Irrequieto, volubile, dissoluto, Charles Baudelaire è un gigante della poesia mondiale, capace di vette liriche assolute e di sguardi profondissimi. Me lo fece amare la mia professoressa di francese e io, per estensione, credo di aver platonicamente amato anche lei. Forse aveva ragione Baudelaire a scrivere che la più grande astuzia del diavolo è far credere che non esiste. A volte, però, sembra proprio che il diavolo faccia invece di tutto per farti credere alla sua esistenza.
Questa è una storia di ferite aperte e di dolore non rimarginato, una storia che sembra fatta apposta per convincere tutti che il diavolo esiste davvero, una storia di uomini e motori spezzati.
Questa è la storia dei giorni dell’Inferno di Monza ’73.
Atto primo
20 maggio, domenica. L’Italia del calcio attende le 15.00 per il fischio d’inizio dell’ultima partita di campionato; lo scudetto è questione di un punto tra Juventus, Milan e Lazio.
C’è anche un’altra Italia che attendeva impaziente quella giornata: l’Italia dei motori. A Monza, si corre il Gran Premio Motociclistico delle Nazioni, quarto appuntamento del motomondiale, ci sono tutte le classi e tutti i campioni: lo spettacolo è assicurato. La giornata a Monza sarà lunga; il programma inizia alle 9,00 con la classe 250 juniores e prosegue con la classe 50, la 125 alle 11,00, la 350 alle 14.00, la 250 alle 15,15 la 250 e poi ancora la classe regina delle 500 e persino i sidecar. Sulla 350, però, dobbiamo dire qualcosa in più.
Il duello delle 350
Uomini e motori, paura e coraggio, follia e azzardo, amicizia e rivalità, nei duelli del motociclismo c’è tutto, ma solo una cosa è sicura più di ogni altra: in pista non ce n’è per nessuno. In pista ognuno è per sé, ognuno è l’eroe di sé stesso, a volte ognuno è persino Dio.
Renzo Pasolini e Giacomo Agostini quel giorno, sulle 350, mettono in scena uno dei loro duelli migliori. La MV Agusta di Ago è in testa, mangia la pista e sembra avere la meglio, ma il Paso e la sua HD Aermacchi non mollano. Non so cosa avrà pensato Pasolini mentre si avvicinava sempre più ad Agostini, o cosa avrà pensato mentre lo superava scaricando a terra il furore di un qualche dio del motore che doveva averlo ascoltato e benedetto. Non so cosa avrà pensato all’uscita dalla Parabolica quando sente il motore andare in agonia e morire lì, sotto di lui. Si ferma e non può fare altro che guardare Agostini andare a vincere. Mancavano tre giri, solo tre giri. Poteva essere la sua volta buona, ma quel dio dei motori che prima lo aveva benedetto era stato capace di voltargli le spalle in un attimo. Secondo me Pasolini in quel momento avrà pensato, stai buono lì che adesso mi rifaccio.
Adesso non era un’ipotesi, adesso sarebbe stato solo tra un po’ perché Agostini e Paso si sarebbero sfidati di nuovo nella gara delle 500 in programma tra qualche ora, subito dopo quella delle 250.
Adesso, a volte, può essere per sempre, vero Paso?
Il duello delle 250
Di qualche anno più giovane, Jarno Saarinen è campione del mondo uscente di classe e ha già vinto le prime tre gare di stagione. Su quarantotto gare disputate in carriera, ne ha vinte quindici e sul podio è salito trentadue volte. Jarno è il finlandese volante, capace di vincere una 500 alla gara di esordio, ha stoffa, stile e coraggio e qui, se c’è un uomo da battere, è solo lui. Non ha avuto una vita facilissima; famiglia numerosa, perde il padre molto giovane, inizia presto a lavorare nell’impresa di famiglia, continua a studiare ingegneria, ma soprattutto si appassiona ai motori. Per ora corre, ma il suo sogno è progettarli. Nel 1963 inizia a correre lo speedway su ghiaccio. Appena qualche anno dopo Gilles Villeneuve inizierà con qualcosa di simile, nel suo caso motoslitte in Canada. Insondabili i motivi delle assonanze. Insondabili le parentesi che si aprono e si chiudono nello stesso modo.
Nella 250 Saarinen e Pasolini avevano duellato per tutta la stagione precedente vinta dal finlandese con un solo punto di vantaggio perché Paso rompe all’ultima gara.
Pasolini ha spirito guascone, fa il pilota, ma fuma, beve, tira tardi e con le donne non si risparmia mai. Pasolini è vino rosso e risata vera, poche ore di sonno, motore da accarezzare e strisce di asfalto da conquistare. È un irregolare Paso, ma tutti gli vogliono bene. I duelli non lo preoccupano, vincere o perdere possono essere il capriccio di un dio, correre invece è cosa sua. Solo sua. Lui pensa a correre, non a vivere e meno che mai a morire. Solo a correre.
Ore 15,15
Su una specie di altana a bordo pista il braccio dello starter tiene alto il tricolore, i cuori vanno a mille, i respiri sono fermi. È un attimo, il braccio si abbassa, la bandiera sventola, sulla griglia di partenza i piloti spingono, saltano in sella, i motori impazziscono, il rumore è un inferno. Già, un inferno.
Pasolini sfreccia, li brucia quasi tutti e si piazza secondo dietro Dieter Braun. Con quei 1.200 metri di fettuccia che fanno a manetta, i piloti arrivano davanti al Curvone ad almeno 200 all’ora. E allora via, estetica pura, movimento, velocità, bellezza: non una corsa, una filosofia. E allora via, ci si allarga a sinistra per poi tagliare a destra e riprendere sulla sinistra. È un disegno perfetto, un monologo poetico. Invece no. È solo l’Inferno che apre le porte.
Ore 15,17
La moto di Paso perde il controllo, non piega, va dritta sulla sinistra dove la pista finisce su balle di paglia impietose che sono poco più che un ornamento, non servono a proteggere i piloti, ma solo a coprire il guard-rail.
Moto e pilota si separano, non più ferro e corpo fusi, ma solo ferro e corpo. Separati, inerti. Paso rimane a terra, quello che resta della moto rimbalza verso la pista. No, Dio santo, non verso la pista e basta, ma verso Saarinen che è colpito in pieno, sbalzato e schiantato a terra. Testa, viso, spalle. Tutto andato, niente più promesse, niente più di niente: così muore Jarno, all’istante.
Nel filotto impazzito rimangono coinvolti una decina di piloti, l’asfalto del Curvone è un campo di battaglia. Il Curvone è Shakespeare, è l’Enrico V, è il discorso di San Crispino.
Dolore, coraggio sfumato, disperazione, fiamme. Un Inferno, sì.
Paso non muore sul colpo. Uno dei primi ad accorrere fu il medico personale di Saarinen, il dottor Costa. Vede perso Jarno, si precipita su Paso e prova a rianimarlo, prova a lungo, prova fino a quando non sviene, ma non c’è nulla da fare.
I 35 anni di corsa di Paso finiscono qui, nell’Inferno del Curvone di Monza ’73, insieme a Jarno. Li immagino voltarsi indietro e andare via casco in mano e braccia sulle spalle dell’altro a cercare altre piste e altri motori.
Lo zampino del diavolo, la mano degli uomini
Quel 20 maggio a Monza non ha funzionato nulla. Forse Paso e Jarno sarebbero morti ugualmente, ma le domande sono macigni.
Il rattoppo sull’asfalto all’imbocco del Curvone ha tolto aderenza alla moto di Pasolini? A fine gara i piloti della 350 avevano segnalato che al Curvone c’era olio a terra, perso dalla Benelli di Walter Villa. Nessuno gli diede ascolto. L’olio era ancora lì quando sono partite le 250? Sembra proprio di sì. Una sola ambulanza arrivata dopo 15 minuti, i pompieri dopo oltre 20, le altre ambulanze dopo una mezz’ora, il Curvone senza via di fuga. Tutto normale? Difficile crederlo.
L’indagine accerterà che l’HD Aermacchi di Pasolini aveva grippato. Un buon motivo per finire fuori pista, certo. La perizia però non può dire in quale momento sia avvenuto il grippaggio. Non può dire se sia stata causa o conseguenza dell’incidente. E in ogni caso, se ci fosse stata una via di fuga per lo scivolamento delle moto, se non ci fosse stato il guard-rail, se ci fosse stata una doppia cintura di balle di paglia la moto di Pasolini non sarebbe ripiombata su Saarinen.
Tutto spiega tutto. Coincidenze e concause sono diaboliche e quindi sì, possiamo anche pensare che il diavolo ci abbia messo lo zampino, ma in mancanza di prove certe sulla sua esistenza è la mano degli uomini che dobbiamo guardare.
Dopo l’incidente del 20 maggio a Monza non cambia nulla, il Curvone rimane tale e quale.
Il 20 maggio, per Monza ’73, è stato solo il primo atto.
Secondo atto
8 luglio, domenica. Gran parte dell’Italia è spiaggiata in versione balneare, qualcuno forse si accorge della notizia che annuncia la morte a Hong Kong di Bruce Lee, altri invece sono a Monza dove si corre la 500Km del Torneo Magnani delle Derivate di Serie. Indetto dalla Federazione Motociclistica, il Torneo dedicato al fondatore della rivista Motociclismo si correva dal 1971.
Un mondo particolare quello delle Derivate di Serie; si correva appunto con moto “normali”, spesso preparate in maniera artigianale, e si correva in coppia su gare di durata. Correvano campioni, ma anche appassionati puri, gente che faceva altro nella vita, ma che coltivava il fuoco della velocità in pista.
Quel giorno a Monza, in occasione della 500 Km delle Derivate di Serie, si corre anche la 500 Km del Campionato Italiano Juniores.
Quel giorno a Monza, il diavolo si era già messo comodo.
L’Inferno. Ancora una volta
Tra i ventinove piloti in gara ci sono Carlo Chionio, Renzo Colombini e Renato Galtrucco. Tre storie diverse, tre vite diverse.
Chionio, 25 anni, milanese e laurendo in medicina, ha solo qualche mese di gare sulle spalle. Colombini, 30 anni livornese è un autotrasportatore con gare e trofei vinti. Galtrucco, 35 anni, è un imprenditore milanese, dei tre è quello con maggiore esperienza di corse e del mondo dei motori.
Dal 20 maggio sono passati neanche tre mesi, il ricordo è fresco, le domande sono rimaste appese, ma quando sei in pista pensare a ieri è un lusso che non ti puoi permettere.
Alle 9,00 i tre sono alla griglia di partenza della 500 Juniores. Ognuno con la sua posizione, ognuno con i suoi tempi, ognuno con la voglia di correre e dimostrare quello che vale lui e il suo motore. Nessuno pensa ad altro. Non c’è tempo.
Si parte. Pista, tribune, parco e anche oltre, tutto è avvolto da un tuono che giganteggia; sono le moto che rombano e saettano sgranando come un rosario ventinove anime sulla pista.
Il quarto giro
Alle 9,30 siamo al quarto giro, la gara è tutta davanti. Si vince, si perde, si corre. Alle 9,30 però il tempo finisce, la corda stringe il sacco. Siamo al Curvone. Sempre lì, ma questa volta all’uscita. È qui che il diavolo apre ancora una volta la porta dell’Inferno.
Colombini perde il controllo, la Suzuki addrizza la curva e va a sbattere contro il guard-rail, lui muore sul colpo e la moto, ancora una volta, rimbalza sulla pista e ancora una volta è una carambola. Galtrucco non può evitare la Suzuki e cade, Chionio che lo segue cade anche lui e la sua moto investe Galtrucco in pieno. L’ultima corsa di Galtrucco sarà quella vana sull’ambulanza; muore lì. Per Chionio le speranze durano appena un paio d’ore; morirà in ospedale.
È un film gia visto, lo stesso del 20 maggio. Altre tre vite, altre tre storie e l’Inferno, sì. L’Inferno ancora una volta.
La fine dell’innnocenza
Monza ’73 segna un punto di non ritorno per il motociclismo. Il circuito rimarrà fermo per un paio di anni, nel frattempo finalmente si mette mano alle regole e la vita dei piloti inizia a non essere più considerata un optional. Quello che per l’automobilismo era accaduto dopo la tragedia di Ignazio Giunti, ora accade anche per il motociclismo.
La fine dell’innocenza non è mai indolore.
Quella dei motori è storia viscerale, emotiva, umana come poche, come tutte quelle che mettono in gioco il destino.
Monza ’73 significa cinque vite, campioni o appassionati poco importa. Importa però continuare a raccontarli per strapparli all’ultima ingiustizia, quella dell’oblio che è altra astuzia del diavolo.
Noi no, l’oblio proprio non ce lo possiamo permettere e al diavolo non la diamo vinta.