Novanta candeline sulla torta di una leggenda dello sport italiano. Il nostro più grande marciatore di tutti i tempi. Abdon Pamich, nato a Fiume il 3 ottobre 1933. Giocava a calcio, buon portiere. Amava la boxe e sognava il ring. Canottiere, ma il doppio con il fratello sapeva che non sarebbe potuto durare a lungo. Alla fine sceglie la corsa, anzi la marcia e più si va lontano meglio è. Non lo dice, ma quando un giornale scrive: “Vittoria del marciatore fiumano“, lui è felice. E già, Abdon è di Fiume, pochi sanno dov’è e la sua storia.
Lui la racconta così, di rabbia, strappando a due mani il filo di lana sul traguardo dello stadio Olimpico di Tokyo.
“A me piaceva la boxe. A Fiume c’era la palestra di mio zio Cesare. Il pugilato è una scuola di vita che insegna a rispettare gli avversari e dominare sé stessi. Dovevo aspettare i 14 anni per cominciare, sognavo un giorno di combattere al Teatro Fenice e seguire le orme del mio idolo, Ulderigo Sergo, peso gallo, oro a Berlino. Invece, a 13 anni, 13 anni ed undici mesi, lasciai casa. Lasciammo casa.”
Come centinaia di migliaia di Giuliano Dalmati
La marcia di Abdon Pamich comincia così. 1947, campo profughi. Marciare è il suo destino, per avvicinarsi. A Melbourne ’56 è quarto, a Roma ’60 medaglia di bronzo, a Tokyo ’64 tocca a lui. Si prende l’eredità di Giuseppe Dordoni, l’oro di Helsinki, al termine di una prestazione straordinaria, 50 km in 4 ore, 11 minuti e pochi secondi, quattordici minuti più veloce del record olimpico del britannico Thompson quattro anni prima. A Tokyo fa freddo e piove, il sovietico Agapov parte forte da lontano, da troppo lontano. Già al km 15 è corsa a due tra il fiumano ed un altro britannico, Paul Nihill, ragazzone dell’Essex. Al rifornimento, gli organizzatori sistemano bibite ghiacciate, quando il meteo avrebbe richiesto qualcosa di tiepido se non caldo. Abdon accusa dolori intestinali lancinanti, tiene botta, cerca di non far trasparire nulla dal volto, ma è costretto a fermarsi quando mancano 12 km all’arrivo. Nihill allunga, mezzo minuto, forse uno, Pamich riparte libero e più determinato che mai. Aggancio e sorpasso deciso, definitivo ai 3 km. Abdon si volta prima di prendere il volo, vede il britannico farsi piccolo, vede il suo passato, marcia più forte delle sconfitte, dei soprusi, degli incidenti di percorso. Poi guarda avanti e spezza, con tutta la forza che ha, il nastro che lo introduce nell’Olimpo.
Novanta anni il 3 ottobre, Auguri Abdon!
Da ragazzo a Fiume, Abdon non ci pensa alla marcia. Studia, nuota, va in barca, va in montagna. E cammina quello sì, per ore e senza stancarsi. Si va fuori dall’alba al tramonto, verso il Nevoso ed il Corno e ci si diverte da matti. Ragazzo normale di una città normale, più bella con le sue tante anime. Italiana la gran maggioranza, si parla dialetto, ma anche italiano, ungherese, croato, tedesco. E si balla, si gioca insieme fino ai giorni dell’odio prima e dell’oblio poi. Camminare diventa andare via e fortunato chi può. Da Trieste a Novara ed infine Genova. Lenticchie e riso ogni benedetto giorno. Per non marcire, Abdon segue il fratello, vuole fare la corsa campestre ma prova la marcia. La tecnica non è facile da apprendere, il primo tentativo è deprimente, forse proprio per questo scatta la sfida, il desiderio di riprovare. La rivincita è cosa sua, cosa da fiumani dentro.
Vittorie e sconfitte
Marciare e pensare. Abdon è un profugo, tecnica pulita, coscienza pulita. Non può dire altrettanto chi imbroglia, nasconde le foibe, la tragedia dell’esodo, le vessazioni imposte da chi avrebbe dovuto accogliere ed invece rovescia il latte, getta fango, bolla ed etichetta. Abdon marcia e vince, parla poco, vince tanto. Il suo palmares dice oro e bronzo su cinque olimpiadi, portabandiera nel 1972, due volte campione europeo, quaranta titoli nazionali, una coppa del mondo e primatista mondiale nel ’61 con 125 giri di pista all’Olimpico di Roma che gli tributa un’ovazione che nemmeno piedone Manfredini quando, due ore dopo, raddrizza la partita (15 novembre, Roma – Torino 2-2.
Straordinario atleta, straordinario testimone
Mai smesso di marciare, mai smesso di raccontare. Papà dirigente d’azienda, mamma Erenia con quattro figli da far crescere. Abdon vuol dire servo del signore. È settembre di quel buio ’47 quando, in piena notte, Abdon ed il fratello si incamminano direzione Trieste. Non farà l’istituto nautico, non tirerà di boxe, non rivedrà Fiume per trenta anni. Non la riconosce, sapeva di non riconoscerla, straniera lei, straniero lui. Ricordava le fabbriche, i tabacchi, la cartiera, la raffineria, l’allegria. Trova turismo e barche di lusso. Cerca la sua casa, sa che non può più essere in via delle CC.NN., si ferma ad ascoltare nonna e nipotino per strada, si emoziona ritrovando il dialetto.
Ingoia rospi anche dallo sport. A Melbourne la Federazione lo sottopone a spostamenti ed impegni senza senso, compromettendo la prestazione. A Roma, deja vu, la marcia viene bistrattata, nonostante il contributo storico al medagliere olimpico. Abdon vede tutto, elabora la sconfitta ed aspetta. Sa come si fa. Una vita spesa così. A Tokyo tiene botta dopo quattro vaccinazioni, supera l’insidia del tè freddo, entra da solo nello stadio e solo davanti al canto degli Italiani la commozione vince su di lui.
Sempre in marcia
Auguri Abdon, di cuore. Hai vinto con la tua testimonianza del ricordo, della nostra gente, del tuo e del loro vincere più grande. La marcia è cambiata, è cambiata la tecnica, ora vanno in sospensione, strade e scarpe migliori. L’Italia anche è un po’ cambiata, ci piace pensare, qualcuno ancora strappa pagine dal libro della storia, per conservare e negare pro domo chissà chi, invece tu ci hai insegnato “la storia più si diffonde meglio è“.
Abdon Pamich la storia l’ha fatta e raccontata. Abdon ha marciato contro il pregiudizio, divertendosi. La sua disciplina, innaturale per certi versi, ma tutta costanza ed armonia, richiede di non perdere mai il contatto con il terreno con almeno uno dei due piedi.
Metafora della sua vita, marciare per non morire mai, con le ali sotto ai piedi ma saldi al terreno.
Auguri e tanta strada, Abdon.
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