Ci sono libri che raccontano storie e ci sono storie che hanno bisogno di tanti libri per essere raccontate.
Gli anni settanta di storie sono un crogiuolo. Complessi, sfaccettati, grigi e al tempo stesso esuberanti, iconici, terribili. Da noi gli anni settanta significano l’autunno caldo del ’69, le stragi in piazza e sui treni, piombo che ammazza ragazzi, sindacalisti, poliziotti, magistrati e gente qualunque, le “paranze” nei ristoranti per rapinare incasso, pellicce e portafogli ai clienti, l’austerity che spegne le luci e ferma le domeniche, gli sceneggiati televisivi in bianco e nero, il colore di Sandokan e de l’Odissea, le file ai caselli di ferragosto. Nel bene e nel male, un’Italia così non c’è mai più stata.
In questa grande metafora c’è lo sport che non è una storia a sé, ma una storia nella storia
Storia grande. Grande perché lo sport è spirito arcaico, primordiale, capace di beffare il tempo a suo piacere. Uno scontro tra giganti, lo so. Non sono il solo a saperlo, però. Questa cosa la deve sapere anche Augusto Grandi. Non lo conosco, non ci ho mai parlato, ma provo a intuire. Il libro che mi capita tra le mani è suo. Un libro, una storia. O meglio, un’altra storia. Della Valanga Azzurra si è detto, scritto e visto tanto. Insomma, almeno noi boomer qualcosa ne sappiamo. Non tutto però, perché c’è sempre qualcosa che in quella che poi diventa narrazione collettiva trova spazio solo sotto il tappeto, ambito polveroso da dove è sempre un po’ difficile uscire. Giornalista, scrittore, ad Augusto Grandi un po’ di polvere deve piacere, tanto da andarsela a cercare per far uscire quello che nasconde.
Si poteva dire altro e ancora della Valanga Azzurra?
Sì, si poteva, ma ho l’impressione che Grandi sia andato oltre. Ho l’impressione che lui fosse convinto che più che poter raccontare, si doveva raccontare altro. È così che, forte del caso che nel corso della sua vita giornalistica lo ha fatto prima incontrare e poi entrare in confidenza con Giuliano Besson, eccolo decidere di mettere qualche puntino sulle i.
Il soggetto in effetti si presta. Non parlo di Grandi, parlo di Giuliano Besson.
Discesista libero, Giuliano Besson è personaggio che qualunque autore potrebbe piazzare senza difficoltà nel suo romanzo, uno di quei personaggi che se non ci sono, mancano. Uno di quelli che se ci sono, invece, il romanzo lo tengono in piedi.
È nel dialogo tra i due, Grandi e Besson, che prende forma un ibrido letterario, un ircocervo che altalena tra cronaca e memoria, aneddoti e grande storia, sport vitale e monachesimo montanaro.

Una storia preziosa
“Giuliano Besson: il ragazzo terribile della Valanga Azzurra” in libreria per i tipi di Cicles, è una storia preziosa a cui Grandi ha tolto la polvere di dosso. La Valanga Azzurra più che un fenomeno sportivo è stato un fermento che, dello sport, è stato capace di valicare il perimetro. Giuliano Besson di questo fermento è stato attore creativo, caratteriale e, soprattutto, irregolare. Che Dio salvi gli irregolari! E a proposito di Dio se è vero l’adagio popolare che vorrebbe che Dio prima li fa e poi li accoppia, nel rigoroso rispetto dei generi, questo è accaduto anche lì, nella Valanga dove Besson trova un altro simile a lui più simile degli altri, Stefano Anzi, discesista libero anche lui.
Liberi tutti e due Besson e Anzi.
Liberi di guardare in faccia le cose, di chiamarle con il loro nome – pensate il lusso degli anni settanta, chiamare le cose senza ipocrisia, per quello che erano, per quello che sono, provateci oggi nell’infosfera degli influencer -.
Liberi, Giuliano Besson e Stefano Anzi, di criticare il sistema della Federazione, liberi di farsi portavoce e scudo per gli altri. Scudo già. Scudo che ripara gli altri, mica loro. Sono loro due infatti che a 25 anni vengono radiati per aver portato avanti- a nome di tutti – rivendicazioni contro il sistema di gestione della sicurezza degli atleti e per il miglioramento del loro trattamento economico.
Radiati a 25 anni significa carriera finita. Radiati a 25 anni significa fine pena mai.

Poteva essere tutto qui? No, non poteva.
Loro erano irregolari, capaci di guardarsi intorno, di capire cosa doveva cambiare e di capire come fare per migliorarlo. Di gente così i vecchi una volta dicevano che era gente nata con il bernoccolo. Fatto è che Anzi e Besson mettono su un’azienda, diventano un brand e iniziano ad innovare tecnica e materiali da sci. Persino i colori innovano. Un successo, un incredibile passo avanti per tutti, non solo per chi va in montagna. Le polemiche gli rimpallano anzi, si caricano anche quelle sulle spalle e ne fanno spallucce. La discesa è libera, non ce n’è per nessuno, chi ha fegato scende e loro di scendere veloci non hanno mai smesso.
Una piccola miniera di aneddoti il libro di Grandi, aneddoti sportivi certo, ma soprattutto di contesto, quelli che la narrazione un po’ troppo ligia tende a dimenticare e che, se anche ricorda, non collega mai gli uni agli altri, ma lascia appesi al caso del volenteroso o intuitivo o smaliziato lettore.
Ecco, questo, nel libro di Augusto Grandi non accade. Mi sembra un merito non da poco. Non vi resta che leggerlo.