Walter Bonatti. Le drammatiche ore sul Rondoy

Walter Bonatti e la sfida all'inaccessibile Rondoy, sulle Ande peruviane. 40 ore drammatiche con la Montagna che reclama il suo dazio. Questa volta, però, ha sbagliato i conti perchè dall'altra parte c'è Walter Bonatti. E anche lui è Montagna.
Walter Bonatti

Walter Bonatti e la montagna. Un sistema binario, un destino ineludibile, uno scrigno di storie e di imprese epiche, alcune notissime, qualcuna poco ricordata. Proprio come questa. Proprio come le drammatiche 40 ore sul Rondoy.

Walter

Classe 1930, bergamasco, negli anni subito dopo la guerra Walter Bonatti si avvicina alla scalata e alle pareti di roccia; era impiegato alla Falck di Milano, spesso raccontava di andare a scalare anche la domenica o subito dopo il turno di notte in fabbrica.
Ha 21 anni quando, al terzo tentativo, riesce a completare la salita della parete est del Grand Capucin, parte della Cresta du Diable del Monte Bianco.
Se c’è una data che segna il suo punto di non ritorno sulla via dell’alpinismo, forse è proprio questa.
Uomo di grande intuito e coraggio, Walter Bonatti affronterà molte cime ardite nel corso della sua vita, ma il suo nome entrerà nella storia dell’alpinismo italiano, e non solo, anche per due imprese particolari: il K2 nel 1954 e il Rondoy nel 1961.

Il K2

Quando affronta il K2 ha solo 24 anni ed è il “galoppino” della spedizione; 30 uomini, di cui 13 alpinisti italiani, guidati da Ardito Desio. La salita fu davvero complessa; gelo con temperatura che arrivava fino ai -50, buio e ossigeno rarefatto condizionavano e rallentavano movimenti, respiro, orientamento.
L’impresa è storica.
Il 31 luglio, a quota 8.611 la vetta è violata. 
Achille Compagnoni e Lino Lacedelli piantano la bandiera italiana e pakistana sotto gli occhi di Walter Bonatti che, insieme ad altri quattro alpinisti, li guarda dall’VIII campo base a quota 7.627.

Il Rondoy

Tra il 1954 e il 1961 montagna, vette e avventura sono la vita di Walter Bonatti.
Poi arriva il Rondoy, 5.870 metri, Ande peruviane, l’Himalaya americano, una specie di piramide di roccia e ghiaccio.
Il 24 Maggio 1961, dopo aver lasciato da cinque giorni il villaggio di Chiquian, agli occhi di Walter Bonatti, Andrea Oggioni, Giancarlo Frigieri e Bruno Ferrario, il Rondoy è davanti a loro: maestoso, invalicabile, trascendentale.
Nessuno di loro si spaventa.
Nessuno di loro ancora può sapere che le prossime saranno tra le ore più drammatiche della loro vita.

Bonatti Rondoy

La Natura si presenta subito all’incasso.

Pioggia e neve li fermano ancora prima di iniziare la scalata; i sentieri di avvicinamento diventano paludi di fango dove uomini e bestie si sorreggono a vicenda e a turno sprofondano, a volte fino al petto.
Il campo base è a circa 5100 metri, arrivarci è uno sforzo quasi al limite delle possibilità, ma inevitabile.
Arrancano, faticano, ma arrivano, si sistemano e si guardano intorno.
Sanno già cosa fare.
Il Cerro Paria-Nord (5.172) e il Nevado Ninashanca (5.605) osservano,  forse incuriositi da quegli esseri minuscoli che sembrano voler fare sul serio.
Tempo due giorni ed entrambe le vette sono conquistate.
Il mal tempo, sovrano incontrastato, continua però a tenerli stretti in una morsa fino alla fine di maggio.
La decisione è presa; è il momento del coraggio, tempo o non tempo si parte, il Rondoy, la cima più alta è lì, bisogna solo andare e tornare giù.

Andare e tornare giù. A dirlo sembra facile.

Alle 23,25 del 4 giugno, quando la neve sembra lasciare tregua, Walter Bonatti insieme ad Andrea Oggioni, suo fraterno compagno di scalate, Andrea a cui la morte bianca aveva già dato appuntamento e se lo porterà via appena un mese dopo al Pilone Centrale del Freney, sul Monte Bianco, lasciano il campo base.
È l’inizio del calvario.
Il pendio era totalmente ghiacciato e piantare i chiodi sarebbe stato molto rischioso, inoltre aveva una ripidità che, in certi punti superava, anche i sessanti gradi.
Ma qui non si tratta solo di tecnica o strategia, quanto di saper affrontare i problemi e guardare in faccia le proprie paure, in questo Bonatti non ha eguali.

Inizia la salita, i battiti accelerano.

Alla luce di lampadine tascabili e ben impressa a mente la figura della montagna, la coppia parte per un primo attacco alla cima, ma le condizioni sono davvero insostenibili, sono costretti a tornare al campo, ma hanno le idee più chiare su come proseguire.
Decidono dunque di lasciare tutto ciò che poteva essere pesante e superfluo negli zaini.Il giorno dopo partono nuovamente con il favore del giorno.
A metà salita vengono colti da un’altra tempesta inaspettata, è neve pesante che non concede tregua e respiro.

Bonatti Rondy

Walter Bonatti ha un’illuminazione: vede una rientranza, fa cenno ad Andrea Oggioni di andare in quella direzione e iniziare a scavare.
I due scavano per un’ora e mezza un “rifugio” lungo 5 metri dove trovar riparo. Una volta all’interno si deve pensare ai passi successivi: trascorrono lì la notte, in preda ai dubbi e al gelo.
Dopo poche ore la neve sembra diminuire: è il momento di attaccare di nuovo il Rondoy.
La visibilità è scarsa, ma ormai la vetta è vicina, sembra quasi che la possano sentire, scalano quasi in verticale, fattore che fa diminuire otticamente i metri da coprire.
Ricomincia a nevicare, ma non ci si può fermare proprio a questo punto; la tempesta è violentissima, la neve ghiaccia gli indumenti, ma i due continuano per quasi 4 ore.

Rondoy Oggioni
(Andrea Oggioni verso la vetta)

In vetta!

Alle 17.10 del 6 giugno, dopo 40 ore di scalata, due bivacchi in parete e una lotta continua contro una tormenta che non aveva mai smesso di battergli contro, Walter Bonatti posa per la prima volta mani e piedi sulla cima, si trova sulla cornice estrema; fa cenno ad Andrea Oggioni di indietreggiare.
Tornano entusiasti al rifugio, ma la notte è infernale per il freddo insopportabile e per la preoccupazione dei pericoli del giorno successivo. Passano 12 ore, il percorso era ormai stato tracciato, il sole sembrava illuminare la salita conclusiva verso la cima del monte.

Alle 7.30 toccano nuovamente la vetta, Andrea Oggioni pianta le bandierine dell’Italia e del Perù mentre Walter Bonatti lo fotografa.

Bonroy Oggioni
(Andrea Oggioni con le bandierine in vetta al Rondoy)

In basso gli altri compagni della spedizione, Ferrario e Frigieri, vedono due puntini neri sulla vetta, li chiamano a gran voce ma il vento la porta chissà dove e allora si sbracciano.
Idealmente, con il cuore e con il coraggio, su quella vetta sono tutti insieme.

Dopo aver toccato l’infinito con un dito, per Walter Bonatti e Andrea Oggioni è tempo di scendere, di schivare le valanghe che il sole ritrovato sta già facendo staccare e di ricongiungersi con Ferrario e Frigieri.
I quattro hanno vinto la sfida.
Ora si torna a casa.

 

Rachele Colasante nata a Roma nel 1999, da sempre incuriosita dalle storie, studia Lettere a RomaTre cercando di scrivere la sua al meglio. Ancora non sa dove la condurrà il suo percorso, ma per ora si gode il paesaggio.

ARTICOLI CORRELATI

Attilio Fresia

Attilio Fresia. Oltre confine

Alla voce “pioniere” il dizionario di Oxford dice: “Scopritore o promotore di nuove possibilità di vita o di attività, collegate specialmente all’insediamento e allo sfruttamento relativo in terre sconosciute”. Spesso visionari, sempre coraggiosi. Attilio Fresia, forse né l’uno e né l’altro. È però il primo calciatore italiano all’estero. Non è poco. 

Leggi tutto »
Barazzutti e Connors

Corrado Barazzutti. Il furto di Forest Hills

1977. Us Open. Forest Hills, più che campi un tempio del tennis. Corrado Barazzutti arriva con la Davis cilena conquistata, è in forma e va avanti sino a dove nessun italiano era mai arrivato. La semifinale lo vede contro Jimmy Connors. Poteva finire in ogni modo, ma quello che fa Connors va oltre l’immaginazione e segna una delle più brutte pagine del tennis.

Leggi tutto »
San Siro

San Siro Rock Star. Dove suonano le leggende

Una lacrima,un ricordo, un emozione. La musica live è legata storicamente ai luoghi. L’attimo, un fermo immagine è impresso in un abbraccio, in una canzone, al compagno che avevi vicino. E quel tempio, San Siro ne ha regalati a milioni di fans. Oggi, parlare di demolizione è come abbattere un’idea, una storia, cancellare un luogo di culto. Da esso la parola cultura. Solo per ciò che ha rappresentato, ospitato e celebrato, bisognerebbe elevarlo a “monumento della musica nazionale”. San Siro, la Scala del rock, come lo definì Mick Jagger. Oltre 130 concerti, il meglio del rock mondiale ha calcato il suo terreno di gioco. Bowie, Vasco, Marley, Stones. Quarant’anni ed oltre a suon di musica e non sentirli. Finché ce ne hai stai lì, lì nel mezzo.

Leggi tutto »
GUERRA DEL FOOTBALL

La prima guerra del football

Terra, campo, pallone. Sembra un gioco, ma non sempre lo è. Non lo è stato nel 1969 quando El Salvador e Honduras si sono scontrati per la qualificazione a Mexico ’70. 100 ore di combattimenti e bombardamenti, 6.000 morti, 10.000 feriti non sono un gioco, sono la prima guerra del football.

Leggi tutto »
Armin Hary

Armin Hary. I 100 metri di Roma ’60

Armin Hary, forte di essere stato il primo a fissare il tempo sui 10 netti, arriva alle Olimpiadi di Roma da favorito. La gara regina dei Giochi Olimpici sarà serrata, ma Hary non deluderà le aspettative e sarà il più veloce. Veloce quanto la sua brevissima carriera.

Leggi tutto »
Alfred Wegener

Alfred Wegener. Il ghiaccio come destino

Una vita di studio e di avventura quella di Alfred Wegener. Scenziato ed esploratore, teorizza la Pangea e la deriva dei continenti, nel 1906 stabilsce il record di permanenza in volo su pallone aerostatico e per tre volte affronta il grande ghiaccio della Groenlandia. L’ultima spedizione nel 1930, poi anche il destino diventa ghiaccio

Leggi tutto »
Gigi Riva

Quando Gigi Riva tornerà…

9 aprile 1977. Gigi Riva lascia il calcio, quello giocato. Scarpini, maglietta, calzoncini, arbitri, fischietti e goal. Tanti goal. Sembra ieri. Era ieri. Il tempo, se sei Rombo di Tuono, è solo un opinione.

Leggi tutto »



La nostra newsletter
Chiudi