Il nostro Natale è il Natale degli abbracci, del ritorno a casa, delle attese finite e degli affetti ritrovati.
Il Natale che Norman Rockwell, artista dell’immaginario tra i più grandi e che ha lasciato un segno profondo nell’arte del ‘900, ha disegnato così.
Una scena di vita americana dipinta nel 1948 che oggi sembra un ritratto distopico, fantascienza visionaria, dove persone che si vogliono bene sono insieme, una vicina all’altra, come dovrebbe sempre essere e come oggi, invece, è sempre meno possibile.
Il nostro Natale è nell’augurio di ritrovarsi, per quanto possibile e ogni volta che è possibile, con sé stessi e con chi ci accompagna nella vita.
Il nostro Natale è quello delle storie di casa e tra queste storie ci sono le partitelle che nelle mattine del 25 dicembre degli anni ’70 facevano in tanti, padri di famiglia che per qualche ora lasciavano case e cucine per vestire magliette, pantaloncini e scarpini, magari quelli agognati de La pantofola d’oro e che con un pallone di cuoio, un Telstar, un Tango o un sopravvissuto Superball occupavano campi da pallone, ma anche pratoni che ancora punteggiavano una Roma dove si continuava a costruire.
Partitelle tra amici che si facevano con qualunque tempo e dove i padri di famiglia si portavano dietro i figli piccoli, ma non troppo, che poi su queste sfide natalizie tessevano racconti e fantasticherie di goal epici o mangiati, parate impossibili e dribbling assassini che non li avrebbero più abbandonati.
Partitelle tra amici che non di rado diventavano la versione natalizia del più classico dei derby amatoriali, quello tra scapoli e ammogliati, vero archetipo di un costume sportivo italiano che non conosceva classi sociali.
Potrei raccontare di più d’uno che si è speso fino all’anima nelle partite di Natale, perché è chiaro che l’occasione poteva pur essere goliardica, ma la sfida era invece tutta vera e a perderla non ci voleva stare nessuno.
Potrei raccontare di più d’uno, certo, ma prendendomi una licenza personale ne voglio ricordare due in particolare.
Franco, papà di un mio compagno di classe che di partitelle di Natale non ne saltava una; spesso ci veniva a prendere a scuola con la sua Alfetta – una macchina che era un mito negli anni ’70 – e che immancabilmente suonava Lucio Battisti con cassette Stereo 8, enormi, ingombranti, impensabili.
Del figlio, di Luca, sono rimasto amico a lungo, ma non abbastanza perché la vita se l’è portato via troppo presto.
E poi c’era er Musichiere, che invece non ho mai conosciuto di persona e di cui non ho mai saputo il nome vero, ma che è come se fosse uno di famiglia perché nel tempo di lui mi hanno raccontato persone diverse e che tra di loro persino non si conoscevano.
Lui era uno degli scapoli, giocava un po’ come un jolly a secondo di dove mancavano eventualmente uomini per arrivare a fare la squadra.
Nella vita faceva l’edile, cantieri a Roma ce n’erano tanti, oppure imbiancava appartamenti o stendeva carta da parati e siccome quando lavorava cantava, tutti lo chiamavano er Musichiere e a Roma funzionava che una volta che ti eri guadagnato un nome d’arte, non solo non te lo toglieva più nessuno, ma il nome vero diventava solo un dettaglio anagrafico sconosciuto ai più.
È passato del tempo, non ho idea di dove siano e che vita abbiano fatto nel frattempo, ma spero che ovunque siano ricordino le loro partitelle di Natale o che, in caso, abbiamo ritrovato i vecchi amici per non smettere più di giocarle.
Ecco, il Natale che Sportmemory augura a tutti è quello dello stare insieme.
Questo e gli altri che verranno.