Ferenc Puskas. Quel giorno in gialloblù

Immenso. Ferenc Puskas questo è stato in una traiettoria che gli ha fatto fare grande la nazionale ungherese ed essere galattico nel Real Madrid di Santiago Bernabeu decenni prima dei galattici di Florentino Peréz. Una traiettoria con una tappa in gialloblù per giocare l'amichevole di un derby stratoscano. Il 28 gennaio del '58, a Signa, occhi e applausi sono solo per lui.
 Roberto Amorosino
Puskas

Non ci sono dubbi. Sesto, settimo, comunque tra i dieci. Nell’Olimpo del calcio, Ferenc Puskas ci sta con pieno merito. Simbolo di un calcio antico, del potere della resilienza, di una tecnica inaudita. Non ha mai giocato per una squadra italiana, anzi no. Il 28 gennaio 1958 si gioca un’amichevole tra Signa ed Empoli. Con la maglia gialloblù dei dilettanti toscani c’è lui, il Colonnello, per scrivere una pagina di piccola, grande storia locale e non solo. 

La festa a lungo attesa

Ferenc Puskas si presentò alla festa come è giusto. Per fare bella figura, non tappezzeria, divertirsi, ma con rispetto e buone maniere. I suoi compagni, stessa cosa. Chi c’era, e papà mio c’era, si ricorda bene quella domenica di maggio del ’53, inaugurazione dello Stadio Olimpico di Roma con la sfida tra gli azzurri e la squadra d’oro magiara: 0-3. Giornata irripetibile per tanti aspetti: la celebrazione, la superiorità degli ospiti, la prestazione comunque degna dei nostri, la chicca dell’arrivo della Napoli-Roma, sesta tappa del Giro d’Italia, che rivitalizzò la folla dopo la sconfitta sul rettangolo del gioco più bello. Che poi a noi, si sa, andò di lusso. I maestri inglesi contarono tredici (13!) pappine in due uscite, traumi per sempre: prima sconfitta della storia tra le mura amiche di Wembley (3-6) e addirittura 7-1 a Budapest in una, solo a chiacchiere, rivincita. A Berna, al mondiale del miracolo, finì come non doveva, ma noi qui raccontiamo di Ferenc Puskas, il fuoriclasse, e la sua pagina di storia italiana. 

Puskas

A Budapest si muore  

Le manifestazioni contro il regime vengono represse dai carri armati sovietici, la rivoluzione esplode, centinaia di giovani lasciano tutto, anche la vita, negli scontri e davanti al plotone d’esecuzione dei guardiani dello status quo, mentre il mondo resta a guardare. Sono le tre settimane tra fine ottobre ed inizio novembre ’56, anche il calcio naturalmente si ferma, campionato e Coppa dei Campioni dove l’Honved, blocco di granito della nazionale, è agli ottavi da favorita.  Il regime cerca la normalizzazione e concede, con obbligo di rientro in patria, alla squadra simbolo del calcio magiaro di giocare il 22 novembre la sfida d’andata in trasferta con il Bilbao. La testa è altrove, Budai e Kocsis limitano i danni, è 3-2 per i baschi, ribaltabile al ritorno se mai si giocherà. Nello spogliatoio si parla solo di cosa fare, tutti compatti per non tornare a casa, anche se per loro calciatori – ma, al tempo, militari – vuol dire diserzione. 

La partita all’Hysel

L’Honved comincia a vagare per l’Europa, le autorità ungheresi chiedono a quelle calcistiche europee di intervenire, non succede, anzi si trova il modo di giocare il ritorno a Bruxelles, all’Heysel. È il 20 dicembre, un mese di pochi allenamenti e tanta tensione, gli ungheresi danno tutto quello che hanno, i baschi non fanno sconti, finisce 3-3. La raddrizza Puskas nei minuti finali, ma non basta per passare il turno. L’Honved evapora, i giocatori sono abbandonati a se stessi, i club europei si allertano davanti alla possibilità di reclutare dei fuoriclasse a costo zero, ma i parrucconi UEFA sono succubi della politica imposta dal blocco orientale: squalifica per due anni i giocatori “disertori”. Ferenc Puskas non ha ancora trent’anni.  

Il sole d’Italia

Juventus e Milan cercano di aggirare il divieto, ma l’UEFA minaccia sanzioni. Puskas si avvicina all’Italia, si ritrova a Bordighera, gioiello della riviera dei fiori tra Sanremo e la costa azzurra. Non è facile condurre vita da atleta, Ferenc poi ha una certa tendenza a prendere chili dove non serve, le gambe diventano pesanti e la testa è sempre lontana, a casa dove la rivoluzione è stata soffocata. Un emissario della Fiorentina si avvicina un giorno per sondare il terreno. Non è un club qualunque, i viola sono i campioni d’Italia del ’56 e finalisti Coppa Campioni, squadra di vertice, pronta ad investire se e quando Puskas potrà tornare in campo. 

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Signa 1914

Si chiama Renato Bonardi, è anche dirigente del Signa 1914, dilettanti toscani. Convince Puskas a scendere in campo in un’amichevole sul campo vicino alla stazione ferroviaria. Avversario l’Empoli, si sparge la voce, il campo è circondato da una marea di persone, curiosi e tifosi, tutti lì per lui quell’anonimo martedì di gennaio, poca erba e pure zuppa fradicia.  Gioca praticamente da fermo, chiama palla e la fa girare, serve due assist ed esalta il portiere avversario che vola al sette per allontanare due palloni velenosi. Finisce 3-0, anzi finisce con una festa lunga tutta la sera a piazza Cavour per una cittadina consapevole di aver vissuto una giornata da raccontare ai nipoti.  

Lieto fine 

Una favola, come magico è il dopo. Finisce la squalifica, ai dubbi su anagrafe e tenuta fisica di Fiorentina e Manchester United, risponde l’azione decisa del Real Madrid. Scommessa vinta. Tre mesi e Ferenc Puskas, Pancho per il tifoso blanco, è in forma perfetta e riprende da dove aveva lasciato. Disegnando calcio, stop e dribbling sontuoso, fiuto del goal dei grandissimi, numeri da capogiro a spiegare molto, non tutto: 156 reti in 180 partite con le meringhe (dopo 358 reti in 350 partite con l’Honved), 4 volte pichichi e 3 capocannoniere europeo. 

Puskas ieri e domani

Dal 2017 il Nepstadion, tempio di Budapest, ha cambiato faccia e nome. È la Puskas Arena dove la nazionale magiara prova a rinnovare i fasti di un passato che non tornerà. Signa, con le debite distanze non poteva essere da meno: da un anno prima, ad un tiro di schioppo dall’uscita A1 Firenze Scandicci, a via del Crocifisso della piccola Signa sorge il centro sportivo Ferenc Puskas, memoria ed ispirazione per le generazioni di ieri e di domani. 

Roberto Amorosino romano di nascita, vive a Washington DC. Ha lavorato presso organismi internazionali nell'area risorse umane. Giornalista freelance, ha collaborato con Il Corriere dello Sport, varie federazioni sportive nazionali e pubblicazioni on line e non. Costantemente alla ricerca di storie di Italia ed italiani, soprattutto se conosciuti poco e male. "Venti di calcio" è la sua opera prima.

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