Sono 24 anni dal primo ottomila di Nives Meroi, il Nanga Parbat, prima italiana, naturalmente in coppia con Romano Benet, compagno fisso di vita e di corda.
Sono 17 anni dalla traversata dei tre ottomila (Gaherbrum I e II, Broad Peak).
Sono 16 anni dalla conquista del K2, la vetta che più di ogni altra sentiamo nostra, attraverso lo Sperone Abruzzi.
Da soli senza sherpa, senza ossigeno supplementare, senza aiuto a battere la traccia sul percorso.
L’Everest è di 15 anni fa, l’anno dopo il Manaslu, undicesimo ottomila di fila.
Le salite non sono solo di montagna, lo dice la vita.
Un brutto infortunio sul Makalu, la malattia di Romano, l’alpinismo che da gioco diventa corsa e così non piace più.
L’arroganza dell’alpinismo commerciale è insopportabile, certe volte puoi far finta di niente, qualche altra volta meglio lasciar perdere e fare altro. E davanti al pericolo non c’è vergogna nel tornare sui propri passi, ci si riprova, se da nord non va, c’è un’altra parete, c’è un’altra stagione.
La resa quella sì, non si conosce.
Questa è gente tosta: quando il corno squilla sa riconoscere il richiamo, conosce il rispetto, accetta la sfida, rilancia.
Alle 9 locali dell’11 maggio 2017 raggiungono il picco dell’Annapurna, al terzo tentativo, completando così le 14 vette sopra gli ottomila nel mondo, senza sherpa né ossigeno supplementare ca va sans dire.
La prima coppia a raggiungere questo straordinario traguardo.
Gli ottomila. Quattordici più uno.
Nives Meroi è l’orgoglio di Bonate Sotto, nella bergamasca, che l’ha vista nascere il 17 settembre di 61 anni fa. Decide però che il suo campo base è Fusine Laghi, Treviso, Friuli Venezia Giulia. A 19 anni conosce Romano, da quella prima invernale alpina al Pilastro Piussi, parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza, ne hanno fatta di salita insieme.
“Quindici, sono quindici gli ottomila che ho scalato” dice Nives, la malattia del marito la più ardua, i segni addosso ancora adesso.
Nel 2009 sul Kangchenjunga, quota 7500, Romano comincia a perdere le forze, sente che non va, non ce la fa ma implora Nives di continuare.
La vetta è lì, la gloria pure.
Nives rifiuta e sostiene il marito nella discesa.
Non era un male passeggero, era anemia aplastica. Doppio trapianto di midollo osseo e mesi d’inferno per rivedere ramponi e piccozze.
Cinque anni per rivedere l’Himalaya, ancora lì il Kangchenjunga, stavolta domato.
Insieme, in silenzio, gli occhi pieni di parole.
La coppia più bella forse, sicuramente la più alta del mondo.