’Atlantico in sicurezza alle numerose barche che andavano a svernare ai Caraibi, poi in breve ha prevalso lo spirito competitivo ed è tuttora frequentata dai più bei racer del mondo, il percorso è sempre lo stesso da Gran Canaria a Santa Lucia, 2500 miglia di vento in poppa, planate, sole e pesci volanti: vera goduria!
Purtroppo lo spirito con cui la affrontai nel 1998 non era dei migliori.
Mi ero appena separato con la bella marinaia di cui sopra ed il mio morale aveva un piede nella depressione, fu quindi con una latente tendenza al suicidio che accettai di portare ai Caraibi il Dufour 45’ con cui il giovane figlio di un mio caro cliente voleva fare charter tropicali.
Una volta arrivati alle Canarie il papà del suddetto ventenne ci iscrisse all’Arc soprattutto per aumentare il livello di sicurezza della traversata, certamente non per velleità agonistiche anche perché l’equipaggio, formato in tutta fretta, e composto da 3 amici e coetanei del ventenne non aveva alcuna esperienza velica e ancor meno di regata!
Comunque partimmo e subito lo spirito competitivo ebbe la meglio, fu una delle mie migliori partenze: uscimmo dalla linea di partenza come razzi sotto spinnaker lasciando la flotta di 180 barche di molto dietro a noi, c’è una foto quasi irreale che lo testimonia: noi e un miglio dietro un muro di barche che si dibattevano nella bonaccia ostacolandosi a vicenda.
Memore della decina di traversate compiute andai a cercare il vento a Sud con rotta sulle isole di Capo Verde, mentre tutta la flotta appena scapolata Gran Canaria si mise in rotta diretta sui Caraibi, il risultato fu che noi dopo due giorni trovammo un gajardo aliseo che sotto spinnaker ci faceva fare più di 240 miglia nelle 24ore, mentre la flotta compresi i numerosi maxi racer ancora arrancavano penosamente nelle ariette.
Quando poi finalmente trovarono vento avevamo accumulato più di 400 miglia di vantaggio!
A Sud!
Purtroppo però la rotta a Sud che tanto ci aveva favorito ci portò a lambire la coda di una forte depressione tropicale.
Mi sono sempre vantato di essere un buon marinaio ed il buon marinaio è consapevole della forza immensa del mare, lo rispetta e lo teme.
Di fronte ad una cartina meteo come quella che scaricammo quel giorno in mezzo all’Atlantico il buon marinaio senza indugio avrebbe fatto rotta verso Nord evitando l’annunciata burrasca, anche se questa avrebbe significato perdere miglia e riaccodarci alla flotta in regata.
Quel giorno non fui un buon marinaio, ero troppo pieno di dolore e rabbia, decisi cosi di tirare dritto.
Il vento ci girò di prua e rinforzò paurosamente, treni di onde rabbiose provenienti da prua iniziarono a scontrarsi con quelle del gentile aliseo che ci aveva accompagnato fino a quel momento, in breve il mare divenne un pentola ribollente di onde incrociate alte quanto un hangar e frangenti per ogni dove, a velatura ridottissima arrancammo per due giorni e due notti con la povera barca, certamente non costruita per un simile stress, che cigolava e gemeva da far pena.
Dentro la paura la vittoria
Ora dopo tanti anni lo posso ammettere: ebbi paura.
Il catarchico scontro con le forze della natura che tanto avevo anelato per lenire il dolore dell’amore finito era lì, ma non lo volevo più, sentivo la responsabilità per quei quattro giovani ragazzi innocenti che avevo trascinato nella mia follia.
Ad ogni schianto delle onde sullo scafo il mio cuore si fermava, ad ogni orrendo fischio del vento sulle vele strizzate all’inverosimile il mio respiro si mozzava, volevo riportare quei figlioli che mi erano stati affidati ai loro padri e, soprattutto, volevo riabbracciare il mio piccolo di 3 anni che mi aspettava fiducioso ed ignaro della paterna pazzia.
Pregai in silenzio e molto lottai, anzi lottammo, i ragazzi si comportarono magnificamente, soffrirono ma non disperarono neppure un attimo e ad ogni manovra parteciparono con tutta la forza della loro gioventù.
Poi finalmente passò, riprendemmo la nostra veloce passeggiata verso ponente e, nonostante la tempesta, il vantaggio che avevamo accumulato fu tale che i primi Maxi Yacht ci sorpassarono solo il giorno prima dell’arrivo.
Fu un trionfo.
Vincemmo la classifica in tempo compensato su tutti, la classifica di classe (il secondo classificato arrivò tre giorni dopo di noi!) ed il premio speciale per l’equipaggio più giovane, ma soprattutto scesero a terra non più quattro ragazzi, ma quattro uomini ed io ero tornato il buon marinaio che ancora spero di essere.
Il mondo migliore
Lo sport della vela praticato con tanta passione ed a questo livello mi ha inevitabilmente cambiato nel profondo, mi ha reso più saggio, meno impulsivo e mi ha dotato di una particolare sensibilità ambientale.
Pochi anni fa, dopo l’ultima regata atlantica in cui mi trovai a navigare per due interi giorni in un gigantesco groviglio di alghe brune prodotte dall’eutrofizzazione umana e distruttrici di ogni forma di vita marina, mi convinsi che avrei dovuto fare qualcosa per migliorare questo meraviglioso mondo che da troppo tempo usiamo come pattumiera.
Studiai e mi applicai a ciò che meglio conoscevo: il vento ed entrai nel meraviglioso mondo della generazione eolica.
Cercai di riprodurre l’efficienza combinata della randa e del fiocco di una barca a vela in un moto rotatorio e dopo anni di studio ed ingenti investimenti nacque una microturbina eolica ad asse verticale a doppio profilo alare superperformante, attualmente prodotta in Italia, Sudafrica e Brasile e che si sta diffondendo in tutto il mondo.
Anche in questo caso lo sport, la vela in partiolare, mi aveva indicato la via per dare un senso alla mia vita, contribuendo in minima, piccolissima parte alla creazione di un mondo migliore da lasciare ai nostri figli.