C’è anche questo. Nel Pantheon delle Olimpiadi ci sono medaglie, sfide, record e fallimenti. Qualche storia vince il tempo, qualche altra il tempo se la inghiotte. Poi di storie ce ne sono anche altre e queste, proprie queste, dimenticarle è un lusso che non ci possiamo permettere. Sono storie maledette e di olimpico non hanno nulla se non il sogno tradito. A me piace Ezra Pound quando scrive “rendi forti i vecchi sogni perché questo nostro mondo non perda coraggio”. Anche per questo sono qui a raccontarle. Ancora una volta.
Il dramma di Roma ‘60
Knud Enemark Jensen, danese di Arhus, ha 24 anni, fa il muratore, ma va in bicicletta da quando è poco più che un ragazzino. Nel destino che mischia le carte a piacere, sua moglie è la nipote di Henry Hansen, ciclista con doppio oro ad Amsterdam 1928.
Il 26 agosto 1960 le stagioni sono quelle di una volta ed è un caldo torrido quello che accoglie la prima gara delle Olimpiadi di Roma. Alle 9.00 del mattino la temperatura punta a 34 gradi e quando Knud sta per ingaggiare la 100 km a squadre, l’asfalto dell’EUR brucia come se fosse la porta dell’inferno. Si parte da via dell’Oceano Pacifico e poi via per la Colombo, il circuito è di 33,33 km ed è da percorrere tre volte. Le squadre partono ogni due minuti e quando tocca ai danesi Knud vuole mangiarseli quei 100 chilometri. Le cose però non vanno bene. Non era ancora finito il primo giro quando Knud ha un mancamento, la testa gira, un compagno se ne accorge e lo afferra mentre un altro gli si affianca per tenerlo in sella. Riescono a spruzzargli dell’acqua da una borraccia, sembra fare effetto. Un colpo di calore, pensano, poi lo lasciano e lui per pochi secondi va.
Il crollo è improvviso e rovinoso. Knud si schianta sull’asfalto, batte la testa e perde conoscenza. L’ambulanza è al seguito, arriva subito e lo porta al punto di soccorso, un tendone militare vicino l’arrivo, poi è trasportato in ospedale. Inutile. La corsa di Knud finisce qui. Non riprenderà mai conoscenza. L’autopsia referta trauma cranico, arresto cardiaco e disidratazione. La versione va bene a tanti, forse troppi. Anni dopo uno dei medici parlerà delle anfetamine che gli erano state trovate in corpo. La jattura del doping ha la sua prima vittima olimpica.
Il Piano 14.25
Sigla anonima, burocratica, insignificante, perfetta per un segreto di Stato. A Berlino Est, al civico 20 di Normannenstrasse, sanno bene come si fa. Normannenstrasse 20 non è un indirizzo qualunque, ma quello del Ministero per la Sicurezza dello Stato dove aveva sede la Stasi. Anche 14.25 non è un numero qualunque, ma è il numero che copre il doping di Stato, ovvero il doping asservito al risultato sportivo come manifestazione di superiorità politica. Praticato già da anni, il doping della Repubblica Democratica Tedesca, con il Piano 14.25 licenziato nel 1974 trova la sua formalità. Dai documenti desecretati dopo l’unificazione, si calcola che tra il 1968 e il 1988 siano stati oltre 10.000 gli atleti scientificamente sottoposti ad abusi nel nome della supremazia politica spacciata per sport. Atleti il più delle volte poco più che bambini e bambine. Bambine, moltissime. Il motivo che vede nelle donne le vittime per eccellenza del doping di Stato è drammaticamente semplice:su di loro l’effetto degli ormoni maschili era più forte e dava maggiori garanzie di risultato. Donne per le quali il futuro avrebbe avuto il volto di tumori al seno, infertilità, aborti spontanei, depressione, morti bianche e suicidi.
Dalle Olimpiadi di Monaco ‘72 a quelle di Seul ’88 la piccola Germania Est si piazza puntualmente seconda o terza nel medagliere olimpico, alle spalle solo di Unione Sovietica e Stati Uniti. Inutile spiegare perché. Inutile spiegare perché dopo i tre argenti a Monaco ’72 e i quattro ori olimpici con quattro record del mondo di Montreal ’76 la nuotatrice Kornelia Hender non abbia più voluto prendere la famosa pillola blu di Turinabol. Ovviamente il doping di Stato non riguardava solo la Germania Est, ma tutto il mondo sovietico e i suoi satelliti. Nell’impossibilità di raccontare di tutti, ricordiamo due nomi che ne sono il simbolo; Nadia Comaneci e il suo 10 perfetto da ginnasta quattordicenne alle Olimpiadi Montreal ’76 ed Elena Mukhina – storia se possibile ancora più tragica – che nel 1980 avrebbe dovuto essere la risposta russa alla rumena Comaneci, ma che alle Olimpiadi non riuscì ad arrivare.
Settembre Nero
Il 15 luglio del 1972 due uomini sono seduti in piazza della Rotonda, parlano e neanche guardano il Pantheon che hanno davanti. Abu Dawud e Abu Iyad hanno altro da fare, decidere e pianificare un attentato richiede attenzione. L’ultimo, il dirottamento di un aereo in volo da Vienna a Tel Aviv è stato un mezzo fallimento. Il prossimo dovrà andare bene e dovrà essere clamoroso. Il prossimo sarà a Monaco. Alle Olimpiadi di Monaco.
Alle 4.30 del 5 settembre al villaggio olimpico di Monaco dormono tutti, forse anche la sorveglianza. Fatto è che gli otto palestinesi di Settembre Nero hanno gioco facile a raggiungere l’edificio dove alloggia il team israeliano. Yossef Gutfreund ha 40 anni e due figlie ed è arrivato a Monaco per arbitrare gli incontri di lotta greco-romana e forse ha il sonno leggero. La sua è la prima stanza che i terroristi tentano di aprire, lui sente il rumore, apre gli occhi, grida, si lancia sulla porta da cui spuntano le canne dei mitra e ne ritarda l’apertura con tutta la forza dei suoi 130 chili. Secondi in più che consentono al suo compagno di stanza di gettarsi dalla finestra. È solo il primo episodio dei giorni maledetti.
L’epilogo sarà all’1.30 del 6 settembre con il fallimento dell’operazione condotta dalla polizia tedesca che avrebbe dovuto portare alla liberazione degli ostaggi e il bilancio drammatico di undici atleti israeliani e un poliziotto uccisi. Degli otto terroristi del commando, ne morirono cinque. Il 29 ottobre un altro commando dirotterà un volo Lufthansa partito da Damasco verso Francoforte. La trattativa che ne seguirà porterà al rilascio dei tre terroristi superstiti. Accompagnati in Libia, ricevettero gloria e onori e la conferenza stampa che indissero subito dopo fu ribattuta in tutto il mondo.
Parigi 2024
Tre storie diverse, tre storie di uomini e donne che nelle Olimpiadi non trovarono il sogno che avevano amato, ma il dramma di vite spezzate anche quando queste, come nel caso degli atleti vittime del doping di Stato, sarebbero andate ancora avanti.
A tutti loro, nel rinnovato spirito olimpico di Parigi 2024, ogni donna e uomo di sport guardi e ricordi con affetto.