Carrera Panamericana. La tragedia del 1953

Un monumento, non una corsa. La Carrera Panamericana si corre dal 1950 al 1954, pochi anni, ma abbastanza per lasciare un segno indelebile nella storia del motorismo. È dura per tutti, meccanici, piloti, macchine e anche pubblico. Qualcuno non avrà il tempo per poterlo raccontare. Quel qualcuno è storia nostra.
 Marco Panella
Carrera Panamericana Felice Bonetto

Dura, durissima per tutti, piloti, meccanici e macchine.  Oltre 3.000 chilometri che tagliavano il Messico dal confine statunitense a quello guatemalteco, si arrampicavano sui massicci del Messico centrale per poi scendere e dispiegarsi su rettilinei che bucavano l’orizzonte. Una corsa, ma forse è più corretto chiamare la Carrera Panamericana per quello che è stata veramente: un’avventura di uomini e motori. Un’avventura fatta di passione, coraggio, follia e anche dolore perché, come tutte le avventure, anche questa ha preteso un dazio altissimo: tra il 1950 e il 1954, con la Carrera vanno via 27 tra piloti, meccanici e persone assiepate a bordo strada. Delle cinque edizioni, quella del 1953 è storia nostra.

La Carrera

Voluta nel 1950 dal governo messicano per un insieme di motivi politici e industriali, la Carrera deve il nome alla strada sulla quale si snodava – la Ruta Panamericana-, una strada che nelle intenzioni avrebbe dovuto facilitare la discesa in Messico dei turisti nordamericani e che, in attesa dei turisti, diventa scenario di agonismo motoristico tra le principali case automobilistiche europee e nordamericane. Ovviamente noi siamo in prima fila; l’Alfa Romeo sarà una protagonista minore e, con grandi polemiche, correrà solo nella prima edizione, qualche comparsa di Osca e Maserati, mentre le Lancia e le Ferrari, in squadra ufficiale o in scuderie private, sono le macchine – e gli uomini -da battere.

Carrera Panamericana 1953

Anni d’oro

Lo scenario delle corse automobilistiche di quegli anni è effervescente. Nel 1950 la neonata Formula 1 esordisce con il Campionato Mondiale che oggi conosciamo, ma l’anno che a noi qui interessa è il 1953.
Nel 1953 la Federazione Internazionale dell’Automobile consacra le ruote coperte nel Campionato Mondiale Sport che si va a comporre con Mille Miglia, 24 Ore di Spa, 24 Ore di Le Mans, 1000 km di Nürburgring. Tourist Trophy, 12 Ore di Sebring; più che piste e circuiti stradali, monumenti del motorismo. Tra questi, l’ultima gara del cartellone è la Carrera Panamericana, giunta alla sua quarta edizione. L’ultima gara non è una gara qualunque. L’ultima gara è quella che può assegnare il titolo sul fil di lana, quella in cui osare tutto. O rischiare tutto. Lo spirito della Carrera è tutto qui.
Per Lancia e Ferrari il 1953 è una stagione d’oro.
La Lancia a maggio ha vinto la Coppa Florio con Umberto Maglioli, mentre la Ferrari con Gianni Marzotto e Marco Crosara in primavera ha vinto la Mille Miglia e a settembre con Alberto Ascari ha bissato il titolo di Formula 1 vinto nel ’52.

Carrera Panamericana 1953
(Carrera Panamericana 1953. La messa a terra delle Lancia)

Lancia vs Ferrari

In Messico la Lancia arriva in forze. Cinque le vetture sport, di cui tre D24 e due D23. Alla guida delle D24 ci sono Manuel Fangiopilota Maserati con il permesso speciale di correre per Lancia nell’ultima gara del nuovo Campionato Sport – Felice Bonetto e Piero Taruffi, già vincitore dell’edizione del ’51 e amatissimo dal pubblico messicano che lo aveva ribattezzato la volpe argentata. Le D23 sono invece nelle mani di Eugenio Castellotti e Giovanni Bracco. Con loro una trentina di persone tra meccanici e assistenti e persino un camion officina; seguirà il percorso così da poter intervenire il più rapidamente possibile in caso di bisogno. Giovanni Lancia, padre dei successi sportivi della casa e della serie D, tra un paio di anni lascerà l’azienda di famiglia e si dedicherà ad altro, ma per la Carrera Panamericana ha fatto le cose in grande perché lui, quella corsa, vuole vincerla. Questo non avrebbe cambiato la classifica generale del Campionato, grazie ai successi nelle gare precedenti la Ferrari aveva già acquisito un vantaggio incolmabile, ma l’uomo vive di sfide e Giovanni Lancia a questa non voleva rinunciare.
Sette le Ferrari in corsa nel ’53, due a titolo privato e cinque con la Scuderia Guastalla che, grazie anche a una sponsorizzazione delle Cartiere Ricci, schierava la potente 375 MM che, sulla strada ora finalmente interamente asfaltata, avrebbe potuto scaricare tutti i suoi 340 cavalli. Pilota di punta della Ferrari è Umberto Maglioli, ma da notare l’esordio su strada di Alfonso De Portago, aristocratico, giovane, bello e di belle speranze, ma con un appuntamento con il destino che segnerà la storia del motorismo.

Carrera Panamericana 1953
(Carrera Panamericana 1953. La Ferrari n.12 di Umberto Maglioli)

Tra gli altri piloti Ferrari ci sono Antonio Stagnoli –che negli ultimi anni aveva raccolto numerosi piazzamenti importanti e un bel secondo posto di classe su Alfa Romeo 1900 nell’ultima Mille Miglia – e il suo meccanico di bordo Giuseppe Scotuzzi.  
Con quelle 375MM che scaricano potenza come se niente fosse –   nei giorni precedenti in prova sul tratto autostradale di Guernavaca, Umberto Maglioli aveva toccato i 270 km/h – le premesse per un successo Ferrari anche alla Carrera ci sono tutte
La lotta che si prospetta è quindi tra le Lancia, meno potenti ma scattanti, e le Ferrari con la loro potenza non eguagliabile. Giovanni Lancia sa che deve giocare di fino e allora, come contromisura ai limiti del regolamento e forse oltre, decide di scaricare il peso delle sue vetture non facendo salire i meccanici. Torneranno a bordo solo nell’ultimo tratto, quando il vantaggio nel frattempo acquisito sulle Ferrari non sarà più recuperabile e per evitare contestazioni di regolarità che avrebbero potuto inficiare il risultato.

Carrera Panamericana 1953
(Carrera Panamericana 1953. La Lancia D24 di Felice Bonetto)

La grande corsa

Intorno all’alba del 19 novembre, sono 177 le vetture schierate alla partenza da Tuxla Guiterrez, 44 per la categoria Sport e 133 per quella Turismo, ammessa quest’anno per la prima volta. Per arrivare a Ciudad Juarez hanno davanti 3.077 chilometri, 8 tappe, qualcosa come 3.000 curve e un destino sempre in agguato.
Nelle precedenti edizioni della Carrera gli incidenti, mortali o meno, non si contano. Qualcuno dalla Carrera è stato però anche miracolato. Karl Kling e Hans Klenk, ad esempio, vincitori dell’edizione 1952 rimasti in gara nonostante un avvoltoio che all’uscita di un curvone si andò a schiantare sul parabrezza della loro Mercedes 300 SL, rompendolo e ferendo Klenk. Ma anche Felice Bonetto, rimasto illeso – sempre nel ’52 – dopo un violento fuoristrada causato dalla rottura di uno pneumatico della sua Lancia D20 durante la prima tappa. Stessa fortuna che arrise nel ’53 a Umberto Maglioli, che riuscì a tenersi in carreggiata nonostante una gomma posteriore saltata mentre spingeva a tutta velocità la sua Ferrari, e a Manuel Fangio con un incidente simile che lo vede compromettere un semiasse.
Il 23 novembre, a Ciudad Juarez, saranno in sessanta a terminare la Carrera Panamericana del ‘53; oltre ai 3.077 chilometri di strada, alle spalle si lasciano una scia di olio bruciato, pneumatici mangiati, macchine incidentate, equipaggi ritirati e vite perdute.

Destini fatali

Nel Messico degli anni ’50 quelle macchine impossibili che rombano sui 3.000 chilometri che tagliano il Paese sono uno spettacolo e a decine di migliaia si assiepano a bordo strada, in entrata o in uscita delle curve per poter raccontare di averle viste e di essere stati anche loro sfiorati dal soffio della velocità.
Siamo alla prima tappa, i 530 km da Tuxtla Gutiérrez – Oaxaca e quando la Ford 6 di Mickey Thompson-Rodger Flores esce di strada nei pressi del ponte sul fiume Tehuantepec, quelli che sono lì a guardare non indugiano un attimo. “È la nostra corsa questa, andiamo ad aiutarli” devono aver pensato e via tutti a correre verso di loro per soccorrerli. Il capannello è a bordo strada, tutti guardano alla macchina, ai piloti, nessuno si guarda alle spalle. Nella macchina che imbocca la curva il pilota pensa a mangiare la strada, non sente le loro voci, meno che mai loro pensieri e forse solo all’ultimo vede il gruppetto radunato lì, davanti a lui che a braccia dritte stringe il volante per addrizzare la curva mentre affonda più che può il piede sul freno per evitarlo. Non c’è niente da fare. L’asfalto diventa una pozza di sangue, corpi disarticolati e gemiti. Muoiono in sei, ma non è tutto.

Carrera Panamericana 1953
(Carrera Panamericana 1953. La Ferrari 375 MM di Staglioli-Scotuzzi)

A circa quattro chilometri da Juchitán de Zaragoza, Antonio Stagnoli spinge a 240 kmh la sua Ferrari quando uno pneumatico cede, la macchina perde aderenza, finisce fuoristrada, si ribalta e prende fuoco.  Giuseppe Scotuzzi, il meccanico, muore sul colpo, mentre per Stagnoli l’agonia dura alcune ore; morirà il giorno dopo in ospedale.
Sempre in questa tappa si salvano il tedesco Adolf Brudes, che si schianta con la sua la Borgward riportando solo ferite, e i messicani Olegario Pérez Pliego-Guillermo Estrada, gravemente feriti, ma vivi, dopo lo schianto della loro Studebaker.
A fine tappa, ad Oaxaca, è Felice Bonetto a tagliare per primo il traguardo. A fine tappa, però, si contano anche sette vittime, più una il giorno dopo. La contabilità della morte, purtroppo, non finisce qui.

Felice Bonetto

Il pirata, così lo chiamavano. Sarà stata l’immancabile pipa o forse chissà, l’aria che gli davano i bracciali che portava ai polsi o i lineamenti di un viso scolpito. Felice Bonetto, bresciano di Manerbio nato all’inizio del secolo dei motori, arriva alle corse in età quasi tarda, a 28 anni. Per lui, figlio di ferroviere, correre non può essere un vezzo. Pilota di valore, piazzamenti importanti e da podio, quindici Gran Premi di Formula 1 all’attivo, cronoscalate, monoposto e anche tante ruote coperte, affezionato della Mille Miglia dove nel 1949 guadagna un secondo posto assoluto su Ferrari 166 Barchetta e un terzo su Lancia D20 nel ‘53, Felice Bonetto correva la Carrera Panamericana sin dalla sua prima edizione del ’50.
Pilota scrupoloso, nei giorni precedenti il via della quarta edizione, Bonetto aveva fatto tutto il percorso di gara verniciando a terra in blu e rosso i punti pericolosi. Scrupoloso, ma con un’idea in testa: ha già 50 anni, non potrà correre ancora a lungo, ma se proprio deve lasciare le corse vuole farlo con un titolo importante. L’occasione è questa e non è rinviabile.
Combattuta soprattutto con la Ferrari di Maglioli, alla media di 152,7 km/h, la prima tappa è sua. Il secondo giorno di tappe ce ne sono due e in tutte e due la competizione è soprattutto con Piero Taruffi, compagno di scuderia, ma anche lui con una voglia di vincere che lo vede primeggiare. Bonetto è secondo in tutte e due le tappe, ma mantiene il vantaggio in classifica generale. Fangio, che peraltro nella terza tappa urta una roccia con una ruota e si ritrova con un semiasse danneggiato e da riparare, è arretrato.

Felice Bonetto
(Felice Bonetto)

Poi arriva la quarta tappa

Anche il terzo giorno prevede due tappe, Città del Messico-León-Durango, ovvero oltre 900 km con una pausa di mezz’ora tra l’una e l’altra. Bonetto è ancora primo in classifica generale, la partenza spetta a lui. Taruffi, Maglioli e Fangio lo seguono. O meglio, lo inseguono. Da Città del Messico verso León ci si doveva inerpicare fino a 3.100 metri, fare circa 100 chilometri prima di scendere e arrivare su un rettilineo sul quale Maglioli avrebbe scaricato tutta la potenza della Ferrari. Già prima però il ferrarista dà il massimo; dopo qualche decina di chilometri riprende e supera Fangio e spinge per farsi sotto alla coppia di testa. Lì davanti c’è Bonetto e poco dietro Taruffi che lo tallona senza staccare mai il piede dall’acceleratore. Non lo stacca neanche quando entra in un curvone poco prima della cittadina di Silao; non stacca, va lungo e finisce fuoristrada. Il dio dei motori lo protegge e forse, quando emerge dalla nuvola di polvere che ha sollevato, a somigliare a un dio è proprio lui.  Non si fa nulla, respira a fondo, con l’aiuto dei soliti spettatori spinge la macchina verso una stazione di servizio dove riesce a riparare alla meglio un danno allo sterzo, si rimette in carreggiata e riprende a correre.
Bonetto si è accorto dell’uscita di strada di Taruffi, forse si distrae per qualche attimo, non fa attenzione alla strada e ai segnali che lui stesso aveva lasciato durante la prova del percorso. All’ingresso della cittadina di Silao è veloce, troppo veloce, circa 200km/h contro i 120 consigliati. Il dosso di un canale di scolo che attraversa la strada diventa un trampolino, la Lancia s’invola, si alza per oltre un metro, colpisce un primo lampione, poi un secondo e poi si accartoccia tra il muro e il balcone di una casa. Il fragore è seguito da un attimo di silenzio interminabile.

Carrera Panamericana 1953
(Carrera Panamericana 1953. La Lancia D24 di Felice Bonetto dopo l’incidente)

Felice Bonetto, il pirata, il figlio del ferroviere che l’anno prima aveva vinto la Targa Florio spingendo a braccia per gli ultimi 150 metri la sua Lancia rimasta senza benzina, finisce qui le sue corse. O forse qui inizia a correre per sempre. A Silao, due targhe ricordano Bonetto sul muro della casa dove la Lancia si era schiantata. In suo onore, dal 2012, anche un parco. C’è anche un’altra storia, però. Una storia che vuole il cuore del pirata sia stato espiantato durante l’autopsia per poi essere tumulato dentro un busto di bronzo che lo ricorda nel cimitero cittadino. Non so se sia vero, ma nel Messico dove il sacro è sempre stato in bilico tra religione rivelata e riti arcaici, tutto è possibile. Le spoglie invece riposano al Cimitero Monumentale di Milano. Vero o no che sia, il cuore di Bonetto è sicuramente in ognuna delle strade e in ognuno dei circuiti dove è diventato l’uomo che voleva essere.

Silao, Bonetto
(Silao, Calle 5 de Mayo. le targhe a memoria di Felice Bonetto)

Fine corsa

Il resto è cronaca. Tra morti e incidenti, la Carrera Panamericana prosegue e nella rivalità tra Lancia e Ferrari segna pagine di grande automobilismo. La Ferrari vince il Campionato Mondiale Sport, ma la Panamericana del ’53 è tutta nel segno Lancia. Nelle ultime tre tappe Maglioli è scatenato e fa l’impossibile per recuperare tempo, ma le tre Lancia non mollano, tengono il vantaggio e la sfida per la vittoria è tutta tra loro, con duelli epici tra Fangio e Taruffi. Alla fine è l’argentino a spuntarla davanti Taruffi e all’ottimo Castellotti con la sua D23 meno competitiva delle altre Lancia. Castellotti che oltre al terzo posto avrà anche un altro ottimo motivo per ricordare la Carrera Panamericana del ’53: il cofano della sua automobile che gli salta in corsa e grazie alla sua prontezza riesce a schivare di un soffio. Questa volta gli è andata bene, ma anche per lui il destino è un appuntamento in pista rinviato solo di qualche anno.
Maglioli si prenderà la sua rivincita l’anno seguente, quando sarà primo e la Ferrari guadagnerà le prime due posizioni, ma sarà anche l’ultimo a dominare i 3.077 chilometri messicani.
La storia della Carrera Panamericana finisce con l’edizione 1954. Troppi incidenti, troppo rischio per tutti, troppi morti che oggi quasi nessuno ricorda più.
Tranne forse a Silao dove il cuore di Bonetto, chiuso nel bronzo che lo ha reso eterno, per qualcuno batte ancora.

 

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Marco Panella, (Roma 1963) direttore editoriale di Sportmemory, giornalista, scrittore. Ha pubblicato i romanzi "Io sono Elettra" (RAI Libri 2024) e "Tutto in una notte" (Robin 2019), la raccolta di racconti "Di sport e di storie" (Sportmemory Edizioni 2021), i saggi "Pranzo di famiglia. Una storia italiana" (Artix 2016), "Fantascienza. 1950-1970 L'iconografia degli anni d'oro" (Artix 2016), "Il Cibo Immaginario. Pubblicità e immagini dell'Italia a tavola"(Artix 2015).

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