Roma, Milano e finalmente Boston
La maratona è un paradigma di vita, totale, assoluto, avvolgente.
Io dopo quella di Chicago ho corso altre maratone tra cui Roma, il primo gennaio 2000, la IAAF Rome – Millennium Marathon in 3 ore, 27’ e 43” (media 4’ e 55” al km) ed un’altra a Milano di cui ho cancellato dalla memoria data e tempo.
Perché? Perché mi incazzai da morire! Pensate che anziché bloccare il traffico e rispettare i runners, gli organizzatori fermavano i runners in vari punti della città, soprattutto in centro, per dare la precedenza ai tram, mentre gli spettatori – impossibilitati ad attraversare le strade – li insultavano gridando loro, nel migliore dei casi, …andate a lavurar!, pur se era domenica.
Ma finalmente arrivò il 17 aprile del 2000, giorno della maratona di Boston, l’ultima di cui voglio parlare.
Man mano che la passione per il long distance running si sviluppa, l’amatore comprende che, se non correrà a Boston, la sua “carriera” sarà praticamente monca.
Eccomi a Boston, dunque, per la 104^ edizione della maratona più antica del mondo.
La prima fu corsa nel 1897, allora, come oggi, nel Patriot’s day (il terzo lunedì del mese di aprile); vi presero parte 15 persone (solo dieci arrivarono in fondo), su un percorso più breve dell’attuale. Da allora, neppure le guerre hanno impedito l’annuale ripetersi dell’evento che il Governatore dello Stato, dopo averne ricordato l’importanza per la storia della città, introduce con un formale proclama come quello del giorno della mia gara: I, Governor of the Commonwealth of Massachussets, do hereby proclaim April 17th 2000 to be Boston Marathon Day, in cui si invitava la popolazione a riconoscere i tremendi sacrifici e ad applaudire gli sforzi di coloro che correranno dalla città di Hopkinton a quella di Boston.
Boston e dintorni, sono alla 9^ maratona
La città – si sa – è stupenda ed europeggiante, per cui ogni angolo va bene per le ultime corse di scarico prima della gara: correre lungo il Charles River, tra i viottoli e le case basse della Back Bay o all’interno dei verdi cortili della Harvard University può dare solo piacere aggiuntivo, come è capitato a me.
L’organizzazione risulta perfetta sin dal ritiro dei pettorali alla Hynes Convention, a due passi dall’arrivo in Coplay Square dove già si possono ammirare, avendo un po’ di pazienza nell’attesa, Paul Tanui, Wilson Chebet e soci che escono dall’hotel per le loro “corsettine” quotidiane.
Li rivedo tutti il sabato sera quando Gabriele Rosa mi invita ad un evento organizzato dalla Fila in un lussuoso hotel del centro. Venerdì e sabato Boston vive giornate estive ed inizio a temere un massacro a causa del caldo, ma già domenica l’aria si raffredda e la sera, in fila per il tradizionale pasta-party nella zona di Quincy Market, bisogna ripararsi dal vento gelido: riscalda il cuore, invece, il sobrio monumento (una specie di alto corridoio in vetro) che, lì vicino, i bostoniani hanno voluto dedicare alle vittime dell’olocausto.
Si cerca di andare a letto presto, ma c’è comunque il tempo per un grave strappo alle regole: un maxi hamburger per placare i morsi della fame (forse frutto della tensione?).
Eccellente il trasferimento dei maratoneti ad Hopkinton, cittadina di quattro case, da cui partiremo: vecchi autobus gialli, tutti uguali, imbarcano in Boston Common (un grande polmone verde situato al centro della città) i runners la cui partenza è stata scaglionata nell’arco di due ore in ragione dei tempi di iscrizione e, dunque, del numero dei pettorali.
L’area pre-gara, ad Hopkinton è verde, affollata e, nonostante tendoni, cibi, bevande calde, centinaia di bagni chimici e musica celtica di accompagnamento, il tempo scorre lentamente ed il vento freddo incalza.
Alle 11 circa i runners vengono avviati ai vari recinti di partenza: 19 in tutto con mille maratoneti collocati in ciascuno di essi a seconda dei tempi di iscrizione, i più veloci nel primo ed i più lenti nell’ultimo. Mi tocca il sesto recinto (grazie al buon tempo di Chicago, certificato) ed il via, alle 12, mi coglie ormai caricato, ma infreddolito (siamo sotto i dieci gradi): eccomi, dunque, alla madre di tutte le maratone.
Il vento c’è ma, contrariamente a quanto m’aveva detto un altro amico importante runner, Luca Barzaghi (“è quasi sempre a favore e le donne corrono precedute dai loro capelli”), soffia in folate nemiche! Si parte tra due ali di folla che incoraggiano i runners come da decreto del governatore, ma la passione è sincera: lungo i 42 km. non vedrò alcun vuoto tra le fila ininterrotte della gente e, ad un certo punto, invocherò mentalmente il silenzio tanto alto è il livello sonoro degli incitamenti.
Il percorso, inizialmente tra i boschi, è ricco di saliscendi, non di grande pendenza, ma molto frequenti: attraversiamo molte cittadine (Ashland, Framingham, Natick, Wellesley, Newton e Brookline), ne annusiamo gli odori (prevalgono quelli delle grigliate di carne), veniamo letteralmente spinti in avanti dal tifo delle studentesse del Wellesley College (attorno al 20° km.) e usufruiamo di un rifornimento ininterrotto tanta è la gente che protende di tutto verso i maratoneti.
Qualche vuoto di preparazione inizia a sentirsi verso la mezza, dove passo in 1:36:40 ma è forte il terrore della Heartbreak Hill che dovrebbe trovarsi attorno al 30° km.: arrivato in zona, inizio a chiedere a qualche americano, compagno di corsa, se quella dura e tosta che stiamo percorrendo è la famosa collina, ma la risposta che arriva è immancabilmente “No, ne mancano ancora quattro!”.
Finalmente, di quattro in quattro, eccomi a scalarla, penso agli incoraggiamenti di Marco Marchei, secondo a Boston nell’80 (“in fondo è una collina dura solo per gli americani, non per noi italiani!”), ma soffro abbastanza e pago il vento contrario e due chili di troppo. La gente incita (“you’re on the top”: “sei in cima” !) e sospinge: finalmente inizio la discesa ed accelero il ritmo.
Riprendo molte delle donne che m’avevano superato e tiro (si fa per dire) gli ultimi km. a 4:30 circa.
Con il mio completino da keniano (sì, sono vestito come Tanui!), taglio il traguardo della mia nona maratona in 3:19:44.
In Coplay Square, stravolto e felice, mi appare la tradizionale immagine della Trinity Church che si staglia sulle pareti a vetro della John Hancock Tower.
Il dopo gara
Medagliato, infreddolito e con quattro banane in tasca, me ne torno in hotel dove trovo Marco, il mio amico sardo, che vale 2:40, ma che ha pagato il freddo e rimpiange di non avere mangiato hamburger la sera prima. Ma ci rifacciamo in serata, a cena in un ristorante cajun, con la famiglia Rosa, con il grande amico e runner Franco Fava ed i campioni del Fila Team: Ornella Ferrara, splendida settima, festeggia il compleanno, ma si lamenta del vento contrario (la capisco); altrettanto fanno i keniani (hanno perso, dicono, almeno due minuti) che son passati “lenti” alla mezza, per poi correre al ritmo folle di 2:50 al km.. Mentre Irina Bogacheva del Kyrgyzstan ancora gongola per avere soffiato al fotofinish il secondo posto a Fatuma Roba, Gabriele Rosa mi incoraggia (il tempo di Boston, a suo dire, vale più del mio personale di 3:13 di Chicago) e Moses Tanui mi confida che non correrà la maratona olimpica di Sidney, ma quella di Chicago: temo, dunque, che me lo troverò nuovamente davanti.
La foto di rito con lui, Chebet ed il vincitore Eliah Lagat (ha iniziato a correre, nel ’90, su consiglio medico perché era tachicardico e pesava troppo, 72 kg.!) chiude degnamente la serata.
Il risveglio, il giorno dopo una maratona, è sempre gradevole, ma se avete la fortuna di fare il primo scarico sulla Beacon Hill, la collina più romantica del mondo, e di dare dalla sua sommità l’arrivederci a Boston, converrete che a un maratoneta non può capitare di meglio nella vita!
Grandissimo è stato il mio dolore quando nel 2013 due terroristi uccisero 3 persone e ne ferirono oltre 250 nella zona prossima al traguardo che ricordo come se vi avessi corso ieri !
Anche mezze maratone, corsa campestre e bici prima di chiudere
Negli anni successivi, comunque, a causa del lavoro sempre più intenso come componente del Consiglio Superiore della Magistratura, non riuscii ad allenarmi con la stessa intensità di prima. Lo facevo spesso con un’altra amica collega, anche lei di nome Francesca: insieme corremmo a New York (io per la terza volta) nel novembre del 2002 ed insieme tagliammo il traguardo.
Tra il 1997 ed il 2002, oltre le maratone sin qui citate, avevo corso in Italia almeno 17 mezze maratone e gare superiori ai 30 km, vincendo anche il campionato italiano di corsa campestre per magistrati ed avvocati over 50. Ed avevo organizzato e corso anche la prima mezza maratona di Stromboli che ancora si corre ogni estate.
Quella di New York del 2002, comunque, fu l’ultima mia maratona: non per scelta, ma per un mio errore.
Decisi, infatti, nel 2003 di passare al triathlon: in fondo, me lo potevo permettere da ex nuotatore e da maratoneta.
Mi mancava solo l’esperienza con la bicicletta da corsa.
Me ne procurai una stupenda, una Colnago, grazie ad amici della Mapei: era stata la bici del campione russo Pavel Tonkov. Programmai allora una vacanza estiva in Abruzzo nella zona di San Vito Chietino-Lanciano con questo cronoprogramma quotidiano: al mattino presto salite e discese in bici sulla vicina Maielletta, nel primissimo pomeriggio allenamento di nuoto ed in ora serale pre-cena corsetta da 15-20 km..
Correvo in bici, però, con un amico esperto ciclista e per stargli dietro, considerata la mia artigianale tecnica di pedalata, mi rovinai il ginocchio ed il tendine destro: non potevo neppure sedermi per pranzare e tutto l’autunno fu dedicato a cure mirate, con ultrasuoni ed altro.
Lì finì la mia attività agonistica: da allora corro poco e senza continuità, il nuoto (salvo quello in mare) mi annoia e la bicicletta bellissima è ormai appesa al soffitto del mio studio di casa, a mo’ di installazione da museo d’arte moderna!
Pazienza … bisogna sapersi rassegnare al passare degli anni ed alla connessa crescita della fragilità fisica, anche se fui preso da un forte rimpianto all’atto del mio pensionamento del dicembre 2018: ero Procuratore della Repubblica di Torino e gli avvocati torinesi organizzarono per salutarmi una mezza maratona con partenza ed arrivo nel grande cortile del locale Palazzo di Giustizia.
Un’iniziativa decisamente fuori dagli schemi torinesi, come del resto la mia quando – pochi giorni prima – per salutare loro, nonché colleghi e personale del mio ufficio, avevo regalato centinaia di CD con 160 pezzi rock da me amati!
La gara fu chiamata simbolicamente “Cammina, Corri e Pensa Diritto” e ne conservo con orgoglio il pettorale regalatomi, i manifestini predisposti e le lettere di saluto delle squadre partecipanti (Avvocati, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Giornalisti, Pubblici Ministeri, Cancellieri).
Peccato non aver potuto correre con loro, questo è il rimpianto: ma è il momento di inventarmi qualcosa di nuovo: lancio del peso?
Ancora poche parole sull’amore per le maratone
Può forse essere simpatico, ora, citare un episodio legato alla mia attività professionale di pubblico ministero a Milano.
Stavo conducendo le indagini relative al sequestro di persona avvenuto nel 2003 a Milano in danno di un egiziano, Abu Omar, sospettato e poi condannato per terrorismo.
Fu rapito da uomini della CIA (tutti individuati e condannati: caso unico al mondo!) che lo trasportarono in Egitto dove venne anche torturato. La CIA agì con la complicità di appartenenti al servizio segreto italiano denominato SISMI, come riconosciuto anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che, con una sentenza del 2016, ha condannato il Governo italiano per l’uso indebito del segreto di Stato, finalizzato a coprire le prove concernenti gli italiani.
Nel 2005 ricevetti una mail e alcune telefonate da John Crewdson, importante giornalista americano del Chicago Tribune, già premio Pulitzer, il quale mi chiese se fossi disponibile ad una intervista sul sequestro di Abu Omar.
Poiché il caso non era ancora definito, gli diedi risposta affermativa a patto che si parlasse solo in generale delle pratiche illegali di contrasto al terrorismo internazionale (cioè la cd. War on terror americana) e delle ragioni per cui sono incompatibili con le regole della democrazia e con l’indipendenza della magistratura italiana.
Crewdson accettò, ma prima di venire a Milano, voleva scrivere un primo importante articolo sull’affare Abu Omar: doveva anche avere fatto qualche ricerca su di me perché mi scrisse chiedendomi se fossi io quell’«Armando Spataro» che figurava nel database del Chicago Tribune come runner che aveva corso la maratona di Chicago, nel 2000, in 3 ore e 18 minuti, un signor tempo per un ultracinquantenne dilettante.
Gli parlai di quella mia passione senile e non posso nascondere che mi faceva piacere che un così importante giornalista l’avesse scoperto, ma inizialmente mi schernii, scrivendogli, via email, che certo non era il caso di toccare un argomento così futile.
Crewdson mi rispose che si trattava di una notizia che sarebbe stata di interesse per i lettori del Chicago Tribune, sicché mi chiese conferma del tempo e dell’anno in cui l’avevo realizzato. Gli feci allora presente che c’era un errore nel loro database: non avevo corso nel 2000 in 3 ore e 18 minuti, ma nel 1999, in 3 ore e 13, dunque un tempo ancora migliore che mi aveva consentito anche un buon piazzamento tra i miei coetanei (1915° su 24.604 coetanei partecipanti).
Pensavo che gli sarebbe bastato.
Mi sbagliavo: mi scrisse ancora chiedendomi spiegazioni.
Mi ricordai allora che nel 1999, per un banale errore, la mia iscrizione e il tempo da me realizzato non avevano trovato riscontro immediato nel database degli organizzatori della maratona, tanto che – nonostante i miei reclami ufficiali – non mi avevano voluto spedire il certificato con tempo e piazzamento. Uno sgradito imprevisto per me, poiché quel tempo mi avrebbe consentito un vantaggio in partenza nella maratona di Boston che volevo correre nel 2000.
Fortunatamente, da una fotografia che mi ritraeva mentre tagliavo il traguardo della maratona era documentato il tempo segnato sul cronometro. Feci ingrandire la foto e, insieme a una copia autentica del mio passaporto con la faccia in evidenza, la spedii agli organizzatori per attestare il vero.
Ricevetti subito certificato di piazzamento e tempo, una maglietta omaggio, unitamente alle loro scuse.
L’errore nel database, però, era anche dovuto al fatto che mi ero iscritto di nuovo alla maratona di Chicago per correrla nel 2000, ma, impossibilitato ad andarvi per impegni di lavoro, regalai iscrizione e pettorale a un amico che dunque aveva corso con il mio nome. Spiegai tutta questa storia complicata a John Crewdson, il quale mi parve finalmente soddisfatto.
Mi sbagliavo ancora.
Infatti, dopo una email con cui mi ringraziava delle notizie, mi scrisse ancora dicendomi: «Dottor Spataro, io le credo, ma se dicessi al mio direttore che voglio scrivere in un articolo le cose che Lei mi ha detto, lui mi risponderebbe: ‘Crewdson, il nostro database dice cose diverse e, dunque, non possiamo scrivere che il prosecutor di Milano ha corso nel 1999 in 3 ore e 13 minuti’. Dunque, dottor Spataro – concludeva Mr. Crewdson – mi mandi le prove di quello che mi ha scritto!».
Giuro che non mi arrabbiai.
Mandai foto e certificato che lo stesso John Crewdson mi riportò quando venne a Milano: da quel momento fui sicuro che quel giornalista avrebbe scritto solo di fatti accertati e riportato la verità.
Dopo il nostro scambio di email e di «prove», il Tribune pubblicò il 6 luglio del 2005 un suo articolo dal titolo Italian prosecutor runs with the evidence. Marathon racer with Chicago ties accuses Cia of kidnapping [Il procuratore italiano corre con le prove. Maratoneta con legami con Chicago accusa la Cia del sequestro].
Crewdson parlava della mie prestazioni da maratoneta e del mio amore – vero e radicato – per Chicago, «my favorite city», risalenti a epoca ben anteriore alla vicenda Abu Omar.
Ho incontrato altre volte questo eccellente professionista e abbiamo scoperto anche il comune amore per David Crosby, la cui barca e chitarra avevo invano cercato nella baia della sua San Francisco, nell’estate del 1979, quando «fuggii» dall’Italia dopo l’omicidio del collega Emilio Alessandrini ad opera dei terroristi di Prima Linea.
Racconto spesso delle «prove» richiestemi da Crewdson a qualche amico giornalista italiano per spiegare come, per qualsiasi seppur futile notizia da pubblicare, i giornalisti americani reputino necessaria acquisirne la conferma provata. Come facevano anche i giornalisti italiani qualche decennio fa, mentre ora lo fanno solo in pochi.
Ed eccoci alle considerazioni finali
La maratona non si corre da soli e la partenza è esaltante perché 20, 30, 40 mila persone partono tutte insieme gioiose.
E tra loro c’è gente di ogni estrazione sociale e culturale. Quasi nessuno conosce l’altro, ma tutti si ritrovano a darsi forza vicendevolmente. E tutti i runners – tranne i pochi campioni professionisti – vogliono solo arrivare in fondo e non pensano a battere il record del mondo. Al massimo a migliorare il proprio. E lungo il percorso, poi, i runners raccolgono gli incitamenti degli spettatori sconosciuti che passano loro acqua e cibo.
Alla fine, per loro, c’è solo la medaglia meritata da finisher a premiare ogni sforzo.
La passione che accomuna i runners e rende uguali le fatiche che essi sopportano li unisce anche spiritualmente, al di là della condivisione sportiva.
È difficile spiegarne le ragioni, ma penso che la corsa sia sempre stata per l’uomo un modo di esprimersi profondissimo perché naturalissimo. Non intendo avventurarmi sul terreno della filosofia, non ne sono capace, ma penso che più la vita esterna si complica e più la corsa diventa per l’uomo, a causa della sua genuinità, il modo per semplificarla.
Il sudore della corsa è testimone della fatica dei muscoli, ma i muscoli dolgono e danno il segnale dell’esistere; mentre lavorano danno alla mente – per quel tempo – la possibilità di occuparsi quasi solo del passo ritmato e di sentirne il “suono”: ecco perché, pur appassionato di rock, non mi sono mai allenato con cuffiette e musica.
Il passo ritmato e sempre uguale è fondamentale per finire la maratona (il che, come ho detto, è il vero obiettivo dell’amatore, più del conseguimento del suo best time) ma nella vita – e finché viviamo – quel passo si chiama coerenza e significa dignità. Ecco perché sono d’accordo con chi ha scritto che il maratoneta non è l’uomo più bello, non è l’uomo più forte, non è l’uomo più veloce, il maratoneta è l’uomo più resistente (Mauro Covacich, La maratona è un’arte che sfida il fallimento, in «Corriere della Sera», 31 ottobre 2009)
Il risveglio
Il giorno dopo una maratona finita, è sempre gradevole: corri all’alba o quasi, per poco tempo, nelle metropoli che si svegliano, per scaricare i muscoli dall’acido lattico accumulato il giorno prima. Ma in realtà ripensi ad ogni chilometro della tua gara e, mentre ancora stringi la medaglia di finisher, ti godi la soddisfazione di avere centrato l’obiettivo.
È la stessa soddisfazione che prova nella vita quotidiana chiunque promette qualcosa a se stesso ed agli altri in nome del dovere e poi la ottiene o, se non ci riesce, fa davvero di tutto per ottenerla lottando con le unghie e coi denti.
Se, invece, non mantiene la promessa e non lotta per dar corpo al proprio dovere, ci si comporta come quei maratoneti- truffatori che a New York, giunti alla First Avenue dopo il Queensboro Bridge, anziché svoltare a destra per il Bronx, tagliano irregolarmente verso Central Park, rischiando di scivolare su una delle bucce di banana disseminate su quel percorso irregolare, pieno di curve impreviste: in quella calca, forse, solo pochi si accorgeranno del trucco, giusto il gruppo di spettatori sul marciapiede che loro fenderanno, ma quei falsi maratoneti sapranno che non meritano la medaglia di finisher, anche se egualmente saranno riusciti a farsela appendere al collo.
Meglio sarebbe stato cadere sfiancati dalla fatica, ma lungo il percorso ufficiale.
Meglio cadere lì, perché le forze ti abbandonano, magari lontano dalla linea dei 42 chilometri e 125 metri, senza la soddisfazione di vedersi infilata al collo la medaglia di finisher, ma con la consapevolezza di aver dato tutto, affrontando di petto uno sforzo rivelatosi superiore alle proprie possibilità: in quel caso, almeno, la gente avrebbe applaudito con forza e convinzione il maratoneta in ginocchio, manifestandogli simpatia e riconoscenza, certamente utili in vista del successivo tentativo di arrivare al traguardo.
Scaldiamo sempre i muscoli, allora.
E prepariamoci ad affrontare ogni percorso con determinazione, duri in ogni impegnativa salita, ma prudenti in ogni ingannevole discesa.
Mio figlio
Anche questa volta voglio concludere ricordando mio figlio Andrea: correre talvolta con lui nei parchi milanesi mi ha reso sempre molto più felice di quando ho tagliato i traguardi delle mie maratone, salvo che nel 1998 a New York, quando Andrea mi aspettava al traguardo e ci siamo abbracciati al mio arrivo.