Al campetto di solito si andava il mercoledì e il venerdì pomeriggio.
Era la sfida, andata e ritorno contro quelli della borgata.
La mia squadra era composta dai ragazzi che abitavano alle case in affitto dei vari enti che si erano appropriati di una parte di Roma facendo crescere palazzoni alti otto, nove piani, abitati da famiglie operaie, con tanti sogni e tanti figli.
La squadra avversaria proveniva da un’altra zona. Dalle case popolari, quelle che ricorda bene Eros Ramazzotti nel suo Nato ai bordi di periferia. Tra l’altro lui è cresciuto in questa zona.
Noi contro loro!
Il giorno prima c’incontravamo per decidere l’ora, sempre la stessa, alle quindici, la maglia, una squadra giocava con quella bianca e portava il pallone.
Le squadre erano veramente forti, c’erano veri talenti, il problema, sempre lo stesso, chi mettere in porta. Era il capitano, quello bravo col fazzoletto legato al braccio, a decidere chi mandare in porta, fisso, o fare turnazione. I piu’ forti erano sempre il numero nove, il centravanti, e il numero dieci, il centrocampista. La maglia bianca la compravi a Standa o la prendevi da tuo fratello piu’ grande, le taglie non esistevano, neanche gli sponsor se è per questo, e il numero era scritto a penna, ricalcato più volte, di dietro.
La numerazione era rigorosamente dal numero uno al numero undici.
Fenomenologia del campetto
Prima della partita ogni squadra preparava il campo delineando le righe del campo strusciando le scarpe sulla terra.
Sì le scarpe! Chi aveva gli scarpini era “un signore”.
Erano scarpe di tela e quei pochi scarpini che giravano in campo erano i soliti TepaSport, di colore nero con una V bianca sopra, avuti per regalo per la comunione o di solito con la buona pagella scolastica.
Le porte al campetto erano poco più che immaginarie, con un mucchio di sassi a far da pali, la distanza la ottenevi contando otto passi. La traversa era a piacere cioè si decideva in corso partita se il tiro era alto oppure no.
Lo spogliatoio del campetto
Si arrivava sul campetto di terra e polvere con la busta della spesa rubata alla mamma, dove dentro c’era la maglietta, un pantaloncino, nero o blu, che era quello che si usava a scuola durante l’ora di ginnastica, i calzini erano solo per quelli che se lo potevano permettere, avevano un bordo che andava sotto il tallone. Li mettevi tirati giù, alla Omar Sivori.
C’era chi giocava con le scarpe buone, quelle di sempre.
Ci spogliavamo alla luce del giorno, mettevamo i panni ammucchiati da una parte dietro la porta di solito. Un breve allenamento sul campo, per scaldare il portiere e poi ecco che la sfida inizia.
Il pallone del campetto
Il pallone era importante, innanzitutto da riportare a casa e non farselo rubare dagli avversari, la storia della sfera di queste sfide nasce con il SuperTele per passare poi al SuperSantos, tutti e due di colore arancione con righe nere, difficilmente si giocava con quello di cuoio a meno che…
Non eravamo tanto dei bravi ragazzi, se serviva il pallone, quello vero, di cuoio, c’erano due modi per averlo. Uno era andare all’oratorio, individuare una buona sfera, far finta di giocare insieme a chi era il proprietario di quel pallone per poi lanciarlo fuori il muro di cinta con un tiro a sbilenco, alto che superava la parte bassa dell’edificio.
Chi sbagliava doveva andare a riprenderlo su strada, a sbagliare, guarda caso, era sempre uno di noi, che usciva per non tornare piu’.
Il secondo modo è strettamente legato al settimo comandamento, mai rispettato.
Il pallone di cuoio assumeva peso se per caso si giocava sotto la pioggia e s’impregnava d’acqua piovana, sembrava una palla di marmo.
Le regole del campetto
Le squadre in campo, i due capitani fanno pari o dispari per scegliere campo o pallone, si comincia!
C’erano alcune regole da rispettare, ogni tre corner era rigore, una delle piu’ importanti.
La partita finisce quando si arriva a dodici gol, sempre e comunque con due reti di scarto.
Niente arbitro, non esiste il fuorigioco. Spesso, per non perdere vigeva la legge Palla o Piede.
Quanti calci e quante ginocchia sbucciate! Importante era vincere, mai solo partecipare, e se si perde, dopo due giorni, appena c’era la sfida di ritorno, guai chi molla!
I titolari del campetto
I nomi dei giocatori? Ricordo solo certi soprannomi: Papetto, Zimba, Vetrina (per via degli occhiali) e poi immancabile er Roscio, er Bionno, e pochi capelli.
Dall’altra parte c’era: er pesciolone, ciccio, er zagaja (balbuziente), rubba-rubba (per via del vizietto).
Nessuno voleva perdere e spesso le partite finivano anche prima per la solita rissa, sia nel campetto e sia fuori, che aveva sempre un seguito, il giorno dopo, con la sassaiola.
A quel tempo non esistevano marchi internazionali e giocatori ultramiliardari
Il calcio lo seguivi per radio con Tutto il calcio minuto per minuto e alla televisione la domenica pomeriggio con 90° Minuto e la sera dopo le ventidue con La Domenica Sportiva, preceduta sempre dallo sceneggiato, a volte palloso e pesante. Chi non ricorda però La freccia nera, con una giovanissima Loretta Goggi. La televisione era in bianco e nero.
La mia squadra sempre una, sempre quella, la Roma, a quei tempi Rometta.
Giacomo Losi era il capitano, non c’erano i fenomeni, se pareggiavi in casa contro la pur sempre odiata Juventus, era come una vittoria.
Adesso tutto è cambiato
La Subaugusta è diventata via Palmiro Togliatti, il campetto è un parcheggio, ci sono rimaste solo le case popolari dove non ci trovi più nessuno che parla romano, abitate in gran parte da nuclei familiari di altri paesi.
Sono rimasti i ricordi, quelli non li cancelli mica facilmente!