Un altro mondo. Non si può immaginare ora una partita di calcio senza sostituzioni in corso d’opera.
Eppure all’edizione numero otto dei mondiali, quelli de “la regina d’Inghilterra era Pelé‘”, la regola ancora vige, senza scandalo, solo qua e là qualche voce avanti con i tempi.
Lo sappiamo bene. Lo ricordiamo bene. Era il 1966. Italia, noi. Nord Corea, loro.
Sì, lo ricordiamo bene.
Azzurro tenebra
Non c’erano sostituzioni, ma l’Italia quel martedì 19 luglio a Middlesbrough ci mette tanto altro di suo. Scelte, atteggiamento, due palle goal divorate in apertura, e soprattutto sì, l’infortunio di Giacomo Bulgarelli, fuorviante quattro sulla maglia, ma piedi da dieci puro. Si fa male Bulgarelli, si fa male e per davvero, al quel ginocchio che, si dice, qualche segnale di preoccupazione lo dava da giorni.
Restiamo in dieci e, tempo otto minuti, vediamo il loro numero sette sfrecciare su un pallone recuperato in anticipo di testa dalla linea mediana e, appena dentro l’area, incrociare di destro e trovare l’angolo. L’angolo, sì, l’angolo dove il buon Albertosi non può proprio arrivare. Dobbiamo raddrizzarla, ne siamo capaci, aspettiamo qualcosa da Mazzola, Rivera, Barison, dalla buona sorte, da Eupalla. Niente, nel secondo tempo nessuno tira fuori nulla di buono. Sbiaditi in campo e silenziosi dalla panchina, dove la sconfitta è sulle labbra asciutte del mister, povero Edmondino Fabbri.
La verità è che i coreani sembrano di più, anzi lo sono
Loro sono undici e noi dieci. Chi esce non si sostituisce, lo abbiamo detto. C’è di più, però. Loro sono dodici. Ci sono i 25.000 di Ayrosome Park a sostenere le loro folate a tutto campo. Sarà la maglia rosso Boro, sarà che sono gli underdogs, sarà che Downing Street non li voleva qui, è soprattutto vedere il cuore buttarsi oltre l’ostacolo.
E così noi di ritorno a Genova male male, di notte, di nascosto, mentre i nordcoreani a Liverpool per il quarto di finale. Non ci si strappano i capelli come ad un concerto dei quattro, ma esplode fragorosa la “Korea mania”. Tremila inglesi di Middlesbrough, nuovi adepti, si accaparrano il biglietto per la sfida al Portogallo, affrontano tre ore di viaggio senza sapere i nomi dei giocatori, la loro storia e come sono arrivati fin lì.
Foreign policy
È Stanley Rous, il boss FIFA, che decide. Asia, Africa ed Oceania possono qualificare una sola squadra tra le sedici finaliste. E non vuole sentire storie. Sorride quando qualcuno rimarca che la FIFA è controllata da tre persone: Sir, Stanley e Rous. Sorride e va avanti, anche quando il boicottaggio di protesta è pressoché totale, solo due nazioni restano in gioco: Australia e Nord Corea. I canguri accettano di giocare la doppia sfida a Phnom-Penh ed applaudono alla superiorità avversaria, 9-2 lo score complessivo.
L’arroganza FIFA deve scontrarsi con la diplomazia britannica
La guerra del parallelo 38 è finita nel ’53, il Foreign Office non riconosce lo stato nord coreano e gli americani, seppur disinteressati al pallone, controllano bene le mosse degli alleati evitando di concedere spazio a fastidiose aperture. OK per il visto d’ingresso, stretto necessario, tre partite e via a casa. Regole tassative. Non ci saranno contatti tra i coreani, la famiglia reale ed altre autorità. La partita inaugurale è tra inglesi ed uruguagi, immaginare i coreani in finale è fantascienza, qui il palco reale sarà affollato ma, per il resto, sarà sufficiente monitorare le loro partite ed evitare incidenti di sorta. La bandiera è l’altro problema, ma qui maldestramente si mettono di mezzo i sudcoreani, fratelli coltelli, irritando il dipartimento di Educazione che ha speso tanto per piazzare sedici pennoni negli stadi. La bandiera resta, e sventola alta anche quel martedì 23 luglio a Goodison Park.
Il rosso vince
L’atmosfera è elettrica. L’Inghilterra è lontana da Liverpool, reali e squadra tra i monumenti di Buckingham e Wembley, e qui, se non ci fosse il suono dei Beatles a spaccare, c’è la classe operaia e il cielo grigio topo. Sarà per questo che si crea, spontaneo, il legame tra il popolo e undici sconosciuti, bistrattati ma con l’argento vivo addosso.
Del Portogallo si sa tutto, del blocco del Benfica, del fuoriclasse Eusebio, della possibilità che saranno loro a contendere la Coppa all’inguaribile ottimismo dei padroni di casa.
Della Corea niente, non si sa niente, qualcuno era allo stadio nel giorno del nostro collasso, ma la maggior parte ha letto qualcosa sui tabloid, forse tra le macchie d’olio del fish and chips. Si dice che i loro allenamenti siano crudeli, che cantano inni patriottici negli spogliatoi e che nessuno, nemmeno loro, ne conosce i limiti. Si dice che si sono trovati bene nel middle of nowhere della campagna inglese, nel convento gesuita che aspettava noi ma si ritrova ospiti dei materialisti osservanti ignari di tutto, non solo del percorso di Ignazio di Loyola.
Hanno anche fatto sapere che stavolta giocheranno con la maglia bianca, non quella rossa che ha fatto innamorare quelli del Boro e che stesso sentimento accende a chi passa il sabato tra Kop e pub.
Sull’ottovolante
L’inizio è choc. Al primo affondo i nordcoreani trovano il vantaggio, nonostante Otto Gloria avesse chiesto ai suoi di partire con il piede giusto e non sottovalutare l’avversario, errore pagato salato dagli italiani. Il Portogallo cerca Eusebio, il panterone la porta. Senza grande efficacia, anzi i coreani continuano a fare quello che riescono a fare meglio, correre e ripartire. Lusitani spreconi e coreani spietati. Il pastorello Davide si esalta. Dalla sua fionda partono due sassi, uno due micidiale, minuto 22 e minuto 24, Goodison Park non ci crede, fantasmi ovunque, deja vu e psicodramma ma manca una vita. Sessantacinque minuti, una vita.
Il Portogallo si affida al santo in terra
Eusebio Da Silva Ferreira, 24 anni di Mafalala, quartiere di Maputo, all’epoca (1942) Lourenço Marques, padre angolano e madre mozambicana, è giocatore infinito, combina eleganza ed efficacia come mai visto prima. Eusebio prende la squadra per mano, la tira fuori dal baratro ristabilendo gerarchia e parità in 29 minuti. Al minuto 11′ della ripresa è 3-3, il suo destro ha colpito tre volte, due perle e una esecuzione dagli undici metri, rigore guadagnato, nemmeno da chiedere da chi. Nulla si legge sul volto degli imperscrutabili coreani, Eusebio indica il cielo, la folla è ipnotizzata e beato chi ha i nipotini. Ancora tre minuti ed ancora Eusebio, il raddoppio di marcatura su di lui è vano, ancora fallo, ancora rigore, ancora rete. Risultato ribaltato, da 0-3 a 3-4, poker servito, l’impossibile rimonta è completata con mezz’ora ancora da giocare.
Otto Gloria non dice più nulla, cosa vuoi dire, i suoi ragazzi sono usciti fuori dalle sabbie mobili da soli. I coreani sono bravi a non smobilitare, si prendono il quinto goal – torre di Torres e ancora di testa José Augusto – ed una caterva di applausi (Korea Korea cha cha cha) dopo il triplice fischio.
E vissero tutti…
Il Portogallo giustamente prosegue per Wembley.
La favola nordcoreana finisce qui. Non c’è il terzo tempo. Ci sono mille racconti che dicono tutto ed il contrario. Festini come se non ci fosse un domani (ed un quarto di finale da giocare) nel dopo Italia, chi dice dell’accoglienza trionfale al rientro a Pyongyang, chi del carcere e di lavori forzati perché certi eccessi il sistema non li accetta.
Sanzioni, corruzione, povertà, isolamento estremo, siccità: ecco cosa sappiamo per certo nel destino di questa nazione di 25 milioni di abitanti, fermi all’anno 112 (così dice il loro calendario), e di undici ragazzi che per quattro giorni, tra il goal di Pak Doo Ik (1-0 all’Italia) e il goal di Pak Sung Jin (3-0 al Portogallo), sono stati liberi di volare lassù fino in cima al mondo.
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