Vi spiego come si faceva goal ai miei tempi. Con il sistema cambiarono molte cose, ma con il metodo – quel benedetto 2-3-2-3 con cui Vittorio Pozzo ci aveva portato in cima al mondo – non c’era un controllo rigido e permanente del centravanti. Al centrosostegno non garbava montare di sentinella deliberatamente al numero nove avversario. Sì, era pronto ad ostacolare o vigilare le mosse, ma aveva compiti più ampi di registrazione e di manovra. Era un vero contrassegno, non un terzo terzino. La difesa poi, in linea di principio, non aveva uomini sulle ali, si concentravano dove si avvertiva il pericolo.
Amore a prima vista
Io con il goal, mi conoscete, avevo un buon rapporto. Lo sapevo aspettare, anche quando tardava. Segnavo di volo e di testa – 1.79 non era male per l’epoca -, ma la specialità della casa era la freddezza di esecuzione, semplice solo in apparenza. Non mi chiedete tecnica e meccanica, era un misto di calma istintiva, di sagace controllo, di rapido opportunismo, di talento calcistico. La chiave era l’intesa con i miei compagni. Sapevo che in un dato momento uno dei mediani o l’ala, Visentin ad esempio, mi avrebbero servito ed io mi dovevo far trovare pronto allo scatto. Non era solo intuito. Se mi ritrovavo con il pallone tra i piedi verso il centro della porta con una buona visuale, piazzavo il tiro a destra o sinistra del portiere spesso fermo tra i pali. Il tiro era forte, qualche volta debole, la potenza – lo capii giocando con i migliori – non va d’accordo con la precisione. Se invece ero spostato verso un lato della porta e il portiere decideva di venirmi incontro per chiudere lo specchio, dovevo decidere in fretta il da farsi. Sorprenderlo con un tiro piazzato o attenderlo e provare a scartarlo. Se il pallone, anziché a terra, mi arrivava al salto la soluzione migliore era il pallonetto. Una dolce e dosata parabola che si smorzava nella rete oramai incustodita.

Più chiaro di così
Due esempi in maglia azzurra che la teoria è buona, ma fino ad un certo punto. È domenica 22 febbraio 1931, giornata storica. A Castellammare di Stabia viene varata la nave scuola Amerigo Vespucci. Ben più a Nord, nella fredda a me cara Milano, l’Italia del calcio dà appuntamento a 45.000 tifosi per tentare un’impresa mai riuscita, piegare – restando in “mare” – la corazzata austriaca. È la prima partita della seconda edizione della Coppa Internazionale, calcio d’inizio ore 15.00. Sarà missione compiuta: per la prima volta, dopo venti anni di sconfitte e, quando di lusso, pareggi vinciamo noi e con il mio marchio di fabbrica ben stampato. L’attesa dell’imbeccata giusta, la corsa verso la porta, la conclusione a rete. Luigi Bertolini, mediano sinistro, mi allunga il pallone, parto appena dentro la metà campo avversaria superando in velocità i due terzini Schramseis e Szoldatics che, però, mi costringono ad allargarmi verso sinistra. Il portiere Rodolph Hiden, uno dei migliori al mondo e che allenerà in Italia, mi viene incontro, mentre Schramseis rinviene alle mie spalle. Prevedo l’urto tra i due e con guizzo butto il pallone a destra, ritrovandomi solo e pronto a depositare il pallone in rete. Pareggio così il goal iniziale di Johann Horvatt, 29 reti in nazionale non uno qualsiasi.
Nel secondo tempo azione pressoché analoga e Hiden, di nuovo lasciato solo da una difesa impreparata, sceglie l’ultima possibilità. Mi afferra la gamba, cado malamente ma sento l’arbitro, l’elvetico Ruoff, fischiare il rigore. Lo calcia Mumo Orsi, sbaglia, ma il goal più importante – quello del sorpasso – lo aveva già segnato una mezz’ora prima. 2-1, un mattoncino per costruire quel sogno chiamato Rimet.

È proprio vero quello che dissero di me al provino con i neroazzurri
Esile, atletico così così, ma sfacciato e sicuro di sé come pochi. Sentii Marinoni, il portiere di quel giorno, parlottare nello spogliatoio: “Tira sempre centrale, ma tira forte“. Ci pensò mister Weisz, ore ed ore a palleggiare ed allenare il piede sinistro. Alla palla si deve parlare, aveva ragione, la tieni vicino, gli corri dietro, la sposti. Niente però mi ha mai dato più soddisfazione di saltare il portiere in uscita libera.
Chi sono?
Mi chiamo Giuseppe Meazza detto Peppin. Il balilla. Una rivista internazionale che non conosco dice che sono stato il 37esimo giocatore più forte di tutti i tempi, un istituto che mescola dati ed algoritmi mi piazza al 21esimo posto. Per certo, so che con l’Inter registro 284 reti, nessuno più di me, tre titoli di capocannoniere e non so quanti trofei, ho vinto due coppe del Mondo con la nazionale italiana. Ho dato molto al calcio, ho avuto di più. Mi sarebbe piaciuto giocare con Gigi Riva, questo sì.