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L’incredibile storia del salesiano centravanti di Mao

Don Giuseppe Ho, salesiano, centravanti. Potrebbe sembrare una storia normale, ma non lo è. Questa è la storia dispersa del salesiano che negli anni della persecuzione dei cristiani in Cina diventa centravanti e capitano della Nazionale di Mao che nel 1952 gioca contro la Grande Ungheria di Puskas. Di lui abbiamo trovato una traccia che risale a metà anni '60. Dopo solo oblio. Se oggi potesse raccontare la sua storia, siamo sicuri che la racconterebbe così.
Giuseppe Ho salesiano

Immaginate di avere tra le mani la mia carta d’identità, ingiallita ormai, recuperata chissà dove per qualche caso inspiegabile.
O forse dovrei dire provvidenziale, ma questo è un altro discorso.
Apritela con cura, dopo tanti anni la carta è già rovinata di suo e basterebbe poco per romperla.
Ebbene su questo documento sbiadito dal tempo trovereste informazioni di rito, laconiche, essenziali:
Nome: Giuseppe Ho
Luogo e anno di nascita: Macao, Cina, 1923
Professione: professore, salesiano, centravanti.
A questo punto avreste a disposizione qualche indizio, ma non perdete tempo a seguirlo, non vi porterebbe a nulla.
La mia è una storia dispersa, svanita nel tempo.
La mia è la storia del salesiano centravanti di Mao e adesso ve la racconto io.

Io vengo da lontano

Nasco a Macao, al tempo colonia portoghese, nel 1923 in una famiglia cristiana da due generazioni e, subito dopo aver concluso gli studi medi, entro in un istituto salesiano per seguire la mia vocazione sacerdotale.
Nel 1943 prendo i voti, consacro la mia vita a Dio, attendo che finisca l’inferno della guerra e nel 1945 inizio il tirocinio triennale che mi avrebbe poi permesso di iniziare gli studi teologici e, infine, di diventare salesiano.
In quel periodo viaggio molto e visito quasi tutte le quindici case salesiane in Cina.
Nel frattempo, però, il mondo intorno a me cambia.

Giuseppe Ho
(Giuseppe Ho)

Mao e la guerra civile

La Seconda Guerra Mondiale finisce nel 1945, ma nel 1946 in Cina scoppia la guerra civile tra nazionalisti e comunisti.
Finirà solo nel 1949 con la vittoria dei comunisti e la nomina di Mao a Presidente della neonata Repubblica Popolare di Cina.
Per noi cristiani niente di buono, per un salesiano che insegna molto peggio.
I miei superiori, scettici sulla tenuta del regime comunista a loro detta troppo diverso dal carattere naturale dei cinesi per durare a lungo, ci invitarono a resistere e a prendere tempo.
Lo facemmo, ma fu durissimo, anche perché i miei superiori avevano sbagliato le previsioni.

Non tutto va sempre secondo i piani

Molto presto tutti i salesiani non cinesi, in maggior parte italiani, vennero arrestati, messi sotto processo con accuse fantasiose e infamanti e infine espulsi.
Era solo l’inizio, non potevo immaginarlo, ma per quasi venti anni a seguire la mia vita fu un inferno.
Con la cacciata dei salesiani la mia scuola rimase presto senza insegnanti.
Non mi scoraggiai, ero molto giovane, avevo uno splendido rapporto con i ragazzi che mi vedevano come il loro punto  di riferimento. Decisi di resistere, lo dovevo anche a loro e fu così che mi feci carico dell’insegnamento per tutta la scuola media.
Le mie giornate divennero lunghissime, intense, ma a ripensarle ora ne ritrovo a memoria solo la grande bellezza.

Tra studio e ricreazione

Per qualche tempo i comunisti mi lasciarono fare, ma non potevano fidarsi di un salesiano e quindi mi tenevano d’occhio.
Lo facevano nel modo più semplice, o più subsolo; alcuni dei ragazzi, reclutati come informatori, erano obbligati a riferire di cosa parlassi a lezione, con chi avessi contatti, come mi comportavo.
I ragazzi però mi erano affezionati, non mi avrebbero mai tradito e poi, al di là di studio e compiti, avevamo anche un momento tutto nostro, un momento in cui gli unici ruoli che valevano erano quelli del pallone.

Questo momento era la ricreazione, quindici minuti in cui ci spogliavamo dei pensieri per correre solo dietro alla palla, conquistarla, segnare. Ecco la ricreazione era la nostra festa quotidiana ed era bellissimo quando anche gli studenti più timidi decidevano di giocare con noi. In quei quindici minuti tristezza, miseria e paure svanivano con un calcio al pallone che ci passava per i piedi e, a volte, anche in mezzo alle gambe.

Il programma di rieducazione

Il regime diffidava degli insegnanti perché capiva quanta influenza potessero avere sulla formazione dei ragazzi. nella mia provincia, poi, eravamo in pochi a insegnare, ma soprattutto quasi nessuno era comunista.
Un giorno mi arrivò una convocazione che non potevo rifiutare, ma non arrivò solo a me salesiano; arrivò a tutti gli insegnanti.
Ci ritrovammo riuniti in una sorta di casermone dove fummo divisi in squadre.
Non fraintendete, però,
niente a che vedere con il gioco; quello era solo l’inizio del programma di rieducazione che ci avrebbe dovuto far diventare insegnanti modello. A modello del regime e dei commissari politici, ovviamente.

Nei primi giorni fummo sottoposti a interrogatori incessanti, ripetitivi, maniacali, volevano sapere tutto di noi, ma in particolare volevano farci confessare quello che loro volevano sentire. Che non avessimo fatto nulla di tutto ciò era solo un dettaglio irrilevante. Più di uno cedette, ma io avevo un’arma segreta; io avevo Fede.

In cella

Per mesi fui continuamente interrogato, insultato, denigrato, accusato di essere un salesiano servo del Vaticano, costretto a vivere, anzi a sopravvivere, rinchiuso in stanzini angusti dove persino girarsi era difficile. Ma anche l’isolamento di quelle quattro pareti era solo un’illusione. In quelle celle non c’era orario; venivano a interrogarmi in qualunque momento del giorno e della notte, mi svegliavano, mi urlavano contro, mi minacciavano.
Volevano fiaccare ogni mia volontà e abbattere ogni mia difesa pur di farmi rinnegare la Fede, e per loro far rinnegare un salesiano sarebbe stato un grande successo.
Confesso che arrivai molto vicino al limite, ero frastornato, irascibile, deperito, ma l’Angelo Custode si prese cura di me e mi aiutò a resistere fino a quando i commissari politici non decisero di farmi tornare a casa.

Giuseppe Ho
(Giuseppe Ho)

Il ritorno a scuola

Casa per me significava scuola, e scuola significava  vita.
Ripresi a insegnare, ma le privazioni e le vessazioni della detenzione avevano lasciato segni profondi, non fu facile e forse non ero più il maestro di prima.
Cercai un piccolo rifugio nello sport e iniziai a giocare a pallavolo, a pallacanestro e a calcio ogni volta che era possibile.
Nel 1951 iniziò un campionato di pallacanestro tra maestri, provai a iscrivermi, ma non fui accettato,i commissari politici diffidavano di me e non lo permisero.
Ci rimasi male, ma la mia occasione sarebbe arrivata poco dopo e mi avrebbe portato più lontano di quanto avessi mai potuto immaginare.

Un salesiano in campo

Pochi mesi dopo venne organizzato un torneo di calcio, io mi proposi nuovamente questa volta i commissari politici da cui tutto dipendeva, accolsero la mia richiesta.
Iniziai a giocare in una squadretta locale con cui vinsi il torneo ottenendo così la promozione alla serie superiore, che comprendeva le scuole della provincia. Anche in quel caso arrivammo primi. Poi partecipammo al torneo regionale e anche lì vincemmo su tutti.  

In quegli anni  il calcio era uno sport ancora relativamente poco conosciuto in Cina, ma un giorno fui chiamato da un commissario che mi propose di far par parte della squadra nazionale.  Mi dice che giocavo bene, che avevano bisogno di me, che avrei dato lustro alla  Cina di cui, ovviamente, dovevo condividere le idee politiche.
Per sincerarsi del mio pensiero, la domanda fu diretta; mi chiese se fossi d’accordo con l’arresto dei preti cattolici.
Cosa avrebbe mai potuto rispondere un salesiano secondo voi?
Ancora una volta mi aiutò l’Angelo Custode; mi suggerì la risposta giusta, leggermente evasiva, ma che accontentò il commissario.
Se i sacerdoti hanno fatto del male, debbono essere arrestati; se poi risulteranno innocenti, il governo certamente li lascerà liberi”.

Un salesiano centravanti di Mao

Più che una risposta, quella fu in effetti la formula magica che mi spalancò la porta della Nazionale di calcio cinese.
Con l’avvertenza di essere maggiormente aggiornato sull’attualità del paese, venni convocato e mi trasferii a Pechino dove avevano luogo gli allenamenti.
Se pensate agli allenamenti della vostra squadra e dei vostri campioni, siete fuori strada.
I nostri erano allenamenti durissimi, di stampo militare, che mettevano a dura prova corpo e spirito con la sveglia all’alba e il coprifuoco alle nove; unica attività l’esercizio ininterrotto.  

Ero bravo, avevo un bello scatto e un buon tiro che mi fecero guadagnare prima il ruolo di centravanti e poi la fascia di capitano.
Non ottenemmo mai grandi risultati, potevamo solo giocare con squadre di altri paesi comunisti e non facemmo mai trasferte fuori dalla Cina. La motivazione ufficiale era che non avremmo fatto bella figura e questo avrebbe messo in cattiva luce il regime. 
Molto più vera era la paura che i commissari politici avevano di qualche nostra fuga che, quella sì, avrebbe messo in cattiva luce il regime e, fatto non trascurabile, avrebbe avuto pesantissime ripercussioni personali su di loro.

Un salesiano contro Puskas

Tra tutte le partite e le sconfitte, mi piace ricordare quella contro l’Ungheria del 1952.
Una sconfitta roboante, perdemmo dieci a zero, n
on riuscimmo mai a prendere palla, gli ungheresi sembravano giocare con noi senza prenderci sul serio.
Una mortificazione certo, ma era pur vero che quella era la Grande Ungheria di Puskas, Czibor, Kocsis, una squadra che sarebbe entrata nella leggenda del calcio e alla quale solo un controverso arbitraggio negò la vittoria al campionato mondiale del 1954.

L’idea della fuga

Se non fosse stato per le sconfitte sportive, quello fu un periodo relativamente tranquillo in cui i commissari politici si limitavano a spiarmi, ma non mi davano troppe noie.
Più andavo avanti, però, più si faceva largo in me l’idea di lasciare la Cina, solo che per farlo l’unico modo era fuggire ed era una cosa maledettamente complicata.

Ai giocatori non era permesso allontanarsi da Pechino, neanche in caso della morte dei genitori, fatta salva una sola eccezione: la licenza matrimoniale.
Ci provai. Chiesi il permesso di andare a Canton per sposarmi e, con mia sorpresa, mi fu concesso senza neanche troppe formalità.
Arrivato a Canton mi misi in cerca dei miei parenti per trovare un aiuto al mio piano, che più che un piano era ancora solo una pia intenzione, ma non trovai nessuno e rassegnato tornai a Pechino.
Ovviamente dovetti mentire sul mancato matrimonio dicendo che la ragazza si era stufata di aspettarmi e che era saltato tutto.

Un piano vero

Il mio viaggio a Canton non fu del tutto vano, infatti un mio superiore salesiano, a conoscenza del mio espediente matrimoniale, organizzò un piano per aiutarmi. Un piano vero, però, non come il mio che non esisteva.
Dopo qualche tempo iniziai a ricevere lettere d’amore e fotografie con dedica da parte di una ragazza; lettere e foto che, proprio a dimostrazione dell’amore della ragazza, mostravo al commissario.
Ovviamente non era necessario che il commissario sapesse che in realtà quella ragazza era una suora.

Chiesi così di nuovo il permesso per andare a Canton e anche questa volta mi venne concesso.
Una volta in città dovetti andare dalla polizia per esporre il motivo del mio soggiorno e, in attesa delle nozze, fui affidato al direttore della squadra cittadina che praticamente mi costrinse a giocare qualche partita con loro.
Avevo una certa libertà di movimento e così riuscii ad incontrare il vescovo di Canton con il quale decidemmo di rimanere in contatto in attesa della possibilità di fuggire.

Il maledetto 12 ottobre 1955

Non scorderò mai quel giorno.
Ci arrestarono tutti: me, il vescovo e un gruppo di sacerdoti.
Fui rinchiuso in una cella piccola buia, senza acqua e senza cibo; per tutta la notte successiva venni martellato di domande sulla mia ideologia e la mia fede, ma ormai non avevo più altro da dire.
il mio destino era segnato e si chiamava deportazione.

Deportato in Manciuria

Fummo tutti trasferiti in Manciuria, quasi al confine con la Siberia.
Intorno a noi solo gelo, paura, umiliazioni e desolazione: eravamo stati spediti in un campo di lavori forzati.
Fui condannato a 5 anni: il primo periodo fu il più duro, lavoravamo nelle risaie, non avevamo praticamente niente da mangiare, ma il vero problema era il freddo che entrava dentro le ossa e non ci lasciava mai un momento di tregua.
Il 12 Ottobre 1960 la mia condanna ai lavori forzati sarebbe dovuta terminare, ma per il commissario i “progressi” che avevo fatto in quel periodo non erano abbastanza e decise che sarei dovuto rimanere ancora lì fino a quando non avessi avuto idee più conformi al regime.

La fuga

Per una serie di fortuite coincidenze, ma io credo anche con una certa voluta leggerezza del commissario politico che mi aveva comunque preso a ben volere, nel gennaio 1963 riuscii a scappare dal campo e a lasciare la Manciuria.
Nella fuga riuscii a vendere tutto quello che possedevo, soprattutto i miei vestiti che in Cina costavano tantissimo, e ad ottenere abbastanza soldi per comprare un biglietto per Canton.
Non fu un viaggio facile; fame e freddo continuavano ad attanagliarmi, ma in più c’era il terrore di essere scoperto dalla polizia.
Il viaggio durò circa 5 giorni, all’arrivo ero sfinito e solo in quel momento mi resi conto che non avevo un posto dove andare, non conoscevo più nessuno ormai.

Il miracolo di Canton

Provai ad andare all’indirizzo di casa di un mio vecchio allievo, bussai ma nessuno mi aprì. Si aprì invece una porticina alle mie spalle, dall’altra parte della strada e da cui uscì una donna.
Ancora una volta l’Angelo Custode ebbe cura di me.
La donna era la sorella di un salesiano morto in prigione, mio vecchio amico; mi aveva riconosciuto, mi invitò ad entrare, mi offrì da mangiare e un letto su cui riposare.
La mattina seguente andai alla cattedrale e parlai con un confessore, tramite lui riuscì ad entrare in contatto con la donna delle foto che anni prima si era spacciata per mia futura moglie, una suora di animo coraggioso, che mi accolse, mi diede da mangiare e qualche soldo.
Fu grazie al suo prezioso aiuto che avvenne il miracolo più grande. Informò alcuni dei miei ex alunni della mia condizione, nessuno di loro si tirò indietro, ma anzi fecero di tutto per aiutarmi. Non erano persone ricche, ma decisero comunque di fare una colletta tutti insieme per arrivare alla cifra richiesta da alcuni pescatori per portarmi verso le acque inglesi di Hong Kong.

Non li dimenticherò mai

Quando mi diedero i soldi, quei ragazzi diventati ormai uomini avevano gli occhi pieni di lacrime e di gioia.
Insieme ricordammo anche quei quindici minuti della ricreazione, quando giocavamo quelle partite a pallone che avevano scandito la loro infanzia e che ci avevano regalato momenti indimenticabili che nessuna tristezza avrebbe mai cancellato.

Li saluti con il cuore gonfio, tutti sapevamo che non ci saremmo più rivisti.

In mare

La notte del 6 febbraio 1963 mi imbarcai su una scialuppa di pochi metri.
Eravamo in 16 tra pescatori e fuggiaschi, troppi per una barchetta di quelle dimensioni.
La traversata in mare non fu facile, dovetti appellarmi a tutte le mie forze fisiche e mentali per tener duro e chiesi ancora aiuto a lui, all’Angelo Custode che non mi aveva mai abbandonato.

Arrivammo ad Hong Kong la mattina presto dell’8 febbraio 1963 e subito mi diressi verso la casa salesiana, da lì vidi probabilmente l’alba più bella della mia vita, ormai lontano da vessazioni, freddo, fame, un incubo che aveva occupato metà della mia vita.
Vedevo finalmente la parola “fine” su venti anni di sofferenza e di privazione e ringraziai il Signore per la forza della Fede che mi aveva donato.

Giuseppe Ho sacerdote
(1966. Giuseppe Ho ordinato sacerdote dal Vescovo di Salerno)

Sacerdote in Italia

Da Hong Kong sono arrivato poi in Italia accolto dalla famiglia salesiana, ho completato i miei studi e nel 1966 sono stato ordinato sacerdote dal Vescovo di Salerno.
Quello che è successo dopo nella mia vita è solo la vita di un sacerdote, uno dei tanti che hanno dedicato sé stessi a Dio e agli altri.
Una cosa però ho sempre tenuto davvero a far rimanere viva nella mia mente: le risate e i sorrisi dei miei studenti che mentre inseguivano il pallone, con il fiato affaticato e le ginocchia sbucciate urlavano “Mia!!!”.

Intendevano la palla, certo, ma anche la vita.
Come dovrebbe essere giusto per tutti.

 

Rachele Colasante nata a Roma nel 1999, da sempre incuriosita dalle storie, studia Lettere a RomaTre cercando di scrivere la sua al meglio. Ancora non sa dove la condurrà il suo percorso, ma per ora si gode il paesaggio.

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