Se vi dovesse sembrare un paradosso, siete in tempo per ricredervi.
Un ciclista di curva può esistere e io lo sono per almeno tre buoni motivi.
Un bambino in biciletta
Il primo riguarda la mia vita, quella in cui sono capitato e che sin dall’inizio poteva prendere una curva sbagliata che chissà dove mi avrebbe potuto portare.
Io sono nato a Milano, nel 1937, quartiere Isola, al tempo non proprio un bel posto, ricco solo di un’umanità spesso marginale che vi albergava e che lo avrebbe reso noto come uno dei quartieri della mala milanese.
La mia famiglia viveva di lavoro, ma nel mezzo dei sacrifici che si facevano per andare avanti brillava la passione per il ciclismo di mio padre.
Una passione che non si poteva permettere di praticare, ma di cui era avido di emozioni.
Una passione contagiosa.
Il mio Vigorelli
Qui arriviamo al secondo motivo.
L’altra curva importante della ma vita l’ho incontrata che avevo veramente pochi anni.
Non una curva di vita o di strada, ma di pista.
Una curva di quello che per tutti noi è stato, e nella memoria continua a essere, il tempio del ciclismo: lo storico velodromo Vigorelli di Milano.
Solo evocarne il nome strappa il velo del tempo e mi fa rivedere ancora bambino stretto nella mano di mio padre che mi portava con lui a vedere le corse dei pistard, eroi curvi e stretti a un manubrio che sfidavano tempi, traiettorie ed equilibri precari in quell’altro mondo del ciclismo che è la pista.
Ebbene io al Vigorelli più crescevo e più mi stringevo alla balaustra della curva di arrivo mentre trepidavo per l’arrivo dei mezzofondisti.
La balaustra di una curva che mi avrebbe indirizzato verso la strada della mia vita; il ciclismo, ovviamente in pista.
La curva come metafora
E finalmente siamo al terzo motivo.
La curva definitiva, quella che ho percorso migliaia e migliaia di volte nella mia vita di ciclista mezzofondista dietro motori.
La curva delle piste dove correvo una specialità oggi appannata, uscita dal panorama olimpico, piste che sono state testimoni di sfide e gesti atletici straordinari.
Quella curva dove stare dietro ai motori non è poi così banale e scontato, ma gioco di tecnica e studiato equilibrio e solo qualche volta, se una discreta fortuna gioca dalla tua parte, anche improvvisato.
La curva, quindi, per me è metafora e destino, sfida e direzione obbligata, confidente a cui ho affidato sogni e ambizioni ricevendone una vita sportiva ricca di emozioni e di passione.
Una passione che veramente mi ha sempre accompagnato; quando la rincorrevo immaginandomi grande da bambino, quando la vivevo nei sogni toccati con mano da atleta, quando la rendevo contagiosa nei sogni condivisi da allenatore e direttore sportivo e anche adesso che mi rende vivo il ricordo.
La pista come passione
Una passione che mi ha fatto iniziare a correre da subito, per strada, da irregolare.
In pista, dietro ai motori, ci si poteva andare solo dopo i 18 anni, ma io mica avevo tutto quel tempo da perdere.
È così che ogni cosa che si muoveva in strada, a quattro o a due ruote, diventava il mio sparring partner del momento e mentre gli altri ragazzini dell’Isola si dedicavano a giochi, studio, primi amori e anche altre cose non sempre raccontabili, io correvo e inseguivo, inseguivo e correvo.
Finalmente i 18 anni arrivano e la pista inizia a scandire il mio tempo quotidiano, la mia vita da stayer.
Dal 1959 al 1961 sono campione italiano dilettanti nel mezzofondo, poi passo professionista e tra il 1965 e il 1973 conquisto otto titoli italiani, gli ultimi due indoor, prendo il bronzo ai Mondiali di Amsterdam del ’67, stabilisco il record mondiale sui 100 km e il record mondiale dell’ora.
Gli anni passano, il mondo cambia e cambiano anche le regole del mezzofondo e anche per me arriva il momento di passare la mano.
O meglio, di cambiare veste.
Cambio corsa
Lascio la corsa, ma poco dopo, nel 1976, inizio la mia second life, quella da allenatore che mi ha regalato emozioni ed incontri straordinari.
Correre può essere un talento o una vocazione, ma insegnare, veder crescere gli atleti e portarli al successo è una soddisfazione veramente unica.
E anche in questa veste le soddisfazioni non sono mancate, grazie anche a quello che avevo imparato dal mio allenatore storico, August Meuleman, con il quale ho avuto un’intesa molto più che sportiva.
Soddisfazioni che si chiamano, ad esempio, Pietro Algeri e Bruno Vicino: con loro ho condiviso tutto, sogni, emozioni, delusioni, risate e anche qualche lacrima.
Nel 1979 cambio ancora; da allenatore a direttore sportivo.
Sono gli anni di Moreno Argentin, che incontro quando correva da dilettante nella Baggio San Siro e che poi seguo da professionista nella Gewiss Bianchi, un team straordinario di cui all’epoca era amministratore delegato Felice Gimondi e che aveva in scuderia atleti come Paolo Rosola, Emanuele Bombini e Davide Cassani.
A Colorado Springs nel 1986 Moreno diventa campione del Mondo, l’anno seguente il nostro team vive una straordinaria stagione di successi nazionali e internazionali collezionando ben 27 vittorie.
Ciclista di curva
La ma vita da ciclista di curva, quindi, è stata ricca di emozioni indimenticabili e, tra queste, una grande soddisfazione è di aver non solo preso dalla vita, ma anche di aver restituito insegnando tutto quello che avevo imparato, pareggiando così il conto del dare-avere.
Nel 2015 la città di Milano mi ha voluto omaggiare con l’Ambrogino d’oro, riconoscimento riservato ai figli illustri di Milano.
Confesso di esserne stato particolarmente contento ed emozionato.
Per me, ragazzino dell’Isola che ha inseguito curve per non perdere di vista i suoi sogni, è stato un momento che non avrei mai immaginato di vivere.
Mi piace pensare però che, più che per la mia vita da ciclista, l’Ambrogino d’oro sia stato un tributo all’uomo che da bambino mi ha portato sulle spalle e per mano ad incontrare il mio destino al Vigorelli.
Mio padre.