Pietro Mennea. Ragazzo del Sud senza pista

Pietro Mennea, ragazzo del Sud senza pista, sfida il destino, domina il tempo, tocca il cielo con un dito ed entra nella leggenda dello sport. Una storia da mantenere viva, un esempio per tutti.
Pietro Mennea

Due giganti.

Qualche giorno dopo aver stabilito il record mondiale dei 200 metri piani, Pietro Mennea, ragazzo del Sud senza pista, era in visita in California.
Improvvisamente, si trovò al cospetto del campione dei pesi massimi di boxe, Muhammad Alì.
Mr. Ali, questo è l’uomo più veloce del mondo”, qualcuno disse a mo’ di presentazione.
Il gigante statunitense lo squadrò da capo a piedi: “Ma tu sei bianco!”, esclamò con malcelata sorpresa.
Sì, ma dentro sono più nero di te”, rispose pronto il velocista, con un sorriso disarmante.

Una parabola sorprendente, meravigliosa, a tratti esaltante quella di Pietro Mennea nato a Barletta nel 1952, figlio di un sarto e di una casalinga. Gli dicevano che non aveva il fisico adatto per diventare un campione della velocità, che non aveva muscoli scattanti e possenti, che era goffo e sgraziato. In anni in cui sulle piste di atletica dominavano i campioni “scientifici” dell’Europa dell’Est e gli afroamericani fisicamente strepitosi, quell’italiano dal fisico normale, ma dalla volontà ferrea e dalla rabbia feroce, raggiunse il tetto del mondo grazie alla forza della determinazione e dell’abnegazione.

Il segreto è lavorare, perseverare e avere tanta forza di volontà, e poi passione, cuore, credere in quello che fai, e avere sempre una voglia matta di migliorare. Chi non ha questa voglia fa poca strada”, dichiarava a chi lo ammirava sbalordito.

Barletta

La leggenda vuole che Pietro quindicenne si guadagnasse i soldi per il biglietto del cinema battendo le automobili sulla distanza dei 50 metri sul vialone della sua Barletta. Ma furono le gesta dell’americano Tommie Smith alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 ad ispirarlo e a convincerlo che anche lui avrebbe potuto competere con i grandi della velocità. Da allora, per Mennea cominciò una strada sempre in salita, piena di incognite e di ostacoli. E già, perché nella sua amata terra non aveva neppure una pista per allenarsi. Il trasferimento a Formia nel 1971 fu necessario, ma anche provvidenziale, perché il sodalizio con il professor Carlo Vittori, suo allenatore e costante punto di riferimento, gli aprì le porte delle competizioni internazionali. 

Partecipò a ben cinque Olimpiadi, Mennea, da Monaco 1972 a Seoul 1988, raggiungendo quattro finali consecutive: un vero primato, per un velocista. E poi, Mondiali, Europei, Universiadi e Giochi del Mediterraneo. Pietro faceva incetta di medaglie e piazzamenti nei 100 e nei 200 piani, ma anche nelle staffette 4×100 e, addirittura, 4×400.

Nonostante fosse il detentore del primato italiano dei 100 metri (10”01, battuto solo quarant’anni dopo da Filippo Tortu, con 9”99 e pochi giorni fa da Marcell Jacobs con i 9”80 olimpici) e dei 150 metri (con 14”8, battuto soltanto da Usain Bolt con 14”35 nel 2009), la sua vera specialità erano i 200 metri piani. Mennea, infatti, dal punto di vista tecnico aveva una partenza dai blocchi relativamente lenta, ma progressivamente accelerava riuscendo a raggiungere velocità di punta superiori a qualunque atleta, che gli consentivano rimonte al limite del prodigioso. Fu proprio questa distanza, quindi, a consegnargli le chiavi della Storia.

Città del Messico

Il 12 settembre 1979, il ventisettenne Pietro Mennea, studente di Scienze Politiche, proprio sulla pista di Città del Messico che aveva visto trionfare undici anni prima il suo idolo Tommie Smith, fece fermare i cronometri a 19”72 nella finale delle Universiadi. Un capolavoro della tenacia e della volontà, un record mondiale che sarebbe durato ben 17 anni (altro grande record di longevità per un primato sportivo): soltanto nel 1996, infatti, Michael Johnson riuscirà a fare meglio, con il tempo di 19”66 durante i trials americani. E pensare che quel tempo è ancora il record Europeo dopo ben 42 anni!

Un ragazzo del Sud, senza pista, oggi è riuscito a fare il record del mondo”, dichiarò Pietro con quella sua inconfondibile maschera arcigna, severa, dalla quale traspariva a fatica la gioia per aver realizzato il suo sogno di sempre.

Era nata la Freccia del Sud.

Mosca

L’anno dopo, alle Olimpiadi del 1980 a Mosca, un’altra straordinaria impresa sportiva regalò a Mennea un posto in prima fila nell’Olimpo degli atleti. Nella finale dei 200 metri, Pietro gareggiava in ottava corsia, notoriamente svantaggiata perché priva di punti di riferimento.

Lo scozzese Alan Wells, il suo rivale principale, che lo aveva battuto qualche giorno prima nei 100 metri, era invece in settima. L’azzurro era tiratissimo in volto, e la partenza dai blocchi non fu delle migliori. All’imbocco della curva Mennea e Wells erano appaiati, ma lo scozzese allungò e sembrò quasi imprendibile, mentre il giamaicano Don Quarrie conduceva con almeno due metri di vantaggio. Ma, quando tutto sembrava ormai perduto, sul rettilineo l’azzurro iniziò una progressione incredibile, esaltante, definitiva, scandita dalle parole indimenticabili del telecronista Rai Paolo Rosi, che accompagnarono l’Italia intera al traguardo in quella calda notte d’estate:
“Mennea cerca di recuperare, Mennea cerca di recuperare, recupera, recupera, recupera, recupera, recupera… Ha vinto, ha vinto! Straordinaria impresa di Mennea.”

Pietro andò a prendersi quella medaglia d’oro tanto sognata e inseguita sfidando sé stesso, il tempo, la natura e la forza di gravità.
Ho ancora negli occhi il suo dito indice alzato, in un gesto ormai leggendario, iconico, che secondo me non voleva dire: “Sono il primo, sono il migliore”, bensì: “Ho lottato, ho sofferto, ho superato me stesso e i miei limiti, e adesso posso toccare il cielo con un dito!”

Del resto, La Freccia del Sud, figlio orgoglioso di un Meridione svantaggiato e carente anche nelle strutture più elementari, aveva fatto del sacrificio, della determinazione e della tenacia la sua bandiera, la sua ricetta per emergere:
Mi allenavo 5/6 ore al giorno, per 365 giorni l’anno, e questo l’ho fatto per quasi 20 anni, non ho mai saltato un evento importante. Se potessi tornare indietro mi allenerei anche più ore al giorno, perché il lavoro paga, e la superficialità non porta a nulla.”

Pietro Mennea, uomo del Sud

Basterebbero queste parole per comprendere lo spessore dell’atleta barlettano.
Ma Pietro Mennea, che prima di essere un eccezionale sportivo era un uomo straordinario, riuscì a realizzare in pieno il motto latino Mens sana in corpore sano.

Infatti, tra un record e l’altro, conseguì ben quattro lauree, rispettivamente in Scienze Politiche, in Giurisprudenza, in Scienze dell’Educazione Motoria ed in Lettere, che lo portarono a ricoprire ruoli di grosso rilievo professionale. Fu docente universitario, avvocato (aveva uno studio a Roma insieme a sua moglie, Manuela Olivieri), curatore fallimentare, dirigente sportivo (nella stagione 1998-99 fu Direttore Generale della Salernitana) e scrisse una ventina di libri. Inoltre, fu deputato europeo.

Insomma, Pietro Mennea è stato un uomo che ha dedicato tutto sé stesso ai propri sogni, senza risparmiarsi mai, finché un male incurabile non se lo è portato via a sessant’anni, nel 2013.

Per me, nella mia memoria, resterà sempre quel velocista bianco sgraziato, ingobbito dalla fatica, che sembrava scivolare malamente fuori dalla curva e che un giorno ne riemerse rubando il tempo al mondo, con l’indice rivolto al cielo e il pensiero a come migliorare ancora: la nostra indimenticabile Freccia del Sud.

 

 

Davide Zingone Napoletano classe ‘73, vive a Roma dove dirige l’agenzia letteraria Babylon Café. Laureato con lode in Lingue e Letterature Straniere e in Scienze Turistiche, parla correntemente sei lingue. È autore della raccolta di racconti umoristici "Storie di ordinaria Kazzimma", Echos Edizioni, 2021; del saggio “Si ‘sta voce…”, Storie, curiosità e aneddoti sulle più famose canzoni classiche napoletane da Michelemmà a Malafemmena, Tabula Fati, 2022; e di “Tre saggi sull’Esperanto”, Echos Edizioni, 2022.

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