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Pink Floyd F.C. The dark side of soccer

Seconda metà anni '60. Londra. L'altra Londra. Psichedelica, acida, onirica, visionaria oltre misura. I Pink Floyd si affacciano sulla scena per non uscirne più. Voce, chitarra, basso, batteria, tastiera: sembra una formazione classica, sarà una rivoluzione. E poi una passione inevitabile: il calcio.
Pink Floyd

The Dark Side of Soccer. A Nice Pair. Storia della genialità icono-calcistica di Storm Thorgerson

Sullo sfondo due album capolavoro come The Piper Gates o Down e A Saucerful of Secrets. Due geni, uno visionario di Barrett e l’altro artistico della Hipgnosis. La regia fu di Storm Thorgerson. Già questa piano sequenza potrebbe essere degna di un viaggio psichedelico senza precedenti. I Pink Floyd volavano oltre, verso scenari interstellari barrettiani. Ed erano cosi tanto “spinti” che arrivarono sul terreno di gioco. Una undici titolare. Che subì anche “sonore” batoste. Ma seppero trasformare per sempre la storia e il concetto elevato di rock con The Dark Side of Moon.

Storm Thorgerson
(Storm Thorgerson)

Syd Barret Epoca. Dal 1965 al 1968. Abbey Road Studio diventa la casa di “A Saucerful of Secrets”

 La scena londinese degli anni ‘60 era autentica magia. Un passe-partout o una bussola precisa, per trovare e ricercare tutte le arti performative.  Bastava girare l’angolo, un quartiere, o una street che si veniva trasportarti in altre dimensioni. Parallele, psichedeliche, visive. Se il rock di Hendrix, Wood, Clapton e Cream erano chitarre e riff, le arti visive elevavano la musica verso altri sentieri. Un nuovo paese delle meraviglie stava per essere rivelato.  Il cammino era tracciato verso i “covi” o i movimenti underground più interessanti, indicati sulla cartina tra Canterbury e Cambridge. Lì, in quelle realtà “sotterranee”, si sperimentava una nuova dimensione tra jazz e musica elettronica contemporanea. Le feste pullulavano letteralmente di fotografi, pittori, registi e artisti. Tutto ha un’origine, che sia per caso o per incredibili allineamenti astrali. Negli incontri, nelle conoscenze, si nasconde sempre una rivoluzione.Nei suoi processi è scritta la pagina di un pezzo di storia della musica prog. Mason, Wright, Barrett e Gilmour, insieme a Syd Barrett, erano amici. Tutti con la passione delle arti visive ma con la capacità di saper trasformare le sonorità in immagini, tra sperimentazione, follia e spazialità.  La crew, o perlomeno intorno a loro, c’erano altri due futuri protagonisti: Storm Thorgerson e Bob Klose.

Syd Barrett
(Syd Barrett)

The Pink Floyd sound aveva bisogno di loro. Una band che saltò il concetto di gruppo e si trasformò in un collettivo. Il 1966, anno in cui mutarono in Pink Floyd (dal nome di due artisti blues Pink Anderson e Floyd Council) fu l’anno della primissima consacrazione. La band fu invitata prima al celebre Marquee Club e successivamente fece il suo esordio nel locale più all’avanguardia dell’epoca: l’UFO Club. Le sonorità, ribattezzate poi “barrettiane”, ruotavano intorno alla genialità del “Crazy Diamonds”, Syd Barrett. Il primo vagito, tra folk, poetica e psichedelia, capolavoro al debutto fu The Piper at the Gates of Dawn. L’anno era il 1967 e si raggiungeva una sorta di karma astrale, cosmonauta con brani come Interstellar Overdrive. La prima volta che i critici diedero una definizione allo stile “floydiano” fu di space rock. Barrett era fragile, un diamante grezzo. Follia, poca lucidità, affondava e riemergeva nel mare LSD. Estrema arte creativa, oltre l’immaginario, ma fragilissimo. Mente intrisa, caleidoscopica, con la capacità di vedere aldilà del possibile, puro elaborato di arte e sonorità psichedeliche. La sua instabilità lo portò al deterioramento e all’allontanamento voluto dalla band. Alcuni suoi piccoli gioielli furono inseriti successivamente nel secondo album del 1968 A Saucerful of Secrets.
L’eredita di Sir Barrett, era trasmutata in rumori electro, feedback e oscillatori. La cornice incredibilmente leggendaria portava l’indirizzo di Abbey Road Studios numero 3.

Essere visionari. La Hipgnosis tra psichedelia, flussi di coscienza e anime suadenti

Con alle spalle il 1967, lanciati nella spazialità musicale e apprezzati dalla critica, il gruppo si trovò incredibilmente diviso. Un ottimo esordio, suggellato nel capolavoro TPGOD, li rese titubanti, in virtù della “questione” Barrett. Un tour in America sancì il divorzio dal “crazy diamond”. Tour estremo, risucchiati da un vortice di città, palchi e concerti, demarcò la crisi. L’insicurezza artistica rischiava di ripercuotersi sul progetto. E poi la questione labile, sottile, ma decisa che pareva quasi un bivio. Confermare la genialità multiforme del debutto oppure navigare verso un disco maggiormente concettuale a tinte soft. Barrett era una spugna intrisa di trip, debolezze e instabilità. L’equilibrio vacillava, la presenza era un’assenza. La saggezza dei Floyd fu per un certo senso quella di salvare il progetto e il nome prestigioso del gruppo. A malincuore, Barrett fu allontanato. La sua enorme figura, evocativa, distopica, appariva come un fantasma senza tempo. Pesava sulla band, ma al contempo li accompagnava in maniera benevola, ma ingombrante.

Arriva Gilmour

A sostituire Barrett fu chiamato Gilmour.
Waters divenne nel frattempo leader, Mason e Wright coloro che avevano il compito di introdurlo. Ma come un macigno, nel cuore del buon Roger regnava la colpa di aver abbandonato un amico nel momento del bisogno. Contestualmente A Saucerful of Secrets, fu un progetto di trasposizione, verso un misticismo seriale e onirico. Con una rivoluzione, però che passerà alla storia. Escludendo i Fab Four, per la prima volta la EMI concesse ad un gruppo di scegliersi i grafici esterni all’etichetta discografica.

David Gilmour
(David Gilmour)

Padre, fotografo e guru delle arti grafiche all’avanguardia della Hipgnosis era il maestro Storm Thorgerson. Abile ad unire un mondo fatto di sovrapposizioni e fusione. La spiritualità dell’album si fondò alla maestosa concettualità dei Pink-floyd. Luci, performance, light-show, erano i mondi artistico-sonori immaginati da Thorgerson. Pianeta, alchimia, solarità, entravano in simbiosi con l’arte grafica che si faceva viva. Le sei tracce erano una commistione di pathos, stati d’animo e malevolenza, inclinati dalle tastiere di Mason verso il terrore ed un’inquietudine di fondo.  I viaggi, i percorsi, e le sonorità apparivano come fascinose creature spettrali capaci di attanagliare l’ascoltatore in un tragitto quasi sacrale. Nelle tracce Barrett c’è un eco lontano, ma costante, quasi a sottolineare la presenza. Soprattutto in quel che sembra un grido di abbandono, di dolore, intitolato Jugband Blues.
I Floyd avevano confermato la loro tribalità, navigando a vista verso quella futura e matura consacrazione, presente poi in album come Ummagumma.

Pink Floyd

A Nice Pair. 36 Riquadri e un cofanetto del ‘73. Al di là della Manica e degli oceani.

 La vita, come l’arte nasce dalle unioni. Di stili, di opere, di generi. Come nella musica. I capolavori, gli album e i 33 giri prendono vita dalle connessioni. Di tracce che si mischiano, si confondono e a volte si bissano. A Nice Pair, nel 1973 si forma da un’intuizione. Della mente creativa di Storm Thorgerson. È un concetto intenso, visivo, il progett, dove l’immagine, il simbolismo, supera la parola “suono”.
La copertina di “A Nice” vive di vita propria. I disegni, i bozzetti selezionati vengono minuziosamente studiati, pensati. La grafica si trasforma in messaggio e diventa materiale oltre la musica. Ogni prototipo pensato per la cover dell’album, è immediatamente scartato. Nessuno viene reputato efficace, diretto, chiaro.
Un ascoltatore, secondo Thorgerson, deve avere la prima scintilla dall’immagine. L’occhio è il primissimo organo sensoriale. Per la copertina allora si scelgono bene 36 bozzetti diversi, suddivisi in 9 quadri, 4 per ogni lato. Immaginate un collage cosi certosino dove ogni simbolo è un viatico per un linguaggio. Un mosaico attento, folle e al contempo concettuale. E tanto non basta. Perché il maestro Thorg ci mette anche geniali giochi di parole. Come un enigma, dove l’ascoltatore è preda di un regno fatto di simbolismo e comunicazione. I tasselli sono tutti decifrabili, ma meravigliano per la loro genialità e precisione sia nella collocazione che nella scelta.  Ed ecco che ci compare la biforcazione, “a fork in the road”, con la forchetta in strada a testimoniare l’indecisione di una scelta, Un quadro giapponese, con un personaggio librante in cielo, indicante il detto “a nip in the air”, morso d’ aria o freddo pungente. Dei piattini volanti in celo, come dischi volanti o dei pesci in una teiera, messaggio che sembra apparire come “un altro paio di maniche”. E via via, troviamo una bocca contente una rana a simboleggiare un rospo in gola, o un fumetto che rappresenta la risata lungo la via della banca (il guadagno facile) e la donna nuda che mantiene in mano un uccello. Come stare a dire meglio l’uovo oggi che la gallina domani. Una iconografia che appare come un vocabolario floydiano. Senza dogmi, ma con estrema e inarrivabile creatività. Capolavoro semiotico, ricco di riferimenti, passaggi ed elaborazioni fotografiche che lo rendono un piccolo gioiello d’arte.
Una coppia perfetta, come il seno scelto al centro della cover dell’album. The Piper Gates o Down e A Saucerful of Secrets furono due diverse avventure sonore, magnifiche e ipnotiche al contempo, con le accezioni che poi variavano nei tempi e nell’ascolto. I Pink Floyd avevano regalato un doppio album alla storia della musica. E per non scontentare nessuno lo pubblicarono sia in americano che in inglese. Anche da li, da quella intuizione, da quella geniale voglia di accorpare la loro mente visiva e sonora, nascevano i capolavori.

Roger Waters
(Roger Waters)

We are Pink Floyd F.C. Waters con i guantoni. La sconfitta marxista e le groupies “cheerleaders”

Il calcio, o come dicono gli inglesi football sta sempre al centro.
Nel pensiero, nella vita e anche nel comportamento quotidiano di ogni appassionato. Quella centralità e quell’equilibrio tra l’arte visionaria e il loro spirito “pallonaro”, i Pink Floyd l’avevano riposta nella loro passione. Scarpini, un prato, tanta voglia di correre e addirittura anche le groupies. La squadra era pronta: la First Eleven. La loro foto ufficiale, il buon Thorgerson la immortalò al centro della copertina di A Nice Pair.
Come riportato dal biografo di punta della band, Nicholas Shaffer, tutto il collettivo “floydiano”, fu fotografato prima del match contro una squadra di marxisti della parte settentrionale di Londra.
Un disastro. Un sonoro 4 – 0 e tutti a casa.

Pink Floyd
Ma quello che rimase fu l’incredibile schieramento che passò alla storia: Waters, Wright, Adamson, Mason, O’Rourke, Richardson, Gilmour, Watts, Howard, Thorgerson, Max. Le maglie bianco e blu, con calzerotti abbinati.

Roger Waters in porta; animo coraggioso, ma preoccupante nelle uscite.
I tre difensori: il tastierista Richard Wright, agile ma con una scarsa tecnica. David Gilmour, ala destra. Disinvoltura da leggendario chitarrista sul palco, ma che lasciava a desiderare nelle incursioni sulla fascia. Mason era nella media, diga e equilibrio della band.
A centrocampo anche gli oriundi roadies, ovvero Chris Adamson e Peter Watts. Il primo fu ideatore di titoli di brani come Spike to me e Any colour you like. Il secondo interruppe la sua storia con i Pink Floyd prima del British Winter Tour del 1974. Successivamente morì di tossicodipendenza nel 1976. Al pari della loro improbabile capacità da calciatori, i Pink Floyd ci restituirono album capolavori come Meedle del 1971.

Pink Floyd
Proprio in quel progetto discografico, all’interno della traccia Fearless, la chitarra si sovrappone al coro You’ll Never Walk Alone della curva The Kop di Liverpool. La stessa registrazione fu effettuata nel corso di un derby tra i Reds e l’Everton. La genialità della più grande band psichedelica e rock di tutti i tempi fu di apertura ed ispirazione per intere generazioni. Come tutte le più grandi leggende, dimostrarono la loro venerazione e passione per il mondo del calcio.
Non è sbagliato, o blasfemo dire che anche Water e Co, avevano: The Dark Side of Soccer.

 

                                                                                                                             

Sergio Cimmino Nasce a Napoli nel 1982. Collabora in ambito comunicativo, radiofonico, musicale e culturale. Da freelance lavora per testate nazionali, web tv e ha contribuito alla realizzazione di musical ed eventi.

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