“Come tutto nella mia vita, le cose accadevano ad una velocità supersonica. Non erano ancora trascorsi tre mesi dall’esordio con l’Argentinos che arriva la convocazione con la nazionale giovanile“.
È Don Ernesto Duchini, “un maestro, un vero maestro”, a selezionare Diego Armando Maradona per la sua prima con la maglia albiceleste. Il raduno prevede una partitella con la prima squadra, anno 1977, ci sono Passarella, Houseman, Kempes.
Duchini allerta El Flaco Menotti, ma non serve, il talento del pibe de Villa Fiorito è secondo solo all’attesa di quello che potrà essere. Dopo tre sessioni di allenamento, El Flaco lo chiama a sé chiedendo di non rivelare a nessuno, tranne ai genitori, un piccolo segreto: la chiamata con la Selecion alla prossima amichevole con l’Ungheria.
Ernesto Duchini è davvero il gran maestro del calcio argentino
Quaranta anni, venti da responsabile tecnico e venti da supervisore, della nazionale giovanile.
Generazioni di campioni, promesse mantenute e meteore, sono state scrutinate dal tecnico di Barrio Norte del distretto di Buenos Aires, ma cresciuto anche calcisticamente, nella Chacarita.
El Kun, El Payaso, El Cuchu, El Fideo, La Pulga, El Conejo, El Cholo, El Apache…tutti, proprio tutti sono passati da qui. Nessuno ha vinto più mondiali under 20 dell’Argentina, ben sei su 22 edizioni.
1979. La prima volta è storia
Menotti in panchina, Duchini selezionatore e responsabile di tutta la fase di preparazione al torneo giapponese.
L’Argentina è fortissima, sono ragazzi che già bussano alla porta dello spogliatoio dei campioni del mondo di un anno prima. El gran capitán è lui, Diego, non ha ancora diciannove anni, ma insegue già rivincite. Lui rispetta El Flaco, pende dalle sue labbra, ma una maglia tra i ventidue per il mondiale di casa pensava di meritarla. Ora è qui a Tokyo per cominciare a scrivere la storia come dice lui, dal riscaldamento – quando delizia il pubblico con numeri da applausi – ai novanta di gioco quando dirige una squadra che vuole vincere divertendosi.
Dice Diego della sua banda più bella: “C’era Sergio Garcia, il portiere del Tigre; Abelardo Carabelli ex Huracan poi Argentinos; Juanchi Simon e El Gringo Sperandio del Newell’s; Ruben Juan Rossi del Colon; Huguito Alves e Bachino del Boca; Juancito Barbas e Gabi Calderón del Racing; Osvaldito Rinaldi del San Lorenzo; Pichi Escudero del Chacarita; Ramon Diaz del River; Jorge Piaggio e Alfredito Torres dell’Atlanta, El Flaco Lanao del Velez e poi Tucu Meza, Barrera…fortissimi, tutti tecnicamente dotati e di temperamento. E poi avevamo due insegnanti di calcio e di vita, Duchini e Menotti, le loro parole, i silenzi. Non ho più giocato in una squadra così“.
“Libertad! Libertad! Libertad!”
Il 26 agosto 1979 quando le note dell’inno argentino risuonano all’Omiya Stadium per la partita d’esordio con l’Indonesia, Maradona ha già collezionato sei presenze con la nazionale maggiore tra cui la bellissima sfida dell’Olimpico di Roma dove l’Italia giocò alla pari, anzi meglio, dei campioni. Eppure è concentratissimo, sente la responsabilità di confermare che l’Argentina, giovane o meno che sia, è la prima forza del pianeta e che non ci sono chiacchiere né complotti. Conta solo giocare meglio degli altri, anzi non fargliela vedere proprio la palla.
I malcapitati indonesiani limitano i danni, cinque reti al passivo non sono nemmeno troppe considerata la differenza di valori. L’Argentina gioca poesia, gran possesso palla, linee di passaggio che non vedi e dribbling che non pensi, difesa solida ed una linea offensiva terrificante. Saranno 20 reti a fine torneo, otto per la bocca da fuoco Ramon Diaz, sei per Diego.
Si gioca ogni due giorni
Vittoria di misura contro l’incompiuto, ostico puzzle della Yugoslavia, 4-1 con la Polonia, primo posto nel girone. Maradona apre lo score dopo 25′ nel quarto di finale con l’Algeria. Non c’è storia, Calderon e Diaz archiviano la pratica con altre quattro reti, ma a fine partita c’è un’aria pesante.
L’ego di Maradona non ha gradito la sostituzione a mezz’ora dalla fine, sbatte i pugni, non si presenta alla cena, non pensava di dover spiegare che lui…lui vuole giocare sempre e comunque. “Gli altri si stancano di corrermi dietro, io non mi devo riposare“.
Duchini non fa una piega, ne ha viste di tutti i colori, sa come far sbollire l’esuberanza fine a sé stessa e parla solo dell’Uruguay, prossimo ostacolo e “si capirà sul campo chi pensa ad altro”.
È una semi vera, tosta
Un River vs Boca tra rivali che non hanno bisogno di ulteriori motivazioni per battersi. Il palcoscenico ideale per Maradona, sempre pronto a dimostrare qualcosa al mondo, dai mulini al vento ai segni dei tacchetti sui suoi stinchi. Assist per El Pelado Diaz e firma tutta sua sul raddoppio, di testa.
La finale con l’Unione Sovietica è del 7 settembre, sesta partita in dodici giorni. Maradona non dorme, tanta è la tensione.
Oppure dorme ad occhi aperti.
Il film è sempre lo stesso, lui dalle scale dell’aereo agitando la Coppa verso Don Diego e La Tota, verso la folla. El Flaco, senza consultare Duchini, comunica a Diego che a torneo finito dovrà direttamente raggiungere, con lui, la Selecion maggiore.
Gli sembra una mossa motivazionale in più, non è così. Diego sorride, ma non spiccica parola e torna in camera a non dormire. Lui deve tornare con la Coppa per quella gente che si alzerà all’alba per vedere la finale venerdì. Diego divide insonnia e tormento con Juan Barbas che proprio la notte prima dell’esame finale lo tira giù dal letto strillando: “Dieguito, le nostre licenze militari scadono…dobbiamo rientrare a casa subito dopo la finale, non puoi andare da nessun’altra parte“. Si abbracciano come fosse goal, la consapevolezza di vincere da sogno diventa qualcos’altro.
La finale è finale degna
I sovietici meno fisici della Celeste ma tosti. Primo tempo senza occasioni, ma con il pallino argentino e la sensazione che sia questione di tempo. Invece, passa l’URSS a sorpresa. Come sorprendente è la reazione lucida dell’Argentina. Otto minuti, Alves e poi naturalmente Ramon Diaz, prima del sigillo finale di Diego su calcio piazzato, chirurgico: 3-1 Argentina Campeon.
Ernesto Duchini, 69 anni, si arrampica sul tetto del mondo con i suoi ragazzi, ripensa all’amicizia con Cesarini che è andato avanti da tanto e festeggia come sa, abbracci tanti parole poche. Per Diego il trofeo del migliore di tutti, il primo pensiero per La Tota, il mate che passa di mano in mano, il domani che gli appartiene.
Ernesto Duchini resta al comando delle operazioni fino al 1994, ormai ottantaquattrenne
La sua semina produce altri cinque successi tra il 1995 ed il 2007.
Sono gli anni di Juan Pablo Sorin, Walter Samuel, Esteban Cambiasso, Pablo Aimar, Juan Roman Riquelme, Nicolas Burdisso, Andrés D’Alessandro, Maxi Rodriguez.
Il 2005 è l’anno di Leo Messi con Ezequiel Garay, Pablo Zabaleta, Fernando Gago, Lucas Biglia e Sergio Agüero stella che brillera’ ancora di piu’ nel 2007 con Sergio Romero, Éver Banega, Ángel Di María, Mauro Zárate ecc. ecc. per questa miniera senza fondo tra le Ande ad ovest e l’Atlantico ad est.
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