Cile 1976. Zugarelli e la Coppa Davis della discordia

Non dovete andare. Andiamo? Non andiamo. Andiamo, andiamo disse Pietrangeli, sento che vinceremo. Tonino Zugarelli racconta il tennis, gli anni settanta e la Coppa Davis 1976, in Cile. La nostra Coppa Davis. Molto più che una Coppa.
Zugarelli Coppa Davis

I non più giovani amanti dello sport con la rete al centro del campo e le due racchette, e gli appassionati di più giovane età, ricorderanno, i primi, e avranno attinto dalle cronache, i secondi, che il 1976, per la prima e unica volta, fu l’anno in cui l’Italia del tennis, dopo due tentativi falliti, nel 1960 e l’anno successivo, vinse a Santiago del Cile l’ambito trofeo della Coppa Davis.
Quella bella, quella vera che si disputava nell’arco di tre giorni e dove 5 tennisti per ciascun Paese si alternavano in varie combinazioni il venerdì due singoli, il sabato il doppio e la domenica, se necessario gli altri due singoli.
Quella cilena, fu la competizione della vivace discordia che, incredibile solo a pensarlo oggi, finì sul tavolo del Governo, presieduto all’epoca, facile a immaginarsi, da Giulio Andreotti.
Ma quali i fatti che la caratterizzarono in quel modo lì?

(Coppa Davis 1976. La squadra italiana)

Gli anni ’70 e l’anno del trionfo

Ci troviamo a metà degli anni ‘70, l’Italia era in un perenne stato di allerta, eravamo nel bel mezzo dei cosiddetti anni di piombo, e il Cile era governato dal dittatore Augusto Pinochet che nel 1973 aveva deposto il Presidente Salvador Allende. Di fronte a un atteggiamento silente del Coni, la politica del tempo, ovvero, la parte più di sinistra, forte anche del sostegno dell’analoga parte politica di quel paese, si trovò a dover dibattere al proprio interno se mandare o meno in sud America i nostri atleti a competere con i padroni di casa. Parliamo dell’allora PCI guidato da Enrico Berlinguer e di quello cileno che mal avrebbe digerito una vittoria a tavolino della squadra di casa. Peraltro, vi è da dire che il Cile si trovò in finale fortunosamente in quanto la Russia, rifiutando di ricevere in casa propria la squadra cilena, perdette a tavolino il confronto. I nostri avrebbero potuto trovarsi di fronte tutt’altri avversari.

Nicola Pietrangeli, capitano non giocatore della squadra, dichiarò che il quintetto ricevette anche minacce affinché non partissero, ma erano troppo decisi a farlo, sentiva che ce l’avrebbero fatta. Gli altri componenti la squadra erano Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Antonio Zugarelli, Tonino per tutti.

(Coppa Davis 1976. La squadra italiana con Giulio Andreotti)

Il tennis italiano quell’anno aveva toccato la vetta del successo, Panatta vincitore dei due più importanti tornei sulla terra rossa, gli Internazionali di Roma a maggio e il Roland Garros di Parigi a giugno. Con il compagno di doppio Bertolucci poi ebbe la meglio sulla Gran Bretagna a Wimbledon nella finale europea della Coppa Davis. Il risultato permise loro di proseguire alle semifinali intercontinentali.

Febbraio 2022

È uno dei primi giorni di febbraio, una giornata soleggiata, la temperatura è mite al Bar del Tennis del Foro Italico e l’orologio segna le 11 e 15. Davanti a una calda tazza di caffè, la persona che è dall’altra parte del tavolino, in tuta e con un berrettino di lana calzato in testa, fino a coprirgli anche le orecchie, inizia a raccontare e anche a raccontarsi; perché l’uomo ancora oggi, settantenne, è come ce lo ricordiamo. Per qualche secondo, giusto per sorseggiare il caffè, si abbassa la mascherina e notiamo – era scontato – che non ha più quei folti baffi neri (oggi tutti bianchi, baffi mai tagliati) che da ragazzo lo marchiarono rispetto agli altri tre, Panatta, Bertolucci e Barazzutti, ma di sicuro di quel ragazzo è rimasta viva la semplicità e riservatezza, qualità rare a trovarsi oggi fra gli atleti di qualsiasi sport che per bravura o per fortuna sono saliti sul gradino più alto del podio anche solo una volta.

Prima il calcio, poi il tennis

Ho iniziato a giocare a tennis molto tardi, la mia passione era il calcio e giocavo anche bene, del resto per noi nati nel ’50 l’unico modo per praticare uno sport era giocare a pallone, non occorrevano molti soldi – esordisce così Tonino Zugarelli – vengo da una famiglia modesta, ma poi, una profonda delusione (che non ci racconta) e la mano di Dio che cambia i destini delle persone, mi aiutarono a passare da un rettangolo di gioco più grande di colore verde a uno più piccolo tutto rosso.

L’ha buttata lì Tonino, dice di giocare bene a pallone, non fa cenno al suo tennis che invece gli ha consentito di avvicinarsi ai primi venti del mondo e di vincere il più ambito trofeo cui un tennista dell’epoca potesse aspirare. Il solito basso profilo. Poi riprende a parlare, proprio così, perché la mia non vuole essere un’intervista ma semplicemente una chiacchierata tra amici, amici futuri, almeno così si spera.

(Tonino Zugarelli)

Cominciai a vincere

Negli anni sessanta il tennis non era ancora uno sport di massa, era per pochi, ma io frequentavo i circoli più importanti di Roma, così per arrotondare facevo il raccattapalle e quando potevo guardavo giocare i maestri che nel tempo libero mi permettevano anche di palleggiare. Anch’io ho fatto il palleggiatore, questa figura si chiamava così. Uno con il quale palleggiavo, un maestro, mi iscrisse a un torneo, vi partecipai contro la mia volontà, dovetti farlo per cortesia e vinsi; sempre qui, in uno dei circoli sul Tevere partecipai ad un secondo torneo e vinsi pure quello e, andando avanti, per meriti o per fortuna iniziai a battere uno alla volta tutti quei ragazzi romani che erano visti come promesse del tennis nostrano. Siamo nella seconda metà degli anni sessanta. Si sa che l’appetito vien mangiando.

Ci fermiamo un minuto, il caffè si è raffreddato e si avvicina un giovanotto in tuta. È il figlio di Zuga, gli stringo la mano. Aiuta a riflettere la storia di Tonino se si pensa che oggi la gran parte dei ragazzi prende la prima racchetta in mano a cinque, sei anni senza arrivare neppure a classificarsi. La storia di Tonino la dice lunga sul talento naturale dell’uomo. Chissà se avesse iniziato a cinque sei anni dove sarebbe arrivato. Ma erano altri tempi. Si giocava più per divertimento che per arrivare a diventare un numero Uno o per i soldi in palio. Siamo ancora nell’era del dilettantismo. Poi Tonino riprende a parlare.

CT Eur

 A quel punto si fece avanti il Circolo Tennis Eur dove mi sentii più protetto, mi diede infatti la possibilità di lavorare seriamente e anche una paga che mi permise di andare avanti sulla strada intrapresa. All’epoca erano tre i circoli più blasonati, appunto quello dell’Eur, il Tennis Roma e il Parioli. All’Eur iniziai ad allenarmi con continuità, serietà e con tutti i crismi e così, nel sessantotto, vinsi quasi tutti i campionati italiani ai quali partecipai prima di passare in seconda categoria. Continuai a vincere, venni considerato un fenomeno perché in un anno raggiunsi anche il vertice di quella categoria tanto da ricevere la telefonata della Federazione, era Belardinelli che mi chiamava per chiedermi se ero disposto ad entrare nel Centro Tecnico di Formia. Naturalmente accettai con grande entusiasmo. Quando mi capitava un’altra occasione come quella.

 Un fenomeno, decisamente un fenomeno lo è, e quando pronuncia la parola la voce cala, pare quasi se ne vergogni, tanto l’uomo è timido e ha fatto del basso profilo una scelta di vita. Si sarà chiesto tante volte se meritava essere appellato così. L’aria è sempre più calda, ma Roma a febbraio può sorprendere anche per il suo clima. Tonino si abbassa lievemente la mascherina, prende aria prima di tornare sul suo racconto. Lo vedo molto partecipativo.

Il passaggio tra i grandi

A Formia conobbi quelli che poi sarebbero diventati i miei compagni di viaggio e di avventura in Cile. Fui l’ultimo ad unirmi al terzetto. Insieme abbiamo fatto un lungo percorso. Per doti caratteriali probabilmente di entrambi mi trovai più vicino a Corrado, Panatta e Bertolucci dal canto loro erano una coppia ormai consolidata. Nel tennis ovviamente. Qualcuno all’epoca inventò probabilmente notizie non vere, non ricordo, forse alzò inutilmente della polvere. Tra noi quattro non ci fu mai un solo screzio. Io e Barazzutti stavamo più per conto nostro e altrettanto facevano gli altri due. Non dimentichiamoci che io arrivai a Formia come seconda categoria, per me gli altri erano nomi già noti nel tennis che contava e mi avvicinai a loro con il dovuto rispetto pur essendo coetanei. Mi pare che Corrado fosse il più giovane, ma di uno o due anni al massimo.

Lo interrompo chiedendogli se all’epoca già conosceva Pietrangeli. Mi risponde “no di persona, poi arrivò l’occasione”.

La prima volta con Pietrangeli

Fu nel 1971 quando, passato in prima categoria, durante il campionato italiano a squadre, Corrado ed io, entrambi del Tennis Eur ci scontrammo con la Canottieri Olona di cui faceva parte Nicola. Il nostro primo incrocio fu di racchette. Nicola era alla fine della sua carriera, infatti quello stesso anno, credo ad agosto, il tennis italiano cambiò volto. A Senigaglia, dopo una lotta bestiale, una partita memorabile, Nicola fu battuto da Adriano che si aggiudicò così il primo torneo Atp e in quelle ore divenne il nuovo mito del Tennis italiano. Anch’io all’epoca incontrai due volte Pietrangeli e vinsi facile, probabilmente per non essersi impegnato troppo, anche se la nostra generazione contribuì a cambiare il modo di giocare. Io ad esempio andavo spesso a rete e gli facevo le palle corte, lui prediligeva il palleggio. A quei tempi il tennis di Nicola, di Tacchini, di Maioli era caratterizzato dal gioco da fondo campo e dal fraseggio, il nostro era un tennis molto più moderno. Loro erano dei regolaristi, non pallettari, regolaristi, noi ci proiettavamo a rete, davamo più ritmo alla partita e avevamo imparato a dare maggiore accelerazione alla palla, per quanto fosse possibile con le racchette di legno. E dopo due tre anni a Formia, avevamo preso il dominio, eravamo il nuovo tennis italiano, la new age. Non ce n’era per nessuno.

(La squadra italiana con la Coppa Davis)

 Chi era il vostro coach all’epoca?

Non c’era, non esisteva la figura, Pietrangeli era capitano non giocatore, avevamo invece un referente, colui che per noi era come un papà, era Belardinelli, il solo con il quale avevamo un eccellente feeling. La strada al successo ce la segnò lui, fu lui che creò il gruppo in una decina d’anni ed ebbe la capacità di tenerci uniti per tutto il tempo e di sostenerci nei vari incontri di Coppa Davis ai quali partecipammo, cosa che per noi di quell’epoca voleva dire toccare il cielo con un dito.

Ecco, veniamo alla Coppa Davis Tonino. Lui cambia espressione in volto e parte. Come fosse deluso però. Lo fa con il suo solito tono di basso profilo. Voglio saperne di più, gli chiedo di lasciarsi andare e gli dico che non lo interromperò.

Riserva io? Mai

La Coppa Davis di oggi è un surrogato di quella che abbiamo giocato noi. È qualcosa di uguale ai tanti altri eventi tennistici che servono per riempire gli spazi della televisione con gioco e pubblicità. La nostra era il punto di arrivo della carriera di qualsiasi tennista. Com’era concepita quella, oggi non potrà tornare, per me è finita.

(Coppa Davis. Zugarelli, Panatta e Pietrangeli. Photo Credit: Ansa)

La nostra Davis iniziò molto prima del Cile, nell’ottobre del 1974 all’Ellis Park di Johannesburg arrivammo in semifinale dove fummo battuti 4 1 dalla squadra di casa più per impreparazione al contesto, all’ambiente che per limiti tecnici o carenze di altro genere. Comunque io perdetti in cinque set, avrei potuto anche vincere, incontrammo invece condizioni proibitive: non avevamo esperienza di gioco a due mila metri di altitudine, non avevamo alcun rapporto con il cemento perché non avevamo mai giocato su quel fondo. Solo Corrado, forse, aveva giocato a Flushing Meadows. Dal Sud Africa in avanti consolidammo la squadra.

Due anni dopo a Santiago non combattemmo solamente contro il Cile, avevamo contro la politica di casa nostra e la pubblica opinione, arrivammo lì in punta di piedi, trionfammo e dovemmo tornare a Roma quasi vergognandoci dell’impresa che avevamo fatto. Io e Belardinelli uscimmo da una porta di servizio, Panatta e Barazzutti evitarono le uova. Fummo contestati. E poi la stampa dell’epoca mi irritò profondamente, da tempo mi trattava come la “riserva” della squadra. Io confesso di aver sofferto e di considerare immeritati quei commenti, e ne spiego le ragioni. Non mi stava bene che quando i giornali parlavano di noi si dicesse “la squadra di Panatta, Bertolucci e Barazzutti e la riserva Zugarelli”. Solo di recente, anche grazie a un docufilm si è deciso di rimettere a posto le cose. Le riserve in Coppa Davis non esistono, è la squadra che conta e gioca chi è nelle migliori condizioni o a seconda di chi è l’avversario di turno.

Lo interrompo solo per dirgli di essere d’accordo con lui e a tal proposito, ove non lo ricordasse o non lo sapesse, gli dico che Franco Selvaggi ai mondiali dell’82 in Spagna non entrò mai in campo, mai nessuno però gli ha negato il titolo di campione del mondo o ha parlato di lui come riserva del gruppo.

È naturale che io fossi il terzo, rispetto a Panatta e a Barazzutti che erano tra i primi dieci, Bertolucci giocava solo il doppio. Quando ad esempio contro la Francia, proprio qui a Roma Panatta giocò male, fummo scelti io e Corrado, diciamo come titolari, non per questo Adriano in quella circostanza fu la riserva. Eravamo tutti convocati e giocava chi era più in forma. In Sud Africa, sul cemento Belardinelli scelse me e non Corrado. Giusto per chiarire. Altrettanto accadde in Inghilterra, sull’erba, dove venni preferito a Barazzutti e fra l’altro aprii la strada per accedere alla finale. Parlare quindi di Zugarelli come riserva è non solo offensivo, ma decisamente sbagliato come concetto. Giocatori anche più bravi di me come Canè o Camporese non sono entrati nella storia. Io mi considero fortunato perché se vinci una Coppa Davis, entri nella storia a pieno titolo. E io ci sono entrato.

Alla fine dell’82 decisi di abbandonare il tennis professionistico.

Zugarelli oggi
(Tonino Zugarelli)

 Su queste parole pensiamo di fermarci, del resto cos’altro avrei potuto farmi raccontare?

Io invece ho avuto il piacere di incontrare Tonino un paio di settimane successive a questa chiacchierata, alla fine di febbraio. Questa volta in tuta su uno dei campi del Foro Italico per giocare con lui. Rettifico, per palleggiare con lui.
E per me è stato un grande onore.

 

 

Vincenzo Mascellaro, uomo di marketing, comunicazione e lobby, formatore, scrittore e oggi prestato al giornalismo

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