06.30: sveglia, colazione e scuola.
13.30: via di corsa a casa col motorino.
14.30: allenamento in bici fino a che non era buio e poi ancora palestra, piscina, compiti.
Non c’era un momento di pausa nella mia gioventù ciclistica.
Si fermava tutto. Finiva la scuola, finiva il Campionato di calcio ma non finiva mai la stagione della bici era quella di un ciclismo infinito.
Il mio ciclismo
Scendevo dalla bici da strada e salivo su quella da cross. Papà mi portava nel parco vicino un vecchio ospedale di corso Calatafimi. Mi diceva sempre che bisognava correre a piedi sul morbido per non farsi male alle ginocchia e lì era perfetto.
In quel parco alternavo gli allenamenti in bici a quelli di corsa a piedi e ricordo bene il rumore degli aghi dei pini ad ogni mio passo o sotto le mie ruote, ricordo quel muretto dove facevo stretching e soprattutto ricordo ogni insegnamento di quei giorni.
La sera poi andavamo in palestra e a seguire subito in piscina.
Era una routine che mi massacrava e per questo una volta tornato a casa mia mamma mi trattava come un re. A tavola mi passava l’acqua anche se era a 10 cm da me e dopo, sul divano, mi riempiva di carezze. Bastava dire: “Maaaa” e lei faceva qualsiasi cosa per me. Papà mi ha insegnato sin da piccolo che “ciò che semini poi raccogli“, perciò ogni anno che passava gli allenamenti si facevano più intensi e il ciclismo mi si mostrava per quello che è.
Quell’anno papà decise di farmi correre il Campionato Italiano ciclocross a Legnano
Sinceramente non sapevo nemmeno dove si trovasse Legnano e solo il nome mi faceva pensare a qualcosa di difficile da dover affrontare. Lo raccontavo a tutti come fosse già un motivo di vanto dire “vado in Lombardia a fare una gara”. In realtà gliene fregava il giusto un po’ a tutti delle mie trasferte.
Arrivammo a Malpensa ma per me era come essere a New York. La nebbia al momento dell’atterraggio aveva azzerato ogni mia idea riguardo a ciò che avrei trovato. Mi aveva quasi spaventato e fatto pensare di non essere parte di quel tipo di mondo.
In fin dei conti, io non avevo mai visto la nebbia, in Sicilia è cosa rara.
Cena in camera. Come a casa
Ricordo di aver mangiato in camera con papà. Naturalmente il fedele fornellino col quale cuoceva la pasta prima delle gare non poteva mancare e così anche lì risparmiammo una cena al ristorante. Ma a parte il risparmio volete mettere un piatto di pasta all’olio fatta da tuo padre piuttosto che da uno sconosciuto in un ristorantino in mezzo alla nebbia lombarda?
Era come sentirsi un po’ a casa, calmava le mie paure.
Il mio ciclismo non è mai stato semplice
Se da piccolo sognavo di diventare un professionista, da grande sognavo di tornare bambino e di non avere più quelle responsabilità. La paura è stata parte integrante e forse è ciò che mi ha fatto resistere fino alla soglia dei 40 anni.
Marziano io? Marziani gli altri?
Il giorno prima del Campionato Italiano andai con papà a provare il percorso. Guardavo gli altri e vedevo dei marziani.
Quel grigiore accentuava ancora di più quella mia sensazione, mi sentivo bloccato, non guidavo la bici, era lei che guidava me…o quanto meno ci provava. Ricordo di essere arrivato al punto del “salto”. Ero ipnotizzato, guardavo ovunque tranne ciò che contava e così saltai male. Mi scordai proprio di prendere la bici dal sellino e mi ritrovai per terra con la paura di rialzare la testa dalla vergogna. Alcuni bambini, ragazzi, mi guardavano male, alcuni sgomenti parlottavano tra loro indicandomi, altri ridevano.
Io piangevo dentro dalla vergogna e ancora una volta mi chiedevo cosa ci facessi lì.
Le domande di sempre
Perché ero lì? Quale scopo avevo, a cosa mi serviva! A farmi prendere in giro?
Queste cose me le chiedevo spesso anche quando in classe mi deridevano per la mia strana ricreazione. Rimanevo in classe, seduto. Aspettavo che tutti uscissero per prendere il thermos che conteneva la pasta che mamma mi preparava al mattino presto.
Mangiavo la pasta a ricreazione per anticipare l’uscita in bici non appena tornato a casa. Dovevo sfruttare anche pochi minuti in più di luce per allenarmi ma questo “laggiù” suonava strano. “Talè a chistu, ma a chi ci serbe, ma picchì un si mancia a pizza! Ma unni voli arrivari!” (Guarda questo, ma a che serve, ma perché non mangia la pizza! Ma dove pensa di arrivare!)
Ecco, loro non sapevano dove volevo arrivare.
La gara di Legnano
Beh, di certo neanche io sapevo di dover passare da Legnano e fare quella figura per arrivare dove volevo.
In quella gara partii demoralizzato, oltre che tra gli ultimi, poiché non avendo mai corso prove nazionali non avevo il punteggio necessario per partire tra i primi.
Eravamo circa 60 ciclisti e sarebbe stata un’impresa per me anche solo portarla a termine in quello stato. Arrivai nono con una rimonta pazzesca, con una bici che valeva un decimo delle bici dei primi.
Fu una gara tutta di grinta e di voglia di rivalsa. Un bel risultato. Ma sapevo di poter fare di più.
Mmh, fare di più…lo penso tuttora
Potevo fare di più e non solo quel giorno. Quel salto l’ho sbagliato tante altre volte in senso metaforico.
Troppe volte ho guardato agli altri come avversari irraggiungibili, ostacoli insormontabili.
Credo di poter dire che la mia carriera non si definisca in base al numero di vittorie, ma in base al numero di sconfitte che non sono state in grado di fermarmi.