Prima della fama internazionale, dei colleghi che non credono alle nuove teorie e ai voli in pallone con Kurt, c’era molto altro, c’era solo lui: Alfred Wegener. Nato nel 1880 a Berlino, da una famiglia di pastori protestanti, Alfred da subito mette in chiaro che lui era diverso: se gli altri Wegener erano studiosi di filologia classica, a lui piacevano invece le scienze naturali.
Una passione che lo portò a studiare nelle università di Innsbruck, Berlino e Heidelberg, e a laurearsi nel 1904 in fisica ottenendo il dottorato in astronomia.
Tra fuoco, aria e cielo
Oltre alle sue peculiari passioni, ciò che lo rendeva ancora più diverso dai suoi coetanei era la voglia di avventura, di andare oltre ciò che già era stato fatto, senza paura.
Alfred Wegener si avvicina alla disciplina della meteorologia, conduce studi sull’alta atmosfera; i colleghi spesso lo vedono con gli occhi fissi al cielo, trasognato come se stesse pensando di volerlo raggiungere. E così fece.
Nel 1906, dopo aver studiato la meccanica dei palloni per osservazioni metereologiche, decide di salirci lui stesso e, insieme a suo fratello Kurt, dal 5 al 7 aprile stabilisce il record di 52 ore di ininterrotto volo aerostatico.
Lo stesso anno partì per il suo primo viaggio in Groenlandia, la spedizione Erichsen, dal nome del capo spedizione Ludvig Mylius-Erichsen che, peraltro, durante la spedizione morirà tragicamente. Ma durante la permanenza riuscì di nuovo a sfruttare palloni e aquiloni.
All’origine di tutto
La sete di conoscenza di Alfred Wegener non aveva limiti.
Dalla meteorologia spostò la sua attenzione sul campo geofisico, arrivando a formulare la sua tesi più famosa: la teoria della deriva dei continenti.
Ciò che lo studioso assumeva come concetto di fondo era che i continenti, così come li conosciamo oggi, derivassero da un grande continente unito, la Pangea, solo successivamente disgregato in tante zattere alla deriva.
La teoria fu accolta positivamente dal mondo accademico, sebbene presentasse un punto debole: la mancanza di un meccanismo geologico che avesse dato inizio allo spostamento dei vari “frammenti”. A questa criticità, si contrapponevano però le forme stesse dei continenti che facevano pensare che un tempo potessero essere state unite in un unico “blocco” visto che le varie zattere combaciavano tra loro
Teoria affascinante e di grande suggestione per i tempi, figlia di un modernissimo approccio interdisciplinare.
Ancora una volta andare oltre
È il 1912 quando, per continuare i suoi studi, Alfred Wegener decide di recarsi una seconda volta in Groenlandia.
Lo scopo della spedizione era attraversare l’isola da est ad ovest, ma gli imprevisti non tardarono ad arrivare. Una valanga per poco quasi non uccise diversi uomini. Koh, collega del tedesco, si ruppe una gamba cadendo in un crepaccio, e solo dopo diversi mesi fu in grado di riprendere il viaggio.
Il 20 Aprile 1913, finalmente, con cinque pony islandesi e un cane, Wegener e Kho si addentrano nei 1000 chilometri di gelo che li attendono per tagliare la Groenlandia.
I primi 40 giorni furono i più duri; le condizioni metereologiche erano estremamente difficili con il vento gelido che soffiava a più di 3000 metri di quota.
Sebbene quasi morto durante la spedizione, però i dati raccolti fecero di Wegener una celebrità.
Una vita di studio
Al suo ritorno prosegue il lavoro sulla teoria della deriva dei continenti e nel 1915 pubblica “La formazione dei continenti e degli oceani”. Fino al 1924 condusse una vita più tranquilla, scandita dalle lezioni di meteorologia e geofisica tenute all’università di Graz, ma non era abbastanza.
Wegener lì concluse la pubblicazione dei risultati della sua seconda spedizione, mentre parallelamente organizzava già la terza.
L’ultimo viaggio
Nella primavera del 1930 fece ritorno in Groenlandia per la terza volta insieme al metereologo Fritz Lowe. Il 21 settembre la spedizioneallestita per rifornire il punto di osservazione metereologica Eismitte e dare il cambio agli altri meteorologi partì. La spedizione ebbe da subito grandi difficoltà: bufere di neve e temperature fino ai 50 gradi sotto lo zero rendevano il viaggio infernale. Gli Inuit che erano con loro decisero di tornare indietro, abbandonando il carico. Tutti tranne uno, Rasmus Villumsen che raggiunse Eismette con Wegener e Lowe.
Eismette fu raggiunta il 30 ottobre: furono quaranta giorni d’inferno bianco.
È qui che Alfred Wegener festeggia i suoi cinquanta anni.
Pochi giorni e devono ripartire.
Pochi giorni in assoluto.
Il ritorno
Un destino la Groenlandia per Wegener; qui per lui tutto aveva acquistato senso e significato.
Deve aver pensato quando con Alfred Wegener e Rasmus Villumsen si rimette in marcia verso il campo base.
Mi piace immaginare che mentre il vento infuriava e il gelo gli stringeva anima e mani, Wegener abbia trovato calore ripensando ai suoi primi giorni all’università, a quando in famiglia non capivano i suoi interessi. A quando Kurt lo guardò sul pallone del record e, sorridendo, gli disse “Ce l’hai fatta!”.
Poi, il nulla.
12 Maggio 1931
Nell’enorme distesa di bianco candido, il 12 maggio del 1931 i soccorritori scorgono un punto nero. È lì che si dirigono.
Il punto nero è un sacco a pelo che il ghiaccio sembra quasi voler proteggere.
Alfred Wegener è lì, in quel punto indefinito a metà strada tra Eismitte e il mare dove, probabilmente colpito da un attacco cardiaco, ha conosciuto la sua ultima e strana felicità.
E mi sembra di vedere e sentire Rasmus Villumsen, l’inuit che non lo ha lasciato solo, che dopo avergli riposto le mani per l’ultima volta, chiuso il sacco a pelo, scavato un po’ di ghiaccio per farlo diventare riparo estremo e pietoso, sussurra al suo compagno di viaggio “Adesso ci penso io”.
Solo dopo, Rasmus si allontana sino a confondersi tra il bianco del ghiaccio e il celeste del cielo.
Il ghiaccio non lo ha lasciato andare e, proprio come si fa con gli amici più preziosi, ancora lo custodisce.
Di Rasmus Villumsen nessuno ha più saputo nulla.