Genio e sregolatezza. Binomio vincente, ambito da tanti, per molti inarrivabile, per altri una rincorsa, per alcuni una dote.
Dei tre casi possibili, Eugenio Castellotti – bello, coraggio da vendere e temperamento guascone – appartiene a pieno titolo all’ultimo, il più raro.
Il sogno di Eugenio Castellotti
10 Ottobre 1930. A Milano i Castellotti, famiglia di proprietari terrieri originaria di Lodi, danno il benvenuto al piccolo Eugenio che ben presto riempirà la casa di risate, giochi e amore.
Eugenio cresce in un clima di agio e di serenità; la famiglia, il padre soprattutto, prefigura per lui un futuro che passa rigorosamente per lo studio, ma presto sarà chiaro che le cose andranno diversamente.
È carino ed è simpatico Eugenio, la voglia di studiare non è il suo forte, ma guarda il mondo già con curiosità e quando arriva la nuova e imponente auto di famiglia, una Lancia Artena, il suo immaginario di adolescente ha uno scossone.
È amore a prima vista, un amore dei tredici anni, assoluto, uno di quelli che lasciano il segno.
Eugenio ha tredici anni, infatti, quando Pierino Ferrari, l’autista del padre con una coincidenza di cognome che prefigura un destino, ne diventa complice benevolente, lo fa sedere sulle ginocchia e lo lascia immaginare di guidare l’automobile.
Eugenio sfiora timidamente pedali e volante, nulla di più, ma il suo sogno inizia così.
Tra studio mancato e sogni da inseguire
Storia abbastanza comune in quegli anni, anche per Eugenio si spalancano le porte di un collegio, prima a Lodi e poi a Treviglio. Un’impresa a perdere; scapperà da tutti e due.
Non rimane che proseguire gli studi privatamente, ma in ogni caso Eugenio non arriverà mai neanche al diploma.
Erano altre le cose che lo affascinavano: battito e respiro del motore, guanti stretti al volante, piedi fissi sull’acceleratore, velocità da strappare l’aria.
Eugenio aveva un solo sogno: correre e diventare un campione automobilistico.
Il papà muore nel 1949, Eugenio è poco più che un ragazzo, guarda alla vita che ha davanti e decide di andare incontro al suo sogno.
Allora è matto!
Nel 1950 Eugenio Castellotti va a Monza, alle prove del Gran Premio d’Italia; è qui che Franco Cornacchia, suo amico, uomo avvezzo al mondo dell’automobilismo, amico di Enzo Ferrari e patron della Scuderia Guastalla, gli presenta Alberto Ascari che è già un mito.
Con gli occhi che brillano Eugenio confida al campione di voler correre anche lui.
La risposta resterà emblematica: “Allora è matto!”.
Ma ormai è troppo tardi.
Eugenio Castellotti rompe gli indugi, prende in mano il sogno, fissa bene a mente l’esempio da seguire, cioè Ascari, convince la madre a mettere da parte le preoccupazioni e si compra la sua prima macchina per correre, una Ferrari 200.
La sua carriera inizia così
Con la Ferrari 200 e con i colori della Scuderia Marzotto, il primo aprile 1951 Eugenio Castellotti è alla partenza del Giro di Sicilia; uscirà di strada sei volte. La cosa non lo scoraggia; lo stesso mese partecipa alla Mille Miglia e si classifica sesto nella sua categoria e cinquantesimo assoluto.
Si inizia a fare il nome di Castellotti, quasi sempre seguito da quello di Nuvolari, di cui si diceva ricordasse lo stile di guida, e Ascari, suo mentore in pista, ma anche fuori. Spesso si poteva vedere Eugenio indossare non solo una maglietta di lana azzurra, uguale alla sua, ma anche lo stesso casco, occhiali e i guanti, di pelle e corda traforati.
Ad Oporto, Castellotti è ancora una volta vittima di un incidente da cui esce malconcio; si rompe 5 costole e il bacino.
Al suo ritorno in pista incontra nuovamente Alberto Ascari che vede in lui un giovane determinato e di talento; il campione lo prende sotto la sua ala, così che non lo possa solo copiare nell’abbigliamento, ma che anzi, possa imparare qualcosa di più. Mantenere la calma, ad esempio.
Eugenio, stai calmo
“Eugenio, stai calmo”, diventa un mantra, una preghiera da recitare nei momenti più rischiosi.
Alberto Ascari ed Eugenio Castellotti diventano inseparabili.
Ascari durante le corse lo guardava dallo specchietto appuntandosi a mente tutto ciò che aveva da rimproverargli una volta conclusa la gara. Eugenio, fedele al suo essere ribelle, alzava le spalle, sbuffava, ma ascoltava.
Impara a copiare il maestro, trova in lui un padre da cui poter prendere il più possibile.
La signora Angela, dal canto suo, che non aveva mai smesso di essere preoccupata per l’incolumità del figlio, gli faceva solo una raccomandazione: per evitare di fare incidenti gli diceva di mettersi subito davanti a tutti.
Lui, sorridendo, cercava di accontentarla per quanto possibile.
Quando la pista non era troppo lontana da Milano, la madre andava vederlo, lo salutava dagli spalti abbozzando un sorriso, ma con il cuore in gola, convinta che se Eugenio l’avesse vista preoccupata, avrebbe smesso di essere un campione.
A chi gli chiedeva quando avrebbe smesso di gareggiare per mettere su famiglia, Eugenio rispondeva che quello non era il momento, ma che c’era da correre e che, forse, avrebbe potuto pensare di smettere solo nel caso in cui avesse conosciuto una donna davvero speciale; equilibrio fondamentae, non far parte del mondo dei motori.
La tragedia di Ascari
Il 26 Maggio 1955 alla radio echeggia una notizia: Alberto Ascari è morto in un incidente a Monza.
Ascari non doveva essere lì, non era in gara, non era in prova ufficiale.
Reduce dal terribile incidente di Montecarlo di quattro giorni prima, Ascari era andato a Monza a trovare proprio Eugenio Castellotti e Luigi Villoresi che stavano provando la Ferrari 750 in vista del Gran Premio Cortemaggiore che si sarebbe corso la domenica seguente.
Ascari non resiste alla tentazione e chiede proprio a Eugenio di prestargli da vestire; vuole fare solo un paio di giri per sentire la macchina. Non andrà oltre la prima curva.
L’Italia si stringe idealmente intorno alla famiglia del campione, ma per Eugenio Castellotti il colpo è durissimo.
L’unica cosa che può fare è tenere duro continuando ad aggrapparsi al grande insegnamento del maestro che se n’è andato via praticamente sotto i suoi occhi.
Eugenio, stai calmo diventa così ancora di più un mantra, una preghiera, una cantilena che Eugenio ripete ogni volta che entra in auto, ogni volta che stringe una curva o che un avversario gli si avvicina velocemente.
Baires. L’ultimo Gran Premio
Per Eugenio Castellotti il 1956 era stato un anno importante; buone prestazioni in Formula Uno e ottime in categoria sport, dove raccoglie la vittoria nella Mille Miglia e nella 12 Ore di Sebring.
Il fidanzamento con Delia Scala, invece, aveva fatto trovare al pilota un equilibrio importante anche nella sua movimentata vita privata.
Il 13 gennaio 1957 Eugenio Castellotti partecipa al Gran Premio d’Argentina sul circuito di Buenos Aires.
È il più veloce dei ferraristi, al terzo e all’ottavo giro è in testa, poi un problema a una ruota lo costringe al ritiro.
Torna in Italia, va a Firenze per stare vicino a Delia impegnata lì per uno spettacolo.
Modena. Ultima giro
Mentre è a Firenze lo chiama Enzo Ferrari; lo vuole all’Aerautodromo di Modena per provare la nuova 801.
Il 14 marzo con la sua maglia di lana azzurra, proprio come quella che scaramaticamente Alberto Ascari indossava ogni volta che si metteva al volante, Eugenio è in pista.
È bella e potente la 801, risponde bene . Almeno fino a quando, simbolicamente, non cala il buio.
Al terzo giro di pista, Eugenio perde il controllo della vettura, esce di pista e si schianta contro un cartellone pubblicitario.
Eugenio Castellotti muore così a 27 anni. Troppo presto per tutto quello che ci avrebbe potuto dare.
Muore in prova, proprio come il suo amico e Maestro Alberto Ascari.
Muore per mano del suo sogno, che forse è il modo migliore per andarsene.
Come per Ascari, un pianto corale lo saluta.
Nelle interviste del tempo, Eugenio Castellotti ricordava spesso di quella volta che, mentre correva una Targa Florio, fu colpito in viso da un quaderno lanciato da chissà chi.
Una volta all’arrivo si prese la briga di verificare se sul quaderno vi fosse per caso il nome del proprietario.
Ne trovò ventidue e, per ogni nome, una poesia che lo completava.
Poesie scritte per lui da ventidue alunne di un Istituto Femminile.
È bello pensare che ovunque sia andato dopo quel 14 marzo, Eugenio Castellotti abbia trovato tempo e modo per rileggerle tutte.