È andata così.
Soprattutto è andata come non avrei mai immaginato.
È andata che quando la mia famiglia si è trasferita a Verona, in città, per me che ero abituata all’aria e agli spazi della campagna, è cambiata la vita.
Non potevo saperlo, ma quella sarebbe stata solo la prima, perché la vita non cambia mai una volta sola.
Ero piccola, avevo 7 anni, timida quanto basta e forse anche per un fatto generazionale i miei sogni si chiamavano pittura e danza, sogni che riempivano le mie fantasie e che coltivavo seguendo lezioni di una e dell’altra.
Ero piccola, ma crescevo un pochino di più delle altre bambine, forse solo un pochino prima delle altre pensavo io, ma in effetti non fu così.
Il fatto è che mentre mi cullavo nel sogno di un debutto da étoile, il mio crescere di più e anzitempo mi portò invece a fare altro, un altro talmente grande che avrebbe riempito la mia vita.
Fu la mia maestra a portarmi al campo la prima volta.
Era il 1966
Per venti anni quel campo e tutti i campi e le piste dove poi sono stata, sarebbero stati la mia casa e la mia famiglia e questo non è un semplice modo di dire, perché è così che ho incontrato Erminio Azzaro, atleta anche lui, più volte primatista italiano di salto in alto, mio allenatore, ma soprattutto l’uomo che ho sposato.
Venti anni di agonismo che da bambina alta un po’ di più delle altre, troppo per la danza, ma con le gambe giuste per provare a volare, ho attraversato con il fiato in gola, la rincorsa, lo stacco e gli occhi a guardare dentro al cielo ogni volta che saltavo, davo le spalle alla terra e aspettavo l’atterraggio.
Occhi dentro al cielo, sì, ma non da subito, perché quando io ho iniziato si saltava a forbice o di pancia e il salto in alto era quasi un altro sport rispetto a quello che a breve sarebbe diventato.
Il 1968 era dietro l’angolo e tra le tante rivoluzioni annunciate, una arrivò davvero; la fece un ragazzo, lui, da solo, un dinoccolato ragazzo dell’Oregon, Dick Fosbury, che alle Olimpiadi di Città del Messico salta di schiena, vince l’oro, impone il suo stile e cambia per sempre il salto in alto.
Iniziai anche io a saltare con il Fosbury Flop.
Mi allenavo, lo facevo con passione, mi divertiva un mondo farlo e se il 1968 ha cambiato per sempre il salto in alto, è il 1970 a segnare la direzione definitiva della mia vita.
Avevo diciassette anni, età complicata, di passaggio e io, il mio passaggio, lo faccio veramente; in pochi mesi, dal maggio al settembre, tra la fine della primavera e la fine dell’estate, miglioro per cinque volte il primato italiano e lo porto da 1,70 a 1,75.
Non mi fermerò più.
Negli otto anni seguenti lo migliorerò per ventiquattro volte e alzerò l’asticella di 30 centimetri fino a saltare, nel 1978, i 2,01 per due volte di seguito, prima a Brescia e dopo tre settimane a Praga; record italiano imbattuto fino al 2007, ma anche record mondiale imbattuto per quattro anni.
Tante gare, in Italia, in Europa e la prima medaglia arriva in una terra di confine, dove Europa e Asia iniziano a toccarsi; a Izmir, in Turchia, nel 1971 sono argento alle Universiadi.
Ci siamo quasi
Le Olimpiadi arrivano l’anno seguente e Monaco ’72 è un altro momento importante della mia vita.
Erminio ha iniziato da poco a seguirmi come allenatore, non ho ancora vent’anni, respiro per la prima volta l’aria olimpica, adrenalina pura, emozione, mi piazzo sesta, non è male, ma soprattutto non è male migliorare in una volta sola e di cinque centimetri il primato italiano, che attesto a 1,85.
Monaco ’72 è però anche altro: undici atleti israeliani non tornano a casa e lo smarrimento del giorno dopo l’attentato, il silenzio calato sul villaggio olimpico, le partenze alla spicciolata una volta terminata ognuno la propria gara, sono una macchia scura impressa nella memoria.
Il mio percorso olimpico inizia così, nel chiaroscuro di emozioni che hanno passato indenni il tempo.
Nel 1976 è la volta di Montreal, dove salgo il primo podio olimpico; guadagno l’argento, in un cardiopalma rischio di vincere l’oro che invece andrà a Rosemarie Ackermann, ma sono felicissima e negli anni a seguire con Rosemarie dividerò sfide infinite.
Nel 1980 Mosca è tutta un’altra storia.
Arrivo caricatissima.
Le Olimpiadi sono surreali, il boicottaggio alla Russia per l’invasione dell’Afghanistan impone misure rigide, niente inno, niente bandiera, niente giochi di squadra, ma io non ci faccio caso perché quando sono in pista, quando misuro i passi, quando fisso l’asticella che sembra sospesa nel vuoto, la squadra sono io, io con le mie emozioni, le mie paure, le mie rivalse, i miei sogni e le mie sfide.
A Mosca, con i miei 2,01 saltati a Brescia il 5 agosto del 1978, arrivo con il record mondiale.
A Mosca la donna da battere sono io, ma ho un’arma segreta.
Loro non lo sanno, ma quella medaglia ho deciso di prendermela.
Il destino ha i suoi disegni, salto 1,97 stabilisco il record olimpico, la medaglia me la prendo per davvero e in quel gesto, quello ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, passato e ripassato impossibile sapere quante volte, in quelle mie braccia alzate al cielo, in quel toccare il tappeto e rialzarmi in un attimo per liberare tutto quello che avevo dentro, per ringraziare in un attimo tutto quello che avevo vissuto fino ad allora e che lì mi aveva portato, i campi, le piste, i sacrifici, le gioie, l’euforia e l’amore, in quel gesto, in quelle braccia che il cielo lo stavano toccando per davvero, c’ero tutta io.
Toccare il cielo
Nel 1984 a Los Angeles miglioro il mio record olimpico, salto l’asticella a 2 metri, ma non basta.
Le Olimpiadi di Los Angeles sono sotto il segno di Ulricke Meyfarth, atleta straordinaria che salta 2,02, segna il nuovo record olimpico, ma soprattutto vince il suo secondo oro a distanza di dodici anni dal primo, quello di Monaco; nessuno ha mai più fatto come lei.
I miei 2 metri sono una sorpresa, per me anzitutto, mi portano l’argento e sono felicissima perché toccare il cielo è sempre una sfida con se stessi e io l’avevo giocata fino in fondo.
Passata l’euforia, torno alla vita delle piste, degli allenamenti e delle gare fino a Stoccarda, nel 1986, dove salto ancora, ma per l’ultima volta.
Sara è diventata grande
Il mondo intorno a me è cambiato, l’atletica è cambiata e i miei anni anche.
Decido di lasciare.
Ci vuole forza per farlo, ma io ho toccato il cielo, ho liberato i miei pesi ogni volta che ho saltato, ora la sfida è diversa, ma l’euforia, quella che non mi ha mai abbandonato prima di ogni gara, è la stessa e allora, via, contiamo i passi, sentiamo cuore, anima e respiro e via, rincorsa, staccare, saltare, occhi al cielo, inizia una nuova vita.
Una nuova vita in cui non sono tanto le gare a mancare, ma l’allenamento, la pratica quotidiana con la sua disciplina e quella sua scansione del tempo dove incardini il ritmo di giornate che diventano anni.
Ci sono momenti nella vita in cui bisogna avere un segreto da parte o un trucco da spendere, chiamatelo come volete.
Quello che posso dire è che quando una vita ricomincia, per i mille motivi per i quali questo può accadere, il segreto o il trucco, è guardare al futuro, immaginarlo, accarezzarlo e provare ad andarci dritti dentro.
Io l’ho fatto, ma sono stata aiutata.
Parlare al futuro
L’ho fatto iniziando a insegnare, e se c’è una cosa che ti aiuta e permette di parlare al futuro è proprio insegnare.
L’allora presidente della Fidal, Primo Nebiolo, mi chiese di seguire i giovani del Club Italia, poi ho insegnato alla Facoltà di Scienze Motorie di Chieti e infine sono tornata nei miei luoghi, dove tutto è iniziato, e sul Garda ho insegnato a bambini di elementari e medie.
Ho insegnato, ho imparato, mi sono divertita e penso di aver fatto divertire anche loro, perché se esiste un modo per trasmettere dei valori, i valori belli dello sport, quelli del rispetto degli altri e del proprio talento, della competizione con se stessi, del miglioramento rincorso e sudato, quel modo passa sicuramente attraverso la capacità di far sorridere.
Io i miei ragazzi li ho fatti sorridere perché solo così potevo riuscire a farli saltare tutti, alti e bassi, bravi e non bravi, magri o con qualche chilo di troppo, tutti lì, ognuno a misurare i passi, provare la rincorsa, staccare, saltare e fissare gli occhi al cielo incuranti dell’atterraggio e della terra che si lasciavano alle spalle.
È andata così
La ragazza cresciuta prima del tempo e con le gambe troppo lunghe per danzare, ha saltato e ha toccato il cielo.
Soprattutto, ha fatto saltare tutti.