Sono qui, nella pancia dell’Arena Civica, seduto sulla vecchia panca, a gambe sbracate, i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani. Guardo la piccola pozzanghera che si va formando sul pavimento, nell’incrocio di tre piastrelle, alimentata dal rivolo del mio sudore. Scuoto lentamente la testa, ne creo di più piccole ancora a destra e sinistra, e scopro che questa cosa in qualche modo mi distrae. Mi distrae dai gemiti del mio corpo che chiede pietà. Dal piede sinistro che non sento più, dalla schiena che è un unico fascio di dolori che parte dalla base del collo e arriva al coccige, dalle tempie che mi pulsano all’impazzata, dal ritmo cardiaco fuori controllo, dalle ginocchia che scricchiolano manco fossero piene di sabbia. Mi concentro sui quei rivoli che sento scendere dai capelli, divergere sulle sopracciglia, poi convergere per colare lungo il naso e infine tuffarsi in quella pozza che va formandosi. Altri immissari li avverto venir giù dal collo e dalle spalle, scendere sul petto e poi si dividersi davanti all’ostacolo formato dalla mia pancia. Si, ho la pancia. A trentasei anni è abbastanza normale, no? Vien la pancia e si smette di fare mattane da ragazzini. Invece io… Continuo a dirmi “È stata una follia”. E lo ripeto ancora e ancora, mentre cerco di alzarmi per provare a riprendere a fare quel che dovrei fare, quello che sarebbe il mio mestiere. Ma chi ce la fa? È che proprio “l’è stata ‘na stupidada”. La “stupidada” di ricominciare a giocare a futbol a trentasei anni. A questa età, alla mia età, tutti quelli che hanno iniziato a giocare con me, anno più anno meno, hanno smesso da un pezzo e adesso sono allenatori o magari hanno aperto una loro attività. Io invece ho appena ricominciato. La mia colpa? Essere un sentimentale, un vanaglorioso, un visionario. O forse solo, come si dice da noi, un gran pirla. Avevo già speso i miei ultimi giorni di calciatore a Bergamo, con l’Atalanta, giusto sei mesi fa, nel giugno del 47. Poi era arrivato il richiamo del cuore, attraverso una telefonata: “te preghi, vegna a salvam la mè Inter, doma ti te podet riesigh” mi aveva scongiurato il Masseroni, presidente dell’Internazionale Football Club.
Era il gennaio del 47.
22 giugno 1947 Inter-Modena, fine del primo tempo
E io ho accettato la sua preghiera, bestia che sono. Son passati sei mesi, durante i quali ho contemporaneamente allenato e giocato. Qualche gol l’ho pure fatto, ma mica posso far miracoli. La squadra che il parón mi ha affidato è mediocre e fa quel che può. Oggi è il 22 giugno 1947, è finito il primo tempo di un qualsiasi Inter-Modena che invece “qualsiasi” non è perché per la prima volta nella sua storia questa società che mi ha dato gloria e fama, ma a cui in cambio ho dato tutto me stesso, sta per retrocedere. È una malata grave e il dottore chiamato a curarla e possibilmente guarirla, sarei io. Io, che neanche riesco prendermi cura di me stesso. Finito l’intervallo ho mandato in campo i ragazzi dicendogli che mi sarei fermato ancora un paio di minuti negli spogliatoi per parlare col mio collaboratore di come impostare un secondo tempo che ci vedrà soffrire di brutto con i nostri avversari a portarci da assedio. Ma è solo una scusa: è che proprio non ce la faccio, il caldo è stremante e la mia forma fisica precaria di certo non aiuta. Non aiuta neanche la lanina di questa maglia a bande verticali nere e azzurre che indegnamente indosso, stretta al punto di sentirmi soffocare. Là fuori, sul prato spelacchiato dell’Arena ci sono trentotto gradi, il sole a picco e di ombra c’è solo quella proiettata sul terreno da noi giocatori. Il risultato è che gioco da fermo, praticamente non mi allontano dal cerchio di centrocampo, mi limito a fare passaggi che non servono granché alla causa. Si dice che la capacità di calciare è l’ultima delle qualità che un giocatore perde con l’avanzare dell’età e io cerco di campare di rendita su quella, facendo viaggiare la palla al posto mio. Il bello è che dalle gradinate non arriva un fischio, un rimprovero nei confronti di questo patetico ex atleta in disarmo: è un pubblico commovente, misericordioso, generoso. Ma anche ingenuo perché pensa davvero che io possa salvare la baracca. E così rimaniamo lì, cristallizzati nell’odore della canfora e del grasso di foca, io e Nino Nutrizio, il mio collaboratore. Solo in teoria: non c’è da farne troppo affidamento, è solo un giornalista caduto in disgrazia, vittima delle leggi sull’epurazione a causa del suo passato di cronista del fascismo. Sa di calcio come chiunque altro lo segua dalle poltrone di uno stadio. Siamo lì in silenzio, io su quella panca che conosce così bene le mè ciapp e i miei riti scaramantici, lui in un angolo in piedi e in silenzio, a guardarsi le unghie, come si accorgesse solo oggi di averle. Chiari i ruoli e stabilite le rispettive competenze, ci tocca constatare che nulla ha lui da dirmi su come cambiare la partita, niente io da riferirgli sulla partita che contiamo di fare.
Io e il “Paròn”
Intanto il tramestio al di fuori dello spogliatoio si è quietato, segno che le due squadre hanno ormai raggiunto il campo da gioco. Immagino che non ci vorrà molto prima che qualcuno si palesi sulla porta a chiedermi perché l’Inter è schierata con soli dieci uomini senza il suo capitano. Infatti: dopo un lieve paio di colpetti, da quella porta ha fatto capolino la testa cappellata del Paròn, il Masseroni, in giacca e cravatta. Rotondo e rubizzo come al solito, un sorriso a cui è impossibile imporsi di non corrispondere. L’eleganza non è il suo forte, come per una sorta di contro bilanciamento rispetto a quella del mio braccio destro. Anche in tenuta istituzionale nerofumo, non riesce a darsi un’aria composta: il cavallo del pantalone che gli arriva di molto sopra l’ombelico, la giacca che balla sulle spalle, il gilet, nero anch’esso, a malapena contiene la pancia da grancassa i cui bottoni sembrano pronti ad essere sparati via. L’andatura, impacciata e dondolante, non fa che peggiorare la sua già misera immagine. Come possa rimanere bardato in quel modo con questo caldo terrificante è un mistero. “Posso?”. Deve aver intuito che non sono felicissimo del suo arrivo, infatti mette una faccia fintamente contrita. Non mi ha fatto niente di male il paròn, mi sta pure simpatico, ma è che proprio, adesso, non ho voglia di vedere nessuno. È rimasto sull’uscio, con aria dubbiosa, cercando di dissimulare una certa preoccupazione, ha unito le mani in atteggiamento di preghiera “Alùra Peppìn, l’è tutta post? ‘Se fèmm?” “Tutto a posto, paròn, niente di che, ho solo bisogno di tirare il fiato un minuto ancora”, gli ho risposto. Non devo essere stato troppo convincente, il Massironi mi si è avvicinato e mi ha messo una mano sulla spalla. “Cià, ndemm a prendar ‘sti due benedeti punti, Peppin, che il Modena l’è già in vacansa”. Povero Massi, chissà che partita pensa di stare vedendo.
I “Canarini” indiavolati di Alfredo Mazzoni
Perché i modenesi sono tutto fuorché in vacanza. Ci hanno messo all’angolo con il loro ritmo forsennato giù dal primo minuto. I miei compagni invece traccheggiano assonnati. Alla porta del Modena siamo riusciti ad avvicinarci solo una volta, grazie ad un calcio d’angolo. Muci ha segnato di testa, e la cosa ha fatto incazzare ancora di più i nostri avversari che hanno preso a martellare di tiri la nostra porta, facendone un vero e proprio tiro a segno. A Franzosi, il nostro portiere, è toccato volare da un palo all’altro, protendersi oltre la traversa, lanciarsi tra le gambe delle indiavolate punte modenesi. Quella loro furia agonistica non è fine a sé stessa: hanno condotto un campionato da protagonisti, contendendo fin a quasi i tre quarti della stagione il titolo al Torino. Adesso, con i granata campioni con tre settimane di anticipo, vorrebbero conservare il loro prestigioso secondo posto. Ma hanno subito dietro la Juventus che non ha ancora abbandonato l’idea di raggiungerli.
L’unico tra loro a mantenere un atteggiamento disteso è proprio il loro allenatore, Alfredo Mazzoni. Due anni più vecchio di me, l’ho conosciuto nel 1934, quando era arrivato all’Inter, da calciatore, prelevato dal Genoa. Gran bravo ragazzo l’Edo. È stato un mio compagno di squadra per solo un anno, giocando davvero poco. Si era subito rivelato una persona aperta, sincera e simpatica. Mi ci ero trovato davvero bene ed eravamo diventati buoni amici. Successivamente ci era capitato di incrociarci come avversari quando aveva indossato la maglia del suo amato Modena e più tardi con quella della Roma. Ci siamo salutati con grande cordialità un anno fa, quando aveva riportato i geminiani in serie A, in occasione della partita con l’Atalanta, squadra in cui all’epoca militavo. Cosi, grazie a quella confidenza stabilitasi con la nostra frequentazione, prima ancora di iniziare la partita si è già regalato il lusso di prendermi per il culo: nel corridoio di accesso al campo mi è venuto dietro di soppiatto e mi ha rifilato una sberla sulla nuca che a momenti mi ribalta. Poi, dopo aver riso della mia faccia sbigottita con quella sua bella risata da romagnolo verace, mi ha stretto il collo tra l’incavo del gomito, strapazzandomi i capelli con le nocche della mano libera: “oh, capitan! Mò stiam diventando ben vecchi, eh!” Ha riso di nuovo, la canaglia, mentre cercavo di divincolarmi dalla sua vigorosa stretta. “Schèrs de màn, schèrs de vilàn“, gli ho detto stirando un sorriso. Il fatto è che ha ragione: siamo vecchi. Lui però ha avuto il merito di rendersene conto prima di me. E si è evitato la scena penosa di un ex calciatore che pretende ancora di poter competere con gente che ha dieci anni meno di lui. Mi passa per la mente la cattiveria di ricordargli le misere cinque presenze nell’Inter, ma lascio perdere. Oggi lui è uno degli allenatori più quotati della serie A, ha creato un gruppo di uomini in cui non spicca un solo fuoriclasse ma che quando scende in campo mette in difficoltà chiunque. A Modena, nella partita di andata, abbiamo perso senza quasi mai tirare in porta. Ma non siamo stati i soli a lasciar loro i due punti. Stessa sorte è capitata a Milan e Juventus. Lo stesso Torino ha dovuto accontentarsi di pareggiare la partita giocata in casa.
Intanto sugli altri campi…
“G’ho telefonà al Prisco che sta al bar Impero, fuori dallo stadio a Vicenza. El g’ha dett che il Brescia l’è ancamò zero a zero”, ha intanto aggiunto il paròn. Non è una buona nuova, la corsa per la salvezza la stiamo facendo anche con loro, eppure il Masseroni sembra eccitato dalla notizia. È come un bambino in piena fregola per il balocco nuovo, qualsiasi cosa avvenga alla sua creatura, gli crea emozione. E pensare che quando nell’estate del 1942 prese in mano l’Inter, pardon, l’Ambrosiana, ci tenne a precisare subito che “capis ‘nagott de futbol”. Tuttavia, per la sua prima partita da presidente, un’amichevole contro la Triestina, volle che gli facessi compagnia in tribuna: con le solite maglie neroazzurre noi, in casacca rosso fuoco loro. E il Masse, come lo chiamiamo noi, ad un certo punto mi fa: “chi sem no’ alter?”. Nemmeno i colori delle maglie della sua squadra conosceva! Poi se ne innamorò pazzamente, di quei colori.
Invece dell’altra nostra avversaria da tenere d’occhio, la Fiorentina, non sappiamo niente, contatti a Firenze non ne abbiamo stabiliti e quindi ci tocca solo sperare: giocano anche loro in casa, contro il Bari. Non c’è da aspettarsi troppo però: sono tempi duri e due soldini in più fanno comodo a tutti. Aspettarsi un Bari “ammorbidito” è lecito, soprattutto perché loro, a differenza nostra, sono già salvi. Che qualche giocatore, magari in difficoltà economiche accetti di non impegnarsi troppo, non è un fatto raro e non fa sensazione: ognuno sbarca il lunario come può. Il peggio che si rischia è che allenatore se ne accorga e ti sostituisca o addirittura decida di non farti giocare per il resto del campionato. Alle brutte, per la stagione prossima dovrai trovarti un’altra squadra. Sono tante le incognite che insistono sulla nostra permanenza in serie A: ma chi è causa del suo male pianga sè stesso e noi piangiamo soprattutto per aver perso col Livorno, un’altra nostra diretta concorrente, la scorsa settimana, quando avremmo potuto risolverla lì.
Io e la Stampa
Nino non si è mosso da lì, incollato a quel muro che ha scelto come ritiro dei suoi pensieri. A pensarci bene, può essere che qualcosa contro di me ce l’abbia, il suo silenzio e il suo disinteresse per quello che sta succedendo sembra artificioso, forzato. Probabilmente non gli è piaciuta la dichiarazione che senza troppo riflettere ho reso a Emilio De Martino, cronista sportivo per La Gazzetta dello Sport, dopo una sua provocazione sul mio apporto alla causa interista. È successo non più tardi di tre settimane fa dopo una brutta sconfitta in casa ad opera del Napoli: “A chi toccherà la decisione del suo ritiro, alla sua voglia di giocare o al suo conto in banca?”, aveva voluto pungolarmi. “Nè all’una, né all’altro. Per me hanno già deciso le mie ginocchia: questa è la mia ultima stagione da giocatore”. Ero indispettito. Per questo avevo risposto di getto, senza pensarci. Ovviamente il Nino giornalista, pardon, ex giornalista, non avrebbe mai sperperato una notizia di tale portata. L’avrebbe centellinata, l’avrebbe ammantata di mistero, poi apparecchiata e infine servita davanti ad un congruo numero di rappresentanti della carta stampata e della radio.
La prossima partita, quella contro il Bologna, sarà quindi la mia ultima partita nell’Arena e le diecimila anime presenti oggi, sapendo di quella soffiata, per tutto il primo tempo non hanno fatto altro che applaudirmi, incitarmi e scandire il mio nome malgrado io mi trascinassi per pochi metri di campo. All’ultima giornata giocheremo in quel di Genova, contro la Sampdoria, un’altra pericolante come noi, ma dentro di me spero che non ci sia bisogno della mia presenza in campo. Quella partita non la giocherò, a meno che la situazione in classifica non si sia fatta disperata. Se non ci andremo con quel punto in più che ci serve per salvarci, sarà aspra battaglia: esattamente quello che vorrei evitare, nelle condizioni in cui siamo. Non siamo abituati a batterci contro squadre pericolanti e che si presentano con il coltello tra i denti. In condizioni normali ce la giocheremmo ad armi pari ma oggi la squadra è scarica di testa e fisicamente allo stremo: siamo aggrappati ai pochi uomini in grado di risolvere le situazioni più ingarbugliate. Io non segno un gol da tre mesi, dalla vittoria contro la Triestina ultima in classifica, che purtroppo è anche l’unico della mia stagione.
Io, Mimì e gli altri
Per fortuna all’incombenza ci sta pensando “Mimì” Muci, un tipo taciturno ma che in campo si fa sentire eccome. Ha svoltato in meglio nel girone di ritorno, dopo un inizio complicato, segnando a ripetizione soprattutto nel finale di stagione. E meno male, perché coincide con l’inizio del periodo nero di “Bibì” Zapirain, l’uruguaiano superstite dei cinque stranieri che il Masseroni aveva ingaggiato nel settembre scorso. Elmo Bovio, e Alberto Paolo Cerioni, argentini, Luis Alberto Pedemonte e Luis Tomas Volpi uruguaiani, hanno pensato bene, dopo le prime apparizioni in cui avevano messo a nudo tutte le loro incompatibilità tecniche col calcio italiano nonché le drammatiche lacune caratteriali, di “telare” già a gennaio. Quella fuga aveva messo in ambasce l’allenatore Carlo Carcano, che davvero non meritava un trattamento del genere. Proprio lui che ne aveva caldeggiato e poi ottenuta l’acquisizione. Con il Carcano avevo già lavorato una decina d’anni fa, in nazionale. All’epoca era l’aiutante di Vittorio Pozzo nella spedizione dei mondiali del 1934, che vincemmo da padroni di casa. Un uomo di grande modestia, ma senza averne un valido motivo: era stato un vero innovatore del calcio italiano, aveva studiato a fondo e portato in Italia per primo il metodo danubiano, una vera e propria rivoluzione.
Divagazioni, in questo momento nella pancia, sugli spalti dell’Arena serpeggia l’amara constatazione è che la squadra si tiene in piedi grazie a questi tre: il sottoscritto, il Zapirain e il Muci. Se si ferma uno di questi, è il naufragio di tutta la squadra. Giusto quello che sta succedendo oggi. Il Muci infatti mi sembra più nervoso del solito. Mi ha chiesto palla più volte ma è schiacciatissimo tra i due terzini del Modena, con poco campo tra questi e la porta.
Lontano e marcato, mi è impossibile fargli pervenire una sola palla che possa addomesticare, tra quei due mastini. “Te g’ha l’oecc ‘ndel cul?” mi ha apostrofato dopo che per l’ennesima volta l’ho visto troppo marcato per poterlo lanciare verso la porta. Si è poi riservato il lusso di accusarmi di scarsa lena sbattendomi in faccia la mia misera condizione atletica: Alùra, te g’ha finiù de strapà l’erba cun la scèna?”. In altri tempi lo avrei messo al posto suo in un secondo, oggi mi tocca masticare amaro e far la parte del “ciula”. Non è per codardia, è che ribattere alle sue accuse e le sue offese è tempo inutilmente perso. Il Muci è un “semplice”: nato con una sofferenza cerebrale a causa di un parto difficile, è cresciuto con qualche menomazione mentale. I suoi lo hanno ritirato da scuola dopo un paio di anni di frequenza, una volta constatato che non era cosa per lui. Giusto il tempo di imparare a leggere e a scrivere in maniera molto approssimativa, poi via, a procurarsi il pane con lavoretti di poco conto, dove non si dovesse ragionare troppo. Motivi per i quali si esprime solo in dialetto milanese e che, per gli stessi motivi, è la sola lingua che comprende. Per sua fortuna dove la natura gli ha negato un giusto rifornimento di materia grigia, è stata in compenso generosa per quanto riguardava il corpo. Mimì è alto e grosso, le sue gambe sembrano due nodosi tronchi di quercia. Anche la faccia gioca a suo favore con quei lineamenti duri da indio, i capelli neri e crespi che incorniciano una grinta torva che contribuisce ad instillare soggezione a chi gli si para dinanzi. Dato il tipo, non gli si può chiedere di eseguire movimenti particolari o di applicarsi in una qualsivoglia tattica di gioco: non ci arriverebbe. Bisogna fargli pervenire la palla, in qualche modo. Al resto pensa lui: stoppa, si appoggia al difensore spostandolo e poi tira in porta con forza e precisione. Nel gioco aereo e in acrobazia sa farsi rispettare, anche su quello la natura si è spesa bene donandogli a piene mani elevazione ed esplosività nei suoi ipertrofici polpacci.
“Slisa via e vegnom incontra, inscì almen te me portet via vun di due e te me fa spazi a Bibì, casso!” gli ho consigliato. “Tirati fuori dalla marcatura, vieni incontro, così ti porti almeno uno dei due e fai spazio a Bibì, cazzo!”
Mi ha guardato in tralice, ha sputato per terra e mi ha voltato le spalle, per niente convinto. Infatti ha ripreso a fare esattamente quello che stava facendo prima del mio suggerimento. Ho ribadito il concetto nello spogliatoio dieci minuti fa: ha abbassato gli occhi non degnandomi della sua attenzione. Scommetto che non cambierà il suo atteggiamento in campo, nel secondo tempo.
È proprio l’ora di andare
Già. Il secondo tempo: sarà ora di andare? Che ci vuole? Un paio di saltelli sul posto, un sorso d’acqua e si va. Certo, a riuscirci: le gambe non rispondono, l’acqua è in una bottiglia di vetro opaco, un aspetto lattiginoso che non promette il minimo ristoro. Ci appoggio le labbra, il liquido che ne fuoriesce è sciapo e salmastro. Impossibile da ingoiare, lo tengo nella bocca un po’; ci faccio giusto un gargarismo, poi lo sputo sul pavimento. Mica perché uno pretende lo “Sciampagne”, ci mancherebbe. Di ‘sti tempi poi. Solo una bevanda fresca. Che ne so, un Campari. Un Campari, ecco.
Se d’affanni, vecchi malanni, non si sente più novella
Se ciascun sorride lieto e la vita trova bella
Se ragione misteriosa a gioir ciascuno appella
Questa è l’ora senza pari, questa è l’ora del Campari
mi ritrovo così, inaspettatamente, a canticchiare la strofetta di quella famosa réclame, prima piano poi più a voce spiegata, meravigliando me stesso della ritrovata allegria. Non devo essere un spettacolo esattamente rassicurante a giudicare dalle facce sbalordite di Nino e del Masse. Si sono guardati di sfuggita, accondiscendenti, con complicità. “Deve essere impazzito, il Peppin” avranno pensato. Poi mi hanno sorriso imbarazzati, io ho risposto al loro sorriso e siamo rimasti in silenzio, per un po’.
A disincagliarci da quella impasse, una voce dietro la porta accostata dello spogliatoio. “Si può?”
Si tratta del signor Gamba Agostino, arbitro. Alla sua vista della sua giacca nera tutti e tre siamo istintivamente scattati in piedi, richiamati da una sorta di riflesso condizionato. È evidente che il terribile ventennio da cui siamo reduci ci ha segnato ben più profondamente che solo sulla nostra pelle. Chissà se Nino e il Massa si sono sentiti stupidi quanto mi sono sentito io. Il signor Gamba è forse l’arbitro che apprezzo di più. Quando c’è lui in campo, tutto fila per il verso giusto. Il suo carisma fa sì che tutti i giocatori si fidino di lui e ne riconoscano la rettezza morale. Di conseguenza non protestano, limitano le loro scorrettezze, si comportano in maniera tutto sommato civile. Predilige il dialogo con i giocatori, pur rimanendo inamovibile dalle sue decisioni. La marcata cadenza napoletana e il sorriso pronto e sincero, lo rendono simpatico a tutti, anche quando infligge un provvedimento arbitrale. “Signori, sono qui solo per ricordarvi che ci sono diecimila spettatori e ventuno giocatori ad aspettare che il capitano dell’Inter si presenti sul campo da giuoco”, si è scusato. Ha quindi spiegato: “Non dovrei neanche essere qui ad avvisarla, ma proprio perché è Lei…”. Ha infine aggiunto, con tono definitivo, parlando sopra il mio tentativo di ringraziarlo: “Non posso rinviare ancora. Dobbiamo ricominciare l’incontro senza di lei?” L’idea, la percezione del tempo sospeso e di tutta quella gente in attesa di una mia decisione, intrappolata in quella fornace che è l’Arena, invade la mia mente facendomi sentire un abbietto. Mi sento terribilmente in colpa. È davvero questo il modo in cui voglio congedarmi da loro? È così che voglio essere ricordato? Concludo che lasciare nel loro ricordo l’immagine di me che, come per un puerile capriccio mi chiamo fuori dalle mie stesse responsabilità e i miei compiti, è assolutamente fuori discussione. È un attimo, capisco che devo riavermi, riprendere in mano le redini di me stesso, dei miei uomini, del team che ha creduto in me. Senza neanche rispondere al signor Gamba guadagno la porta dello spogliatoio, quindi l’atrio che guarda sul verde sbiadito del campo da gioco.
Diecimila tifosi, tutti per me
Quando supero l’ultima fetta di ombra che gli spalti proiettano al suolo vengo accolto dalla vampa caliginosa della Milano d’estate, fitta di moscerini e zanzare. Il brusio dei diecimila aumenta di volume, l’atmosfera rapidamente cambia. Stanno osservando la scena surreale di due uomini che corrono in solitudine verso il centrocampo, io e il signor Gamba. Ancora di più, come una ondata si solleva il rumore degli applausi cui via via si aggiungono altri e poi altri ancora. Poi quel rombo tracima, diventando boato. I nostri tifosi hanno capito il mio dramma e ora mi accompagnano a viva voce, con la spinta dei loro decibel verso il centro del campo. Quel frastuono è tutto per me, e me lo godo tutto. Distinguo persino ogni voce, ogni singolo incitamento. Quello delle donne da quella degli uomini, quelle dei bambini da quella dei vecchi. È pura linfa che, corroborante, raggiunge ogni fibra dei miei muscoli, fino al più remoto capillare del mio sistema circolatorio. Persino il mio scricchiolante ginocchio destro ha deciso di darmi requie, assistendo la mia corsa, benevolo. Allungo il passo, sentendomi pronto e in forma come non mai. Il signor Gamba mi arranca dietro a fatica, lo distanzio, aumento il distacco finché non sento più il suo ansimare, vana ricerca di un’aria che in questo catino infernale è praticamente assente. Mi ritrovo ad attraversare quel frastornante fragore che è come una sonora invasione di campo inscenata dai nostri tifosi. I ragazzi del Modena, affascinati da quello spettacolo, hanno sospeso i loro esercizi di allungamento e stanno apertamente applaudendo il mio rientro. Ringrazio anche loro, con le mani giunte mentre mi si para davanti l’immagine deformata dal calore di Mimì, fermo sul dischetto del cerchio di centrocampo. Mi assale l’irragionevole sospetto che sia un miraggio: le mani sui fianchi, il piede sul pallone, la posa da guerriero. Fugo il dubbio quando sono ormai a una manciata di metri da lui, vedo i suoi occhi stretti nel traguardare me, la sua bocca muoversi. È con me che sta parlando, è chiaro, ma mi è impossibile distinguerne anche una sola parola, tanto il frastuono è assordante, stordente. Sorride. Anche lui ha capito il momento che sto vivendo. Si vede chiaramente che ha voglia, che non vede l’ora di riprendere le ostilità. Scalpita come un puledro che ha appena finito di cagare.
Avvicino l’orecchio al suo volto, l’unico modo che ho per carpire il suo messaggio. “Alùra Capitan, se femm, ‘ndemm?”. “Certo, siamo qui apposta, per vendere cara la pelle.” È quello che dovrei dirgli e vorrei dirgli, ma è lui è sempre e solo “Mimì”. E quindi si, “Ndemm”. Ed è già una parola di troppo.
(NdA)
L’Inter vinse l’incontro per uno a zero.
Il Modena nel secondo tempo patì il caldo esattamente come i padroni di casa, non riuscendo a rendersi quasi mai pericolosa.
Con i due punti ottenuti l’Inter ottenne la matematica permanenza in serie A grazie anche alla concomitante sconfitta del Brescia a Vicenza.
Il Modena venne superato dalla Juventus nella giornata successiva, chiudendo il suo campionato al terzo posto, tutt’ora il miglior piazzamento nella storia del club. Come promesso, l’incontro successivo contro il Bologna, finito in pareggio per uno a uno, fu l’ultimo disputato da giocatore dal Capitano. Nell’ultima giornata a Genova contro la Sampdoria, fu presente solo in veste di allenatore.