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Il rigore più lungo del rigore più lungo del mondo

Photo credit: Jonathan Greenaway

Nel suo volume di racconti Cuentos de los años felices, uscito nel 1993 e tradotto in Italia nel ’95 con il titolo Pensare con i piedi, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano (1943-1997) inventò un’epica e sgangherata partita di calcio in Patagonia, durante la quale venne battuto «Il rigore più lungo del mondo», titolo dell’omonimo racconto, considerato da molti il più bello mai scritto sul calcio.

È la storia della sfida tra due squadre immaginarie, l’Estrella Polar e il Deportivo Belgrano, per vincere un campionato minore. La Estrella, che gioca fuori casa, conduce per 2 a 1 ma all’ultimo minuto l’arbitro fischia un rigore inesistente per i padroni di casa. Rissa sugli spalti, invasione, spari in aria, partita sospesa. Appuntamento la domenica successiva, cancelli chiusi e solo venti secondi per battere il rigore, che verrà parato dal mitico portiere indio Gato Diaz. «Così quel rigore durò una settimana – scrive Soriano – ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia».

Poiché la realtà spesso supera la fantasia, specialmente quando si parla di calcio sudamericano, Soriano è stato smentito sul campo. È successo nell’aprile del 2003, quando l’autore era prematuramente scomparso già da sei anni, e non nella lontana Patagonia bensì in un campetto periferico della Grande Buenos Aires. Per motivi che sono realisticamente descritti nel racconto che segue, la partita di terza categoria fra Defensores de Cambaceres e Atlanta venne rinviata per invasione di campo nel momento in cui si doveva battere un rigore; e poi ripresa ventiquattro giorni dopo, su campo neutro, proprio con la trasformazione di quel rigore, al quale sono poi seguiti i restanti nove minuti di gioco.

Dunque se da un punto di vista letterario il “rigore più lungo del mondo” resta senza dubbio quello della sfida patagonica tra Belgrano e Estrella Polar; nella realtà il penalty che ha deciso la sfida Cambaceres-Atlanta è durato tre volte tanto. E sono sicuro che Soriano, se avesse potuto assistere a quello stralunato epilogo di gara, si sarebbe divertito un mondo.

Questo racconto è stato scritto nel quindicesimo anniversario della sua scomparsa, ricorrenza che cadeva il 29 gennaio 2012.

Il piccolo impianto dell’Argentino di Quilmes sembrava lo scheletro di un dinosauro estinto, una carcassa abbandonata fra terreni incolti e piccoli capannoni lasciati in balia della ruggine. La tribuna coperta era in legno, sullo stile degli stadi inglesi Anni Trenta, e rimandava a tempi migliori e a partite ben più gloriose. Pur essendo minuscola appariva deserta, malgrado gli sforzi di un centinaio di tifosi dell’Atlanta di animarla con canti e striscioni. Ce n’erano altrettanti al di fuori del recinto e molti di più in giro per Buenos Aires, sintonizzati su Radio AM 570.

Quel giorno allo stadio si entrava solo su invito, come a una festa di laurea o di compleanno. Ed erano ammessi appena un centinaio di sostenitori gialloblù; quelli del Defensores de Cambaceres li avevano tenuti alla larga, dopo gli incidenti di ventiquattro giorni prima. Poi c’erano i dirigenti dei due club, gli accompagnatori, i giornalisti. In tutto non si arrivava a centoventi spettatori, appollaiati sulla tribunetta al riparo da una pioggerellina fine ma intensa, tipica del precoce autunno australe. Il campo era allentato, spiegava con un eufemismo il radiocronista alla sua platea invisibile. In realtà in alcuni punti si era già trasformato in palude, ma nessuno si preoccupava: in fin dei conti la faccenda sarebbe finita in fretta. Tempo di battere un rigore e di giocare i nove minuti rimanenti.

C’era anche Adalberto Hernandez, che tutti chiamavano El Flaco, il magro. A dire il vero a scuola gli avevano dato il soprannome di Orejudo, per via delle orecchie a sventola. Ma poi Adalberto s’era fatto crescere i capelli per nascondere gli scomodi padiglioni auricolari, tanto da riuscire a far dimenticare quel nomignolo sgradevole. El Flaco stringeva i suoi vent’anni in un giubbotto troppo leggero per impedirgli di sentire i brividi. O forse era l’emozione a giocargli un brutto scherzo.

Da alcuni mesi collaborava con uno dei più importanti quotidiani argentini, anche se per il momento si limitava a telefonare in redazione i tabellini e dieci righe di cronaca delle partite di Primera B Metropolitana, la terza categoria. Era stato lui, ventiquattro giorni prima, a comunicare il pasticciaccio avvenuto nello stadio «12 de Octubre» di Ensenada, sobborgo della Grande Buenos Aires. A nove minuti dalla fine dell’incontro tra Defensores de Cambaceres e Atlanta, decisivo per la salvezza di entrambe, proprio quando la gara sembrava incanalata verso l’inevitabile 0 a 0, l’arbitro Alejandro Toia aveva fischiato un rigore a favore degli ospiti.

Un rigore dubbio, anzi inesistente. Dalla tribuna tutti avevano visto che la palla era schizzata sulla pancia del difensore, e non contro il braccio. Ma la giacchetta nera era stata irremovibile di fronte alle proteste dei giocatori del Cambaceres. La sua fermezza era vacillata soltanto quando aveva notato decine di ultras locali aggrappati alla recinzione del campo di gioco e dagli spalti erano piovute raffiche di insulti alla sua mamma, seguite poi da virulenti cori antisemiti rivolti ai giocatori dell’Atlanta, club da sempre considerato espressione della comunità ebraica porteña. Quando poi aveva visto i primi scalmanati oltrepassare la cancellata, Toia non aveva avuto esitazioni e se l’era data a gambe verso gli spogliatoi, seguito a ruota dai giocatori dell’Atlanta. Il pallone era rimasto lì per un paio di minuti, abbandonato sul dischetto del rigore, fino a quando non era stato travolto dalla rabbia dei tifosi.

Partita sospesa, campo del Cambaceres squalificato, ricorsi e controricorsi agli organismi federali, articoli sui giornali, trasmissioni televisive contro la violenza nel mondo del calcio. Alla fine, a ventiquattro giorni dal fattaccio, la Federazione aveva deciso di far terminare la partita in terreno neutro e a porte chiuse, ad eccezione di cento spettatori direttamente invitati dalla dirigenza dell’Atlanta, giacché i tifosi del club di Ensenada erano stati banditi dalla gara.

Il redattore capo dello sport aveva detto al Flaco:

– Occupati come sempre dei tabellini, vista l’importanza dell’evento abbiamo deciso di mandare un inviato.

E il Flaco aveva risposto:

– Va bene.

Anche se in cuor suo aveva coltivato la speranza di poter scrivere l’articolo principale, o almeno le interviste negli spogliatoi. Aveva poco più di vent’anni ma conosceva già le regole del gioco: collaborava al giornale da sei mesi, gli dicevano che era bravino ma sapeva benissimo che la gavetta sarebbe stata ancora lunga. Per cui, in quel pomeriggio piovoso di fine aprile, si era seduto in tribuna tenendo un posto vicino a sé per l’inviato del giornale. Non gli avevano detto chi avrebbero mandato. Forse Hugo De La Peña o Gerardo Biondini, che di solito seguivano le categorie inferiori. O magari inviati di punta come Enrique Discépolo o Roberto Goyeneche, che lui aveva visto soltanto nelle trasmissioni sportive in televisione.

Mezz’ora prima dell’inizio, Adalberto vide avvicinarsi un tipo sulla sessantina. Era corpulento, con pochi capelli e la barba incolta e camminava con un’andatura un po’ caracollante. Tra le labbra teneva un mezzo sigaro al quale ogni tanto dava un tiro, per impedire che si spegnesse.

– Sei tu il Flaco Hernandez?

Il giovane cronista si alzò in piedi per dargli la mano, ma non riuscì a comprendere il nome che l’altro gli farfugliò, mentre lo salutava. Non era Discépolo né Goyeneche, e neanche De La Peña o Biondini. Non l’aveva mai visto in televisione né ascoltato alla radio. Uno sconosciuto. L’altro gli fece un sorriso, mentre completava la frase:

– … ma dammi pure del tu e chiamami Gordo, come fanno tutti. Suona bene, no? El Gordo y El Flaco, come Stanlio e Ollio…

Adalberto non capì se voleva prenderlo in giro o soltanto rompere il ghiaccio, ma ricambiò il sorriso. Dietro al Gordo c’era un altro uomo, pure lui abbastanza anziano agli occhi di un ventenne. Indossava un soprabito beige e fumava una sigaretta.

– Lui è Giovanni, un amico italiano. Ma se vuoi puoi chiamarlo Arp.

– È anche lui giornalista?

– In un certo senso. E scrive di calcio.

– Non mi dire che questa storia del rigore interessa anche ai giornali italiani?

Il Gordo sorrise di nuovo, dando una boccata al sigaro.

– No. Era qui in visita e non sapeva cosa fare, allora me lo sono portato dietro.

Lo scampolo di partita stava per iniziare. Seguito dalle due squadre, l’arbitro Toia entrò in campo. Nessuno fece caso ai suoi occhi che, tradendo un po’ di paura, scrutavano gli spalti vuoti per sincerarsi che non ci fosse in circolazione neppure un tifoso del Cambaceres. Anziché avviarsi in direzione del cerchio di centrocampo, il giudice di gara fece rotta verso una delle due porte, collocò il pallone sul dischetto del rigore e attese che il portiere Cèsar Gonzàlez prendesse posto fra i pali. Poi si rivolse a Lucas Ferreiro, il numero 10 dell’Atlanta, l’uomo incaricato della trasformazione, e gli fece cenno di attendere il suo fischio.

Nel silenzio irreale dello stadio semideserto si udivano solo le grida dei pochi tifosi gialloblù e le frasi a raffica del commentatore radiofonico, che non avendo a disposizione una cabina chiusa irradiava la sua cronaca in tutta la tribuna. Il Flaco rivolse lo sguardo verso il Gordo e Arp, che continuavano a fumare imperterriti. Notò che l’inviato non aveva neppure un taccuino per prendere appunti, ma non osò offrirgli il suo.

– Tengo tutto a mente – disse il Gordo, come se gli avesse letto il pensiero. – Tanto per il tabellino ci pensi tu, vero?

Adalberto fece segno di sì con la testa, chiedendosi come diavolo avesse fatto il tipo a indovinare quel che stava pensando. L’inviato gli fece l’occhiolino e soffiò una boccata di fumo.

Flaco, lascia che ti insegni un trucco che forse ti sarà utile per fare questo mestiere. Portati sempre dietro il taccuino e prendi appunti, per un giornalista è come la copertina di Linus: dà sicurezza nei momenti di difficoltà. Ma se vuoi capire come va il mondo, che tu stia seguendo una partita di calcio o un discorso del presidente della Repubblica, guardati attorno, osserva la gente, cerca di comprendere cosa desidera e di cosa ha paura. E poi pensa sempre con la tua testa.

Dalla tribuna si udì chiaramente il fischio dell’arbitro Toia. Lucas Ferreiro prese una breve rincorsa, evitò una pozzanghera e calciò forte alla sinistra del portiere. La palla gonfiò la rete, scatenando il tripudio nella pattuglia di tifosi dell’Atlanta, mentre il radiocronista ululò il tradizionale «Goooooooooooooolllllllllll!!!». Il Gordo annuì serafico, continuando a mordicchiare l’estremità del sigaro, mentre Arp si accendeva un’altra sigaretta.

Il giudice di gara rimise la palla al centro, controllò il cronometro e diede il via agli ultimi nove minuti di fuoco. Perso per perso, il Cambaceres si riversò nell’area avversaria alla ricerca del gol del pareggio. Una sconfitta, infatti, l’avrebbe risucchiato verso il fondo della graduatoria; mentre al contrario per l’Atlanta, ormai vicina al fanalino di coda, i tre punti avrebbero significato una salutare boccata d’ossigeno. I rossi si buttarono avanti come indiani all’assalto di Fort Apache, facendo fioccare cross dalle fasce laterali e confidando nelle terribili mischie sotto porta. E i gialloblù dell’Atlanta si difendevano come gli irriducibili del 7° Cavalleggeri del generale Custer, spalla contro spalla, tentando di prendere a calci qualsiasi cosa capitasse loro a tiro. E pazienza se era il pallone.

A una manciata di minuti dalla fine, la resa sembrò inevitabile: l’attaccante Chiapetta del Cambaceres si presentò a tu per tu con l’estremo difensore Barrera, ma quest’ultimo, con un riflesso prodigioso, mandò in calcio d’angolo il tiro destinato a insaccarsi in rete. Urla di giubilo, bestemmie, sfottò e disperazione. Ancora una volta nell’arco di pochi istanti il fùtbol sembrò distillare le sensazioni di una vita. Ci fu giusto il tempo per un paio di mischioni in area, poi l’arbitro Toia fischiò la fine.

– Bella partitella – commentò Arp in italiano, accendendosi l’ennesima sigaretta.

Il Gordo ridacchiava, infischiandosene del baccano dei tifosi dell’Atlanta e dell’andirivieni degli altri giornalisti in tribuna. Poi si rivolse al Flaco:

– Vai a telefonare al giornale.

– Pensavo dovessi farlo tu – rispose timidamente Adalberto.

– No, chiama tu. E ricordati, Flaco: pensa sempre con la tua testa.

Il giovane cronista si precipitò in sala stampa, alla ricerca di un telefono lasciato libero dagli altri reporter sportivi delle testate minori, che come lui non avevano a disposizione un cellulare. Dopo cinque minuti ne trovò uno libero e si attaccò alla cornetta.

– Hernandez, è mezz’ora che ti cerco ma in quel cazzo di stadio non ti conosce nessuno! – gli gridò il redattore capo dall’altro capo del filo – Volevo dirti che Goyeneche ha avuto un problema grave, un incidente d’auto. Ci ha chiamato dall’ospedale, ha un colpo di frusta. E non abbiamo fatto in tempo a mandare nessun altro.

– Ma… qui c’il Gordo!

– E chi il Gordo, un amico tuo? Senti, non farmi perdere tempo: ci serve un bel pezzo di cinquanta righe più altre trenta di intervista dagli spogliatoi. Oh, guarda che siamo nelle tue mani, eh! Il direttore voleva mettere l’articolo in prima, se l’avesse scritto Goyeneche. Magari se non ci mandi proprio una schifezza riesco a convincerlo a non cambiare idea, hai capito?

– Sì, va bene. Ma cosa dico al Gordo? È in tribuna, con il suo amico italiano…

– Dì un po’, Flaco: hai bevuto? Chi cazzo è ‘sto Gordo di cui vai blaterando? Mettiti al lavoro e non fare stronzate, mi raccomando. Ci servono i due pezzi al più tardi per le sette. Ora vai, porco mondo, e mandaci qualcosa di pubblicabile!

Il Flaco Hernandez rimase per alcuni istanti con la cornetta appiccicata all’orecchio, senza capirci più niente. Poi agganciò e si chiese come diavolo avrebbe fatto a dire al Gordo che i pezzi li avrebbe dovuti scrivere lui. Risalì lentamente gli scalini fino alla tribuna, ma quando arrivò alla sua postazione non vide più nessuno. Né il Gordo né il suo amico italiano. Si grattò la capoccia, ancor più confuso.

– Hai mica visto dove sono andati quei due tizi che prima stavano con me? – domandò al collega di un giornaletto di Ensenada.

– Quali tizi?

– Quei due che erano seduti qui. Il tipo grassottello con il sigaro e il suo amico italiano, con l’impermeabile beige.

– Ma che stai dicendo, Flaco? Lì non c’era seduto nessuno. Sei scemo o hai voglia di prendermi in giro?

– Ma non puoi non averli visti! Erano seduti qui, hanno guardato la partita insieme a me… Quei due che fumavano sempre…

– Ma vai a farti fottere! Dovevo capirlo che eri un po’ matto, vedendoti parlare da solo.

E se ne andò con aria scocciata.

Adalberto Hernandez si lasciò cadere sul seggiolino dello stadio, distrutto. Non sapeva nemmeno più cosa pensare, se non che di lì a poco avrebbe dovuto scrivere cinquanta righe di articolo e altre trenta di intervista dagli spogliatoi. Aprì il taccuino. Erano annotati soltanto le formazioni delle due squadre e uno scarno elenco degli episodi salienti, con a fianco i minuti di gioco. Non ce l’avrebbe mai fatta a imbastire un pezzo da cinquanta righe che meritasse di finire in prima pagina. E neanche nelle pagine dello sport locale, forse.

Fu allora che notò i due libri. Erano appoggiati sui seggiolini dove poco prima stavano seduti il Gordo e Arp. Il Flaco li prese in mano, incuriosito. Il primo era un volume di racconti di tal Osvaldo Soriano, intitolato Cuentos de los años felices. Aprì il libro in corrispondenza di una pagina con l’orecchietta all’angolo e il titolo del racconto gli provocò un brivido lungo la schiena: «Il rigore più lungo del mondo». Gli girava la testa e per un attimo fu costretto a chiudere gli occhi e a respirare profondamente. Poi afferrò l’altro libro. Era scritto in italiano e s’intitolava Azzurro tenebra. Lesse il nome dell’autore, ma già immaginava: Giovanni Arpino. Arp

Deglutì, ma aveva la gola secca e sentiva le mani che gli tremavano. Osservò l’orologio cinese che portava al polso: erano già le cinque passate. Aveva meno di due ore per andare negli spogliatoi a intervistare i protagonisti e per scrivere i due pezzi. Prese i libri e si precipitò dabbasso.

Un’ora più tardi, nella sala stampa fumosa e affollata di cronisti, cominciò a buttare giù l’articolo, sbirciando di tanto in tanto i due volumi che teneva lì vicino. Si sorprese a sorridere, come di rado gli capitava. Il pezzo sarebbe finito in prima pagina.

Nota dell’autore
Osvaldo Soriano e Giovanni Arpino si conobbero nel 1977, prima per via epistolare e poi di persona, quando El Gordo (a quei tempi in esilio in Belgio e poi a Parigi) si recò a Torino per incontrare uno degli scrittori che più aveva contribuito a farlo conoscere in Italia. Rimasero in contatto per dieci anni, fino alla morte di Arpino nel 1987. Il carteggio fra i due scrittori è stato pubblicato nel volume Bracconieri di storie, a cura di Massimo Novelli (edizioni Spoon River).

Giorgio Ballario (Torino, 1964) è giornalista del quotidiano La Stampa. È autore di racconti pubblicati in varie antologie e di dieci romanzi noir, tra i quali cinque della serie “Morosini indaga”, ambientati nelle colonie italiane in Africa negli anni Trenta e pubblicati da Edizioni del Capricorno. Insieme ad altri scrittori nel 2014 ha fondato Torinoir, associazione di giallisti, che nel 2018 e 2019 ha organizzato a Bardonecchia il festival “Montagne in noir”.

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