È un tempo sospeso quello si respira nel Galles. I resti di Roma che qui è stata per oltre 350 anni, i castelli medievali, le valli di un verde capace di abbagliare come se fosse sole, lo Snowdon che sconfina alto sul paesaggio e le tante coste frastagliate che si gettano a picco in un mare di voce e onde possenti. Coste frastagliate sì, tante, ma non tutte.
A Carmarthen la natura ha sparigliato le carte, ma non poteva essere diversamente. Nella mitologia celtica Carmarthen non è un luogo qualunque. È qui che Goffredo di Monmouth nella sua Storia dei re di Britannia fa nascere Myrddin, ovvero Merlino, il mago, il profeta, il bardo, figura centrale della narrazione arturiana, archetipo di un mondo capace di parlare per vie sottili. Ed è qui, nella baia di Carmarthen, che troviamo Pendine Sands, una striscia di sabbia dura che per sette miglia separa le dune dal mare.
Le spiagge della velocità
Con strade inadeguate e ancora pochi circuiti idonei dove spingere al limite automobili che già erano mostri di potenza, nei primi decenni del novecento sono le spiagge a diventare protagoniste della velocità. In Gran Bretagna dal 1905 si corre sulla spiaggia di Filey, dal 1906 su quella di Saltburn e dal 1925 si correrà su quella di Southport.
Negli Stati Uniti, invece, dal 1902 si corre sulla fettuccia di spiaggia tra Ormond Beach e Daytona e dal 1912 nello Utah, sulla distesa di deserto salato di Bonneville Salt Flats. A Daytona, in particolare, la velocità trova da subito un luogo ideale che la vedrà protagonista di ben quindici record del mondo. Tra questi quello di Bob Burman, che il 23 aprile 1911 spinge la sua Blitzen Benz a 228,11 Km/h, e quello di Ralph De Palma che nel 1919 lo supererà toccando i 241,20 km/h su Packard. L’ultimo record sarà fissato il 7 luglio 1935 da un uomo che ci riguarda, Malcolm Campbell, ma di lui parleremo più avanti.

Pendine Sands
È in questi anni che Pendine Sands trova il suo destino e che uomini di fegato e d’ingegno iniziano ad animarla.
Dopo aver visto gareggiare in era vittoriana cavalli, biciclette e uomini, la prima traccia di motori a Pendine Sands la troviamo il 18 agosto 1905 quando Mansel Davies, gallese di Llanfyrnach, vince la prima gara motociclistica. L’esordio per le automobili è invece del 16 luglio 1909, con le cronache che ce ne restituiscono una quarantina in gara mentre diverse centinaia di persone sono assiepate sulle dune per assistere allo spettacolo.
Nel 1922, e per alcuni anni seguire, a Pendine Sands si correrà la Welsh TT Race. Su un tracciato di 50 miglia, il vincitore di quella prima edizione sarà tal Bush su Harley-Davidson, davanti a tal Lindsay su Norton.
La vocazione alla velocità di Pendine Sands, seppur a fasi alterne, arriverà sin quasi ai giorni nostri, ma è dal 1924 al 1927 che uomini straordinari, qui, faranno cose straordinarie.
I tre sono Malcolm Campbell, John Godfrey Perry-Thomas e il nostro Giulio Foresti.
Qualcuno potrebbe avere la tentazione di chiamarli pionieri, ma sarebbe un errore; questi uomini sono stati giganti. Potremmo liquidarli con un paio di righe e qualche numero, ma non andrebbe bene. Ognuno di loro merita qualcosa di più.

Malcolm Campbell
Se mai un uomo è stato capace di sfidare ogni tipo di velocità guardandola in faccia, questo è stato sicuramente Malcolm Campbell, uomo dalle molte vite: ragazzo irrequieto, impiegato al Lloyd, commerciante di diamanti sulle orme del padre, giornalista, concessionario di automobili e, ovviamente, pilota.
Malcolm arriva alla velocità da giovanissimo: ha 17 anni quando compra la sua prima motocicletta e ne ha 21 quando, nel 1906, vince la prima delle tre Londra-Edimburgo consecutive. Durissima, la Londra-Edimburgo sfidava i partecipanti a coprire le circa 400 miglia di strade inimmaginabili entro le 24 ore. Alle automobili arriva nel 1908, quando esordisce sul circuito di Brooklands con una Darracq e dove, due anni dopo, ottiene la sua prima vittoria. A Brooklands si appassiona anche del volo appena nato, disegna e costruisce un aereo sulla falsariga di un Bleriot. Un’idea ardita che, però, visti i deludenti risultati, abbandonerà quasi subito.

Bluebird
Nel 1912, ispirato da uno spettacolo teatrale, L’uccello azzurro di Maurice Maeterlinck, Malcolm fa dipingere di blu la sua Darracq. L’epopea delle Bluebird – così d’ora in poi chiamerà tutte le sue automobili – inizia così.
Mentre Malcolm continua la sua vita di corse, la storia corre di suo. Scoppia la Prima Guerra Mondiale e lui si arruola; motociclista portaordini, trova il compito troppo noioso ed entra nel Royal Flying Corps. Porterà a casa la pelle, si congederà da capitano e le corse torneranno a essere il suo quotidiano.
Il primo record a Pendine Sands, Malcolm lo fissa il 25 settembre 1924 su Sunbeam Tiger 350HP da 18,3 litri V12, motore di derivazione aeronautica, potente, innovativo e con un nome che è un programma: Manitou. Sul miglio lanciato tocca i 235,22 km/h e nel luglio 1925 si migliora arrivando a 242,74 Km/h.
I record contano, ma al demone che Malcolm si porta dentro non bastano; vuole abbattere il muro delle 200 miglia e vuole farlo con l’automobile che ha in testa. Disegnata da Charles Amherts Villiers, costruita sotto lo sguardo attento del suo meccanico personale Leo Alfonso Villa, alimentata da un motore Napier Lion 22,3 litri da 450 HP, la Napier-Campbell entra in scena il 4 febbraio 1927. Sotto un cielo grigio e basso Malcolm fa segnare 281,447 km/h sul chilometro lanciato e 280,386 km/h sul miglio lanciato.

Uomo della velocità pura
Malcolm Campbell segnerà l’ultimo dei suoi nove record terrestri toccando i 484,955 km/h a Bonneville Salt Flats il 3 settembre 1935. A chiunque sarebbe bastato così, a chiunque, ma non al suo demone.
Adesso è tempo di lasciare il segno sull’acqua dove, con gli idroplani Bluebird K3 e K4 fissa quattro record di velocità, di questi due sul Lago Maggiore nel 1937. L’ultimo lo fisserà a Coniston Water il 19 agosto 1939 spingendo il K4 a 228 km/h. Nei suoi velocissimi anni trenta troverà anche il tempo per dedicarsi alla ricerca di un tesoro dei pirati alle Cocos Island. Nonostante la sua irrinunciabile sfida alla velocità, Malcolm Campbell morirà di morte naturale nel 1948. In un certo senso, un record anche questo. Il demone lo ha seguito fino all’ultimo.
John Godfrey Parry-Thomas
J.D. sembrava avviato verso una vita tranquilla. Gallese di nascita, studi solidi, ingegnere laureato all’Imperial College di Londra, J.D. maneggia tecnica e inventiva, ha talento, deposita brevetti e si impiega alla Leyland Motors dove si occupa di veicoli commerciali. Dalla guerra esce indenne e quando rientra in Leyland viene messo alla progettazione di un modello di lusso che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto competere sul mercato con la Rolls-Royce. Non ne cura solo disegno e soluzioni tecnico-motoristiche, si occupa anche del collaudo. Lo fa personalmente e per farlo inizia a girare sul circuito di Brooklands. È così che velocità entra nella sua vita; nulla sarà più come prima.
Nel 1920 J.D. si dimette dalla Leyland; ha un talento da innovatore e vuole metterlo a frutto, ha una nuova passione che lo morde, la velocità, e vuole seguirla. Apre una società con un ingegnere neozelandese, la sede è a Brooklands. Non dura. Il neozelandese muore non molto tempo dopo, J.D. allora rileva le quote societarie e a Brooklands ci va a vivere.
Siamo nel 1923 e in quella baracca del Flying Village che in tempo di guerra aveva ospitato i militari del campo di volo, la trasformazione di John Godfrey Parry-Thomas si compie. Inizia a condurre una vita ritirata, quasi ascetica; unici contatti con il mondo le automobili, le corse e i suoi due pastori alsaziani. In effetti J.D. ha un buon manico: corre, vince 38 gare e in altre si piazza secondo. Può bastare? No, non può.

La vita di John Godfrey Parry-Thomas si incrocia con quella di Louis Zborowski.
Figlio di un pilota morto in corsa nel 1903, ingegnere con il vezzo di farsi chiamare conte, pilota e uomo speciale anche lui, Zborowski insegue il sogno delle macchine da record. Le disegna, le costruisce, passeranno alla storia motoristica con il nome di Chitty-Bang-Bangs ed entreranno nella letteratura ispirando Ian Fleming per una delle missioni di 007.
Vita intensa e breve quella di Zborowski con un destino che emula quello del padre; il 19 ottobre 1924 muore in gara sul circuito di Monza. Di lui rimane una macchina che non ha ancora mai girato, la Higham Special, ovvero la Chitty-Bang-Bangs IV spinta da un motore da aero Liberty da 400HP. John Godfrey Parry-Thomas intuisce e non se la fa scappare. La compra, ci lavora sopra, apporta modifiche, la fa sua in ogni senso. Forse, in qualche angolo della sua mente, alberga l’idea che quella sia la macchina del suo destino. Gli cambia nome. La chiama Babs e inizia a correrci, inizialmente con qualche delusione, ma lui interviene ancora sul motore e sulla carrozzeria. Il 27 aprile 1926 J.D e Babs sono a Pendine Sands, un paio di giri per prendere confidenza e svegliare il motore e poi via. Prima il miglio lanciato con 270,431 km/h e poi il chilometro lanciato con 272,303 km/h: sono record, ma l’asceta aspira alla perfezione. Il giorno dopo è di nuovo in corsa e si migliora: sul miglio lanciato segna 273,954 km/h, sul chilometro lanciato 275,283.

La corsa ai record però è serrata
Il 4 febbraio Malcolm Campbell, sempre a Pendine Sands, si riprende il trono.
J.D. sta al gioco. Il 3 marzo esce da Brooklands, destinazione Beach Hotel, Pendine Sands. Tediato da un’influenza, non è al massimo della forma, ma che vuoi che sia. Alle 14,30 lui e Babs sono sulla spiaggia pronti per riprendersi il record. La prima manche punta verso est, Babs ruggisce, sputa fuoco, mangia sabbia e vento e gli addetti ai controlli segnano una velocità mai vista prima: 300 km/h.
Poi arriva il destino.
Babs sbanda per alcune centinaia di metri prima di cappottarsi e continuare a scivolare sulla sabbia poi, chissà per quale disegno dinamico misterioso, si rialza, si mette su tre ruote e traccia un tre quarti di giro insensato sulla sinistra sino a fermarsi proprio di fronte al mare. Un attimo dopo prende fuoco. Pendine Sands non è più una striscia di spiaggia da record, ma un’ara pagana dove si consuma il sacrificio di chi ha osato sfidare la dea.
John Godfrey Parry-Thomas, decapitato nell’incidente, termina il suo transito terrestre e da asceta si ricongiunge con l’Assoluto. Può sembrare che tutto finisca così, invece no, c’è ancora altro.

Babs
La commozione per la sorte di John Godfrey Parry-Thomas – primo pilota a morire durante un tentativo di record – è forte. Centinaia le lettere di condoglianze spedite al Beach Hotel dove viene fatto recapitare anche un modello di auto interamente fatto con le violette. Il biglietto che lo accompagna è anonimo e struggente “Ride on, ride on, in Majesty”. Lo spirito trova sempre la sua strada. Anche per Babs sul cui destino si apre un piccolo dibattito. Babs non viene lasciata andare giù nel mare d’Irlanda, come pure qualcuno aveva suggerito. Mentre alcuni si dedicano a smontare e a fare a pezzi il motore e anche ogni abbigliamento residuo indossato da J.D. come il cappottone e il casco di pelle, altri, verso le dune poco lontane, scavano.
Ci vuole del tempo perché scavare una buca lunga 8 metri, larga 3 e profonda 2 è impegnativo.
Una volta volta finita, tutti quanti insieme trainano Babs fino lì, la spingono giù a riposare e la ricoprono. Come Bucefalo, il cavallo preferito di Alessandro Magno sepolto con lui per accompagnarlo e proteggerlo nel nuovo viaggio, anche Babs si ricongiunge con chi l’aveva amata. La morte è però un passaggio; per chi crede è solo l’inizio della resurrezione.
Quaranta anni dopo un restauratore d’auto, Owen Wyn Owe, decide di riportare in vita Babs.
Con alcuni amici studia carte e foto dell’epoca fino a quando non individuano il punto in cui Babs era stata sepolta.
Il 29 marzo 1969 Babs nasce a nuova vita. Recuperata e restaurata con amore e con la partecipazione di tanti che si mobilitano per trovare pezzi originali o repliche fedeli per ricomporla.
Nella commozione generale, dopo circa tre anni, Babs ha rombato ancora e sputato fuoco a Pendine Sands.
Da allora la sua casa è diventata il Pendine Museum of Speed, ma è solo una sosta dove attendere J.D.

Giulio Foresti e il record che non c’è stato
C’è anche una storia italiana a Pendine Sands, la storia di un disegnatore, due ingegneri, un pilota e, ovviamente, anche di una macchina.
Impegnata con le automobili da record, nei primi anni ‘20 la Sunbeam accarezza l’idea di costruire anche una vettura da Gran Prix e ne affida la progettazione all’ingegnere francese naturalizzato britannico Louis Cotalen che, a sua volta, coinvolge Walter Becchia, ingegnere italiano naturalizzato francese, e il disegnatore Vincenzo Bertarione. Provenienti da Fiat dove avevano partecipato alla progettazione della 804 e della 805, portate al successo dagli assi del volante Felice Nazzaro e Carlo Salamano, i due si mettono al lavoro e disegnano la vettura da Gran Premio richiesta. Accade però che Sunbeam lasci i disegni nel cassetto e che il progetto non passi in produzione. A questo punto la storia si colora un po’ di esotico. In una Parigi dove l’atmosfera tardo liberty attira ancora aristocrazie di mezzo mondo, il principe egiziano Djelaleddin anima cronache mondane e coltiva le sue passioni. Tra queste, naturalmente, quella più contagiosa del tempo, la velocità. Passione che lo porta a voler entrare anche lui nella gara dei record di velocità. Saputo dei disegni nel cassetto della Sunbeam, nel 1923 li acquista e ingaggia un altro ingegnere italiano di casa a Parigi Edmond Moglia, collaboratore anche di Ettore Bugatti per la T35. Trasformare una macchina da Gran Prix in una macchina da record è compito arduo, ma Moglia non si lascia spaventare. È così che dalle iniziali dei due nasce la Djelmo.

Alla macchina serve un pilota e il principe lo trova in Giulio Foresti.
Bergamasco coriaceo, Foresti è pilota di valore con un curriculum di oltre dieci anni di raid e corse sulle spalle, nessuna vittoria sfavillante, ma tanti piazzamenti importanti.
Al test di Marsiglia, nel 1924, Foresti porta la Djelmo fino a 257 km/h; se avesse corso con le regolarità da omologazione, avrebbe scalzato il record allora detenuto da Malcolm Campbell. I lavori per perfezionare la Djelmo segnano il passo, la velocità no. Nel 1927, a Daytona Beach, su Sunbeam Mistery, Henry Seagrave sposta il limite di velocità oltre i 300 km/h; troppo per le possibilità della Djelmo. Principe e pilota ne prendono atto e convergono sul tentativo di stabile un record britannico. Il set, naturalmente, diventa Pendine Sands dove Foresti si trasferisce, ma dove tutti i problemi legati a logistica e approvvigionamento non svaniscono nel nulla. I ritardi si accumulano, ma Foresti non si scoraggia, fa quel che può e nei mesi di permanenza diventa personaggio familiare a tutti i frequentatori della spiaggia. Continua a testare la Djelmo e registra scrupolosamente tutti gli inconvenienti riscontrati e su cui mettere mano come, ad esempio, una certa propensione a scartare in coda alle velocità di punta.

Il 26 novembre 1927 Foresti guida come sempre, veloce più che può, pastrano per il freddo e occhialoni sul viso per ripararsi da vento o sabbia. La Djelmo taglia l’aria a 240 km/h quando la spiaggia cambia prospettiva, l’auto sbanda e si capovolge più volte. Non è un incidente, è un miracolo. Giulio Foresti è sbalzato fuori dall’abitacolo, ma se la cava con poche ferite leggere. Un miracolo, appunto.
L’avventura della Djelmo finisce qui, il principe cambia gioco mentre Giulio Foresti, almeno fino al 1934, continua a vivere da pilota. L’ultimo giro lo attende a Bergamo il 4 marzo 1965. Spero che nel mezzo abbia avuto la vita che desiderava.
Ultimo atto
Quando nel Manifesto del Futurismo del 1909 Filippo Tommaso Marinetti “…col volto coperto della buona melma delle officine -impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti-…” afferma che “…la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia” automobile è sostantivo maschile e la velocità, che già da alcuni anni agita la suggestione di tanti, trova il suo sancta sanctorum culturale.
Di Pendine Sands e dei suoi uomini coraggiosi, credo che Marinetti possa andare fiero e noi, o almeno io, con lui.
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